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Brescia, 21 gennaio 2017
Coding e Robotica Educativa
Una personale semiseria riflessione su una
nuova didattica
Luca Scalzullo
Se pensi al futuro tra un anno, pianta un albero.
Se pensi al futuro tra dieci anni, piantane dieci.
Se pensi a futuro tra cento anni, educa i bambini.
(proverbio polacco)
Penso alla mia breve carriera da docente, a questi lunghi, lunghissimi tre anni di
insegnamento e a quello che è successo la prima volta che sono entrato in aula. Ero pronto,
pronto il discorso, pronta la lezione, e valutata ogni possibile reazione a quello che sarebbe potuto
succedere, ma ovviamente non ero pronto a quello che realmente successe.
Mi guardavano, mi osservavano, mi scrutavano profondamente, con attenzione, con
sospetto, con curiosità malcelata e con occhi di fuoco pronti al giudizio, alla più piccola
impercettibile incertezza umana e professionale, pronti tutti a farti a pezzi. Non, non parlo di
predatori della savana, ma soltanto dei miei studenti.
Sono passati tre anni e da quel giorno, ogni volta che entro in classe, ogni volta che sto per
iniziare una lezione, ogni volta che sto per parlare, mi prende il blocco allo stomaco e rivedo quegli
occhi. Ma non è più uno sguardo di timore, né tantomeno indagatore, ma soltanto lo sguardo di
chi si aspetta qualcosa da te, che prova ad immaginare quello che stai per insegnargli, prova a
capire, senza ovviamente rendersene conto, se quello che vuoi trasferirgli gli servirà o no, ed il
peso delle responsabilità di fa grande.
Vi siete mai chiesti che futuro ci sarà per i vostri studenti? Vi siete mai chiesti che lavoro
faranno? E quando sbattete i piedi a terra infuriati per una loro interrogazione andata male, o vi
girate indemoniati perché un ragazzino ipercinetico corre senza sosta rischiando di farsi male,
siete solo l’ennesimo falso profeta che farà parte della sua vita, o state effettivamente insegnando
qualcosa di definitivo per la loro futura crescita (in effetti quando spiego cosa è una zangola, una
turbina a vapore o la geometrica costruzione di un dodecagono regolare, mi chiedo quante volete
nella loro vita i miei ragazzi utilizzeranno queste nozioni fondamentali alla sopravvivenza)?
Beh io ci ho provato ad immaginare il futuro e lo ho fatto guardando il passato, tutto il
nostro passato. Se mi concedete un pizzico di pazienza ve lo racconto.
Mi sembra di vedere una vera e propria vertiginosa rivoluzione in atto. Una rivoluzione
sociale, tecnologica talmente vertiginosa e rapida da farci apparire il mondo fermo ed immobile.
Pensate ad una macchina, alla prima macchina, e pensate alle meraviglie che oggi la tecnologia ci
ha regalato. Ed un aereo? Ve lo ricordate l’aereo dei fratelli Wright? Lo avete mai confrontato con
uno stealth, capace di volare da solo rendendosi invisibile, totalmente invisibile ai radar?
Continuo a farmi domande sperando che voi possiate darmi la risposta. Ma il dott. Benz
immaginava il futuro dell’industria automobilistica? E i beneamati fratelli Wright potevano
immaginare degli infiniti guai dell’Alitalia? Credo di no, ma di rimando sapevano di essere sulla
cresta di un’onda inarrestabile che portava al futuro. E quanto veloce è stato questo futuro? Beh
scopriamolo tra poco.
Un altro esempio, vale la pena farlo. Cosa ne pensate di Guglielmo Marconi? Einstein ebbe
a dire, ripensando agli studi sul nucleare ed al progetto Manhattan che portò alla creazione della
bomba atomica che se avesse immaginato a cosa sarebbero serviti i suoi studi, probabilmente
avrebbe iniziato a fare l’idraulico. Ecco, cosa avrebbe fatto Guglielmo Marconi se avesse saputo
che il suo sgraziato telegrafo sarebbe diventato un modernissimo smartphone? Il volto triste della
fotografia la dice davvero lunga.
Sono andato avanti e davanti a tanto sviluppo rapido quanto inconsapevole, ho allargato il
raggio di analisi agli ultimi 3000 anni di storia umana provando a racchiuderla in una sola ora. Sì
una sola piccola ora, cinquanta anni di storia in ogni minuto di questa ora frenetica.
A ragionare su tutti gli eventi storici ci si rende conto che da quando nel tardo diciottesimo
secolo James Watt mise a punto il primo motore a vapore, nel già attivo terremoto della
Rivoluzione Industriale, ci fu un vero e proprio sussulto. Il motore a vapore aumentò a dismisura
l’energia a disposizione dell’uomo che col progresso ottenne in breve mezzi più rapidi su strada e
via mare, lo sviluppo delle ferrovie facendo impennare esponenzialmente la curva del
cambiamento. Se mettessimo in questo ipotetico orologio alcuni di questi eventi scopriremmo
che:
 4 min fa: motore a combustione interna (François Isaac de Rivaz, 1807);
 2,5 min fa: automobile a motore (Karl Benz, 1885);
 2 min fa: primo volo di un velivolo a motore (F.lli Wright, 1903);
 1,9 min fa: propulsione a razzo (Robert Goddard, 1915);
 1,5 min fa: motore a reazione (Frank Whittle, 1930);
 1 min fa: Primo razzo in orbita intorno alla terra (sputnik, 1957);
 50 sec fa: primo atterraggio dell’uomo sulla luna (Apollo 11, 1969);
 30 sec fa: primo volo dello Space Shuttle (1981);
 2 sec fa: auto ibrida terra aria (2009);
 1 sec fa: velivolo spaziale senza equipaggio (2010).
E se parlassimo di comunicazioni? Con lo stesso giochino potremmo dire che:
 11 min fa: stampa a caratteri mobili (1440.1450);
 3,4 min fa: codice Morse (1838-1844);
 2,7 min fa: telefono (1875);
 2,5 min fa: radio (1885);
 1,6 min fa: televisione in bianco e nero (1929);
 54 sec fa: fax (1966);
 41 sec fa: personal computer (1977);
 38 sec fa: telefono cellulare analogico (1979);
 25 sec fa: World Wide Web (1990);
 22 sec fa: SMS (1993);
 13 sec fa: banda larga (2000);
 1 sec fa: televisione in 3D (2010)1
.
Ecco. Il gioco mostrato diventa serio se pensiamo a quanto rapido ed esponenziale sia stato il
cambiamento a cui abbiamo assistito negli ultimi minuti e a quanto rapido potrebbe esserlo in
futuro. Siamo in grado di prevedere questo futuro? Siamo in grado di individuarne il percorso ed il
punto di arrivo? E cosa aspetta ai nostri figli e ai nostri alunni?
Un pericolo esiste ed è stato splendidamente individuato dal più grande sociologo dei nostri
giorni, morto da poche settimane, Zygmut Baumann che ci ha descritto la nostra società come una
società liquida, in cui “l'incertezza che attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione
dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. Esiste un'esclusione sociale che non si basa più
sul non poter comprare l'essenziale, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità.
Il povero, nella vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma si sente frustrato se
non riesce a sentirsi accettato nel ruolo di consumatore. In tal modo, in una società che vive per il
consumo, tutto si trasforma in merce, incluso l'essere umano.”
1
Tratto da “Fuori di testa – perché la scuola uccide la creatività”. - Ken Robinson, Erikson ed.
A leggerle queste parole mi sembra di vedere i nostri studenti, nella loro noia, nella loro
ipercineticità, nella loro incapacità di reggere ai troppi rapidi stimoli. Diremmo tutti che non può
che essere la SCUOLA il luogo dove deve essere affrontata questa sfida. Ma in tutto questo tempo,
LA SCUOLA come è cambiata?
Risposta immediata, non è cambiata affatto se non nel colore della fotografia. Continua ad
essere la stessa scuola di quarant’anni fa, la stessa scuola che ha cresciuto anche noi, la stessa
scuola che, tuttavia, risponde oggi ad esigenze vecchie, superate e che non possono più essere
considerate valide. Questa scuola, mi perdonino gli storici, è la scuola del dopoguerra, di una Italia
rasa al suolo, in ginocchio, da ricostruire dal profondo delle coscienze. Una Italia fatta di
analfabeti, di ignoranti e di una classe media, appena nata, e che aveva necessità di far valere i
propri diritti, di raggiungere una conoscenza ed n grado di cultura comune, di omologarsi e di
diventare un ingranaggio del tessuto produttivo. Ecco allora la conoscenza, il nozionismo e la
stessa disposizione fisica delle aule, con i banchi, le sedie la disposizione militare, la cattedra come
muro, ecco la necessità di raggiungere come meta “il pezzo di carta”, il diploma come status
sociale di affrancamento dalla povertà culturale del dopoguerra. È stata una crescita sociale
trionfale, ma che oggi non ha più ragione di esistere. Mi viene in mente il video originale
dell’album The Wall dei Pink Floyd (1979) e quell’urlo disperato contro la massificazione della
cultura “Ehi Teacher leave our kids alone”.
Il mio caro amico Francesco Piersoft Paolicelli mi ha
mostrato un dipinto che ho incollato qui accanto. Si
chiama “l’imbuto di Norimberga” ed era affisso nelle
scuole tedesche tra il XV ed il XVI secolo. Non ha bisogno
di particolari spiegazioni perché rappresenta
straordinariamente il nostro sistema scolastico. Una
maestro benevolo, sorridente, a tratti anche
rassicurante che versa con il suo sapiente imbuto, tutto
il sapere e le conoscenze nella testa dell’allegro
studente, poco più di un mero contenitore.
Evidentemente oggi non possiamo più trattare i nostri
studenti alla stregua di contenitori né considerarlo meri
depositare del nostro bagaglio di conoscenze.
Penso a Carmen, una mia dolcissima alunna, che a dodici
anni deve badare ai fratellini più piccoli visto che i genitori tornano tardi dal lavoro. Vuole fare
l’estetista da grande, sogna un grosso salone e tanti dipendenti ed un ambiente allegro e sempre
sorridente, come lei. Ora, secondo il modello attuale, io, insegnante indegno di tecnologia, devo
insistere nel riempirle la testa di nozioni sulla zangola (prima o poi dovrò decidermi ad andare a
vedere su wikipedia di cosa si tratta), sulle turbine a vapore e su non so quale altre diavoleria. Con
quali speranze? Con quali aspettative? No, il modello “tutti professori universitari” non può più
funzionare.
È che forse si è creata una spaccatura enorme tra la mia generazione e quella dei miei
studenti separazione che prima non era così netta, muro divisorio dovuto alla tecnologia ed al
digitale. Io, la mia generazione, i nuovi schiavi del cellulare siamo stati definiti IMMIGRATI
DIGITALI, la generazione a cavallo tra il periodo in cui, uscito di casa, eri irrintracciabile e quello
della connessione continua e totale, anche quando, nel chiuso del tuo sancta sanctorum (che nel
mio caso coincide casualmente col bagno) tenti di scappare dal mondo per riflettere sui massimi
sistemi.
E vi chiedo di provare a scoprire lo stupore incredulo negli occhi dei vostri studenti quando
raccontate loro che uscivate ed andavate ad un appuntamento senza mandarvi un messaggio ogni
tre minuti, che con i fidanzati ci si chiamava dalle cabine telefoniche ad orari stabiliti, che fare una
ricerca costava ore di copia da amanuense sull’unica enciclopedia stampata dalla Treccani un tutta
Italia, e che non si ricevevano messaggi minatori dalla mamma infuriata ad ogni microsecondo di
ulteriore ritardo sull’orario di rientro stabilito. Per loro sarà più facile credere agli unicorni.
Noi, tuttavia, nonostante invidiamo l’intimo legame dei nostri studenti con il digitale come
in una rinnovata invidia poenis di Freudiana memoria, non ne siamo così irrimediabilmente schiavi.
E loro? E gli studenti?
Lui è mio figlio, il mio Angelo, il mio tesoro, tutta la mia vita. Una meraviglia vero? Bene lui
fa parte di quelli che comunemente sono definiti NATIVI DIGITALI2
. Angelo ha cominciato a parlare
poco prima dei quattro anni, in netto ritardo rispetto ai coetanei (la pigrizia è gene paterno), ma
già a due anni tentava di ingrandire con le dita una fotografia su una rivista cartacea (distrutta
poco dopo aver fallito il tentativo (caratteraccio è gene materno). La verità, tuttavia, è altra e la
definizione di Prensky è troppo ottimista. Il saper usare delle determinate funzioni tecnologiche, o
un device piuttosto che un altro, non rappresenta un asset valido, non rappresenta, come si
direbbe oggi, una competenza digitale. Una sera a cena, il posto migliore dove discutere di
qualsiasi cosa, con colleghi fraterni, nacque una variante alla definizione. In realtà ci troviamo di
fronte solo a PRIMITIVI DIGITALI, travolti da una rivoluzione che non sono in grado di gestire
autonomamente, ed il cerchio è chiuso.
2
Mark Prensky – Digital Natives, Digital Immigrants - 2001
Converrete con me che sono tutti bravi ad usare cellulari, computer, applicazioni, persino
videogiochi fatti da altri, fatti per altre esigenze, esigenze non loro. E gli studenti, i nostri ragazzi
rischiano, in accordo totale con quanto letto nella definizione di società liquida di Bauman, di
trasformare le esigenze altrui nelle proprie e di sentirsi emarginati quando non riescono a
soddisfarle. Occorre dunque trasformarli da oggetti passivi del sapere tecnologico e digitale, in
soggetti pensanti ed attivi, capaci di gestire, modificare, ricreare e ripensare la tecnologia a loro
disposizione a seconda delle necessità.
Mi viene in mente questo film, 2001 Odissea nello Spazio, di Stanley Kubrik. La scena è
meravigliosa. Dopo secoli di immobilismo, l’apparizione del grande monolito nero spinge
all’evoluzione la tribù di scimmie. Una di loro, trovato un grande osso, appartenuto probabilmente
ad un vecchio estinto professore, capisce che può usarlo come mezzo, come strumento, come
arma. Eccolo il suggerimento. Trasformiamo la tecnologia a nostra disposizione ed il cui linguaggio
è così naturalmente compreso dagli studenti, in mezzi che li facciano evolvere fino a diventare
davvero Nativi digitali. È questo il nostro interessantissimo ruolo, quello di traghettatori verso un
passaggio epocale nella loro vita. Armiamoli di un motore velocissimo che consenta a tutti loro,
qualunque sarà il loro futuro, da Carmen che vuole fare l’estetista a Vincenzo che vuole essere un
ingegnere informatico, di correre al passo dei cambiamenti a cui assisteranno e di cui, si spera,
saranno protagonisti.
Ma la scuola nello stato in cui si trova, non può affrontare questa sfida. Non possiamo
permettere che, in ogni riforma, si chieda come unico cambiamento, l’aumento di standard che
non rappresentano più ed in nessuna maniera, la crescita culturale e sociale dei nostri ragazzi.
Il voto, l’interrogazione, il compito in classe, la prova comune, la prova invalsi e tutte
queste diavolerie, distolgono i ragazzi e gli insegnanti dal vero obiettivo, la creazione di un
rapporto umano basato sul trasferimento non di conoscenze, non solo di conoscenze, ma di
esperienze alla ricerca delle sviluppo di idee, di visioni, di sogni da realizzare, a cui dare un corpo.
La capacità di tirare fuori da ogni studente il suo dono, la sua caratteristica migliore, il suo punto di
forza che finga da centro di nucleazione della sua crescita deve essere l’imperativo categorico della
nuova didattica e della nuova scuola.
È qui che nasce il significato di INNOVAZIONE. Occorre declinare nella scuola un nuovo
paradigma che stravolga completamente il precedente. Occorre implementare lo sviluppo di
IMMAGINAZIONE e CREATIVITÀ dove immaginazione e creatività non rappresentano
l’imprevedibilità, l’anticonformismo, l’imprevedibilità rappresentata da una subcultura di nicchia in
voga in gran parte degli anni settanta ed ottanta. No, per IMMAGINAZIONE si intende la capacità
di elaborare idee al di là della mera percezione sensoriale della realtà e la CREATIVITÀ è il processo
con il quale si sviluppano idee originali che hanno valore e che INNOVANDO prendono corpo.
Possiamo farlo? Non lo so, io nelle mie materie ci provo. Sono facilitato da quello che
insegno (tecnologia per chi non lo avesse capito), dai mezzi a disposizione, e che sia il CODING, la
ROOTICA, MICRO:BIT piuttosto che il LEGO MINDSTORM EV3 poco importa. Per fare quello che ho
descritto basta anche la carta, la lavagna o qualsiasi mezzo capace di accendere gli occhi dei nostri
ragazzi. Nelle altre? Nella scuola? È possibile questo cambio epocale?
Vi rispondo con una storia. Non so se conoscete SAM COOKE (1931-1964), forse il più
grande cantante rythm and blues della storia. A parte le dicerie che vogliono abbia fatto un patto
col diavolo per ottenere la voce che lo rese famoso, si distinse nella sua breve vita e con le sue
canzoni, per la strenua difesa dei diritti delle minoranze nere in un’America che cominciava a
ribellarsi al razzismo dilagante. Martin Luther King, Malcom X, la figura di Cassius Clay Mohammad
Ali e nella musica SAM COOKE e Bob Dylan animarono quegli anni.
Nel 1962 Bob Dylan scrisse una delle sue canzoni più famose, Blowing in The Wind in cui si
chiedeva "how many years can some people exist, before they're allowed to be free?“ (quanti anni
ancora un popole deve esistere prima di essere considerato libero?). L’anno dopo Sam Cooke
scrisse una canzone meravigliosa che intitolò originariamente Fewer the you think (prima di quello
che pensi), proprio in risposta al grande cantautore premio Nobel.
La canzone alla fine fu intitolata A CHANGE IS GONNA COME (il cambiamento sta arrivando
https://www.youtube.com/watch?v=wEBlaMOmKV4 ), titolo ancora più suggestivo. Cosa centra
con noi e con la scuola? Beh facile da raccontare. La verità è che la nascita spontanea sui social di
una rete di colleghi ed amici che scambiano idee, buone pratiche con il loro carico di condivisione,
di contaminazione, di scambio culturale continuo ed ininterrotto ha creato una selezione naturale
di innovazione che va al di là di ogni riforma della scuola buona o cattiva che sia. Siamo finalmente
noi da soli a scegliere cosa e come insegnare, a sperimentare, a promuovere e bocciare pratiche e
tecniche con vantaggio indiscusso per le nostre classi ed i nostri studenti. Questa volta A CHANGE
IS GONNA COME lo dico io a gran voce (non lo canto sono per rispetto al grande SAM COOKE), ed
il cambiamento, il vero cambiamento di paradigma è più vicino di quello che crediate.
Chiudo la lunga chiacchierata con un’ultima cosa. Ricordate gli sguardi inquisitori dei
ragazzi all’inizio di questo articolo? Beh, insegnando col cuore e con attenzione al loro futuro
cambiano come nelle foto.
Luca Scalzullo

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Una nuova didattica

  • 1. Brescia, 21 gennaio 2017 Coding e Robotica Educativa Una personale semiseria riflessione su una nuova didattica Luca Scalzullo
  • 2. Se pensi al futuro tra un anno, pianta un albero. Se pensi al futuro tra dieci anni, piantane dieci. Se pensi a futuro tra cento anni, educa i bambini. (proverbio polacco)
  • 3. Penso alla mia breve carriera da docente, a questi lunghi, lunghissimi tre anni di insegnamento e a quello che è successo la prima volta che sono entrato in aula. Ero pronto, pronto il discorso, pronta la lezione, e valutata ogni possibile reazione a quello che sarebbe potuto succedere, ma ovviamente non ero pronto a quello che realmente successe. Mi guardavano, mi osservavano, mi scrutavano profondamente, con attenzione, con sospetto, con curiosità malcelata e con occhi di fuoco pronti al giudizio, alla più piccola impercettibile incertezza umana e professionale, pronti tutti a farti a pezzi. Non, non parlo di predatori della savana, ma soltanto dei miei studenti. Sono passati tre anni e da quel giorno, ogni volta che entro in classe, ogni volta che sto per iniziare una lezione, ogni volta che sto per parlare, mi prende il blocco allo stomaco e rivedo quegli occhi. Ma non è più uno sguardo di timore, né tantomeno indagatore, ma soltanto lo sguardo di chi si aspetta qualcosa da te, che prova ad immaginare quello che stai per insegnargli, prova a capire, senza ovviamente rendersene conto, se quello che vuoi trasferirgli gli servirà o no, ed il peso delle responsabilità di fa grande. Vi siete mai chiesti che futuro ci sarà per i vostri studenti? Vi siete mai chiesti che lavoro faranno? E quando sbattete i piedi a terra infuriati per una loro interrogazione andata male, o vi girate indemoniati perché un ragazzino ipercinetico corre senza sosta rischiando di farsi male, siete solo l’ennesimo falso profeta che farà parte della sua vita, o state effettivamente insegnando qualcosa di definitivo per la loro futura crescita (in effetti quando spiego cosa è una zangola, una
  • 4. turbina a vapore o la geometrica costruzione di un dodecagono regolare, mi chiedo quante volete nella loro vita i miei ragazzi utilizzeranno queste nozioni fondamentali alla sopravvivenza)? Beh io ci ho provato ad immaginare il futuro e lo ho fatto guardando il passato, tutto il nostro passato. Se mi concedete un pizzico di pazienza ve lo racconto. Mi sembra di vedere una vera e propria vertiginosa rivoluzione in atto. Una rivoluzione sociale, tecnologica talmente vertiginosa e rapida da farci apparire il mondo fermo ed immobile. Pensate ad una macchina, alla prima macchina, e pensate alle meraviglie che oggi la tecnologia ci ha regalato. Ed un aereo? Ve lo ricordate l’aereo dei fratelli Wright? Lo avete mai confrontato con uno stealth, capace di volare da solo rendendosi invisibile, totalmente invisibile ai radar? Continuo a farmi domande sperando che voi possiate darmi la risposta. Ma il dott. Benz immaginava il futuro dell’industria automobilistica? E i beneamati fratelli Wright potevano immaginare degli infiniti guai dell’Alitalia? Credo di no, ma di rimando sapevano di essere sulla cresta di un’onda inarrestabile che portava al futuro. E quanto veloce è stato questo futuro? Beh scopriamolo tra poco. Un altro esempio, vale la pena farlo. Cosa ne pensate di Guglielmo Marconi? Einstein ebbe a dire, ripensando agli studi sul nucleare ed al progetto Manhattan che portò alla creazione della bomba atomica che se avesse immaginato a cosa sarebbero serviti i suoi studi, probabilmente avrebbe iniziato a fare l’idraulico. Ecco, cosa avrebbe fatto Guglielmo Marconi se avesse saputo
  • 5. che il suo sgraziato telegrafo sarebbe diventato un modernissimo smartphone? Il volto triste della fotografia la dice davvero lunga. Sono andato avanti e davanti a tanto sviluppo rapido quanto inconsapevole, ho allargato il raggio di analisi agli ultimi 3000 anni di storia umana provando a racchiuderla in una sola ora. Sì una sola piccola ora, cinquanta anni di storia in ogni minuto di questa ora frenetica. A ragionare su tutti gli eventi storici ci si rende conto che da quando nel tardo diciottesimo secolo James Watt mise a punto il primo motore a vapore, nel già attivo terremoto della Rivoluzione Industriale, ci fu un vero e proprio sussulto. Il motore a vapore aumentò a dismisura l’energia a disposizione dell’uomo che col progresso ottenne in breve mezzi più rapidi su strada e via mare, lo sviluppo delle ferrovie facendo impennare esponenzialmente la curva del cambiamento. Se mettessimo in questo ipotetico orologio alcuni di questi eventi scopriremmo che:  4 min fa: motore a combustione interna (François Isaac de Rivaz, 1807);  2,5 min fa: automobile a motore (Karl Benz, 1885);  2 min fa: primo volo di un velivolo a motore (F.lli Wright, 1903);  1,9 min fa: propulsione a razzo (Robert Goddard, 1915);  1,5 min fa: motore a reazione (Frank Whittle, 1930);  1 min fa: Primo razzo in orbita intorno alla terra (sputnik, 1957);  50 sec fa: primo atterraggio dell’uomo sulla luna (Apollo 11, 1969);
  • 6.  30 sec fa: primo volo dello Space Shuttle (1981);  2 sec fa: auto ibrida terra aria (2009);  1 sec fa: velivolo spaziale senza equipaggio (2010). E se parlassimo di comunicazioni? Con lo stesso giochino potremmo dire che:  11 min fa: stampa a caratteri mobili (1440.1450);  3,4 min fa: codice Morse (1838-1844);  2,7 min fa: telefono (1875);  2,5 min fa: radio (1885);  1,6 min fa: televisione in bianco e nero (1929);  54 sec fa: fax (1966);  41 sec fa: personal computer (1977);  38 sec fa: telefono cellulare analogico (1979);  25 sec fa: World Wide Web (1990);  22 sec fa: SMS (1993);  13 sec fa: banda larga (2000);  1 sec fa: televisione in 3D (2010)1 . Ecco. Il gioco mostrato diventa serio se pensiamo a quanto rapido ed esponenziale sia stato il cambiamento a cui abbiamo assistito negli ultimi minuti e a quanto rapido potrebbe esserlo in futuro. Siamo in grado di prevedere questo futuro? Siamo in grado di individuarne il percorso ed il punto di arrivo? E cosa aspetta ai nostri figli e ai nostri alunni? Un pericolo esiste ed è stato splendidamente individuato dal più grande sociologo dei nostri giorni, morto da poche settimane, Zygmut Baumann che ci ha descritto la nostra società come una società liquida, in cui “l'incertezza che attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. Esiste un'esclusione sociale che non si basa più sul non poter comprare l'essenziale, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità. Il povero, nella vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma si sente frustrato se non riesce a sentirsi accettato nel ruolo di consumatore. In tal modo, in una società che vive per il consumo, tutto si trasforma in merce, incluso l'essere umano.” 1 Tratto da “Fuori di testa – perché la scuola uccide la creatività”. - Ken Robinson, Erikson ed.
  • 7. A leggerle queste parole mi sembra di vedere i nostri studenti, nella loro noia, nella loro ipercineticità, nella loro incapacità di reggere ai troppi rapidi stimoli. Diremmo tutti che non può che essere la SCUOLA il luogo dove deve essere affrontata questa sfida. Ma in tutto questo tempo, LA SCUOLA come è cambiata? Risposta immediata, non è cambiata affatto se non nel colore della fotografia. Continua ad essere la stessa scuola di quarant’anni fa, la stessa scuola che ha cresciuto anche noi, la stessa scuola che, tuttavia, risponde oggi ad esigenze vecchie, superate e che non possono più essere considerate valide. Questa scuola, mi perdonino gli storici, è la scuola del dopoguerra, di una Italia rasa al suolo, in ginocchio, da ricostruire dal profondo delle coscienze. Una Italia fatta di analfabeti, di ignoranti e di una classe media, appena nata, e che aveva necessità di far valere i propri diritti, di raggiungere una conoscenza ed n grado di cultura comune, di omologarsi e di diventare un ingranaggio del tessuto produttivo. Ecco allora la conoscenza, il nozionismo e la stessa disposizione fisica delle aule, con i banchi, le sedie la disposizione militare, la cattedra come muro, ecco la necessità di raggiungere come meta “il pezzo di carta”, il diploma come status
  • 8. sociale di affrancamento dalla povertà culturale del dopoguerra. È stata una crescita sociale trionfale, ma che oggi non ha più ragione di esistere. Mi viene in mente il video originale dell’album The Wall dei Pink Floyd (1979) e quell’urlo disperato contro la massificazione della cultura “Ehi Teacher leave our kids alone”. Il mio caro amico Francesco Piersoft Paolicelli mi ha mostrato un dipinto che ho incollato qui accanto. Si chiama “l’imbuto di Norimberga” ed era affisso nelle scuole tedesche tra il XV ed il XVI secolo. Non ha bisogno di particolari spiegazioni perché rappresenta straordinariamente il nostro sistema scolastico. Una maestro benevolo, sorridente, a tratti anche rassicurante che versa con il suo sapiente imbuto, tutto il sapere e le conoscenze nella testa dell’allegro studente, poco più di un mero contenitore. Evidentemente oggi non possiamo più trattare i nostri studenti alla stregua di contenitori né considerarlo meri depositare del nostro bagaglio di conoscenze. Penso a Carmen, una mia dolcissima alunna, che a dodici anni deve badare ai fratellini più piccoli visto che i genitori tornano tardi dal lavoro. Vuole fare l’estetista da grande, sogna un grosso salone e tanti dipendenti ed un ambiente allegro e sempre sorridente, come lei. Ora, secondo il modello attuale, io, insegnante indegno di tecnologia, devo insistere nel riempirle la testa di nozioni sulla zangola (prima o poi dovrò decidermi ad andare a vedere su wikipedia di cosa si tratta), sulle turbine a vapore e su non so quale altre diavoleria. Con
  • 9. quali speranze? Con quali aspettative? No, il modello “tutti professori universitari” non può più funzionare. È che forse si è creata una spaccatura enorme tra la mia generazione e quella dei miei studenti separazione che prima non era così netta, muro divisorio dovuto alla tecnologia ed al digitale. Io, la mia generazione, i nuovi schiavi del cellulare siamo stati definiti IMMIGRATI DIGITALI, la generazione a cavallo tra il periodo in cui, uscito di casa, eri irrintracciabile e quello della connessione continua e totale, anche quando, nel chiuso del tuo sancta sanctorum (che nel mio caso coincide casualmente col bagno) tenti di scappare dal mondo per riflettere sui massimi sistemi. E vi chiedo di provare a scoprire lo stupore incredulo negli occhi dei vostri studenti quando raccontate loro che uscivate ed andavate ad un appuntamento senza mandarvi un messaggio ogni tre minuti, che con i fidanzati ci si chiamava dalle cabine telefoniche ad orari stabiliti, che fare una ricerca costava ore di copia da amanuense sull’unica enciclopedia stampata dalla Treccani un tutta Italia, e che non si ricevevano messaggi minatori dalla mamma infuriata ad ogni microsecondo di ulteriore ritardo sull’orario di rientro stabilito. Per loro sarà più facile credere agli unicorni. Noi, tuttavia, nonostante invidiamo l’intimo legame dei nostri studenti con il digitale come in una rinnovata invidia poenis di Freudiana memoria, non ne siamo così irrimediabilmente schiavi. E loro? E gli studenti?
  • 10. Lui è mio figlio, il mio Angelo, il mio tesoro, tutta la mia vita. Una meraviglia vero? Bene lui fa parte di quelli che comunemente sono definiti NATIVI DIGITALI2 . Angelo ha cominciato a parlare poco prima dei quattro anni, in netto ritardo rispetto ai coetanei (la pigrizia è gene paterno), ma già a due anni tentava di ingrandire con le dita una fotografia su una rivista cartacea (distrutta poco dopo aver fallito il tentativo (caratteraccio è gene materno). La verità, tuttavia, è altra e la definizione di Prensky è troppo ottimista. Il saper usare delle determinate funzioni tecnologiche, o un device piuttosto che un altro, non rappresenta un asset valido, non rappresenta, come si direbbe oggi, una competenza digitale. Una sera a cena, il posto migliore dove discutere di qualsiasi cosa, con colleghi fraterni, nacque una variante alla definizione. In realtà ci troviamo di fronte solo a PRIMITIVI DIGITALI, travolti da una rivoluzione che non sono in grado di gestire autonomamente, ed il cerchio è chiuso. 2 Mark Prensky – Digital Natives, Digital Immigrants - 2001
  • 11. Converrete con me che sono tutti bravi ad usare cellulari, computer, applicazioni, persino videogiochi fatti da altri, fatti per altre esigenze, esigenze non loro. E gli studenti, i nostri ragazzi rischiano, in accordo totale con quanto letto nella definizione di società liquida di Bauman, di trasformare le esigenze altrui nelle proprie e di sentirsi emarginati quando non riescono a soddisfarle. Occorre dunque trasformarli da oggetti passivi del sapere tecnologico e digitale, in soggetti pensanti ed attivi, capaci di gestire, modificare, ricreare e ripensare la tecnologia a loro disposizione a seconda delle necessità. Mi viene in mente questo film, 2001 Odissea nello Spazio, di Stanley Kubrik. La scena è meravigliosa. Dopo secoli di immobilismo, l’apparizione del grande monolito nero spinge all’evoluzione la tribù di scimmie. Una di loro, trovato un grande osso, appartenuto probabilmente ad un vecchio estinto professore, capisce che può usarlo come mezzo, come strumento, come arma. Eccolo il suggerimento. Trasformiamo la tecnologia a nostra disposizione ed il cui linguaggio è così naturalmente compreso dagli studenti, in mezzi che li facciano evolvere fino a diventare davvero Nativi digitali. È questo il nostro interessantissimo ruolo, quello di traghettatori verso un passaggio epocale nella loro vita. Armiamoli di un motore velocissimo che consenta a tutti loro, qualunque sarà il loro futuro, da Carmen che vuole fare l’estetista a Vincenzo che vuole essere un ingegnere informatico, di correre al passo dei cambiamenti a cui assisteranno e di cui, si spera, saranno protagonisti. Ma la scuola nello stato in cui si trova, non può affrontare questa sfida. Non possiamo permettere che, in ogni riforma, si chieda come unico cambiamento, l’aumento di standard che non rappresentano più ed in nessuna maniera, la crescita culturale e sociale dei nostri ragazzi.
  • 12. Il voto, l’interrogazione, il compito in classe, la prova comune, la prova invalsi e tutte queste diavolerie, distolgono i ragazzi e gli insegnanti dal vero obiettivo, la creazione di un rapporto umano basato sul trasferimento non di conoscenze, non solo di conoscenze, ma di esperienze alla ricerca delle sviluppo di idee, di visioni, di sogni da realizzare, a cui dare un corpo. La capacità di tirare fuori da ogni studente il suo dono, la sua caratteristica migliore, il suo punto di forza che finga da centro di nucleazione della sua crescita deve essere l’imperativo categorico della nuova didattica e della nuova scuola. È qui che nasce il significato di INNOVAZIONE. Occorre declinare nella scuola un nuovo paradigma che stravolga completamente il precedente. Occorre implementare lo sviluppo di IMMAGINAZIONE e CREATIVITÀ dove immaginazione e creatività non rappresentano l’imprevedibilità, l’anticonformismo, l’imprevedibilità rappresentata da una subcultura di nicchia in voga in gran parte degli anni settanta ed ottanta. No, per IMMAGINAZIONE si intende la capacità di elaborare idee al di là della mera percezione sensoriale della realtà e la CREATIVITÀ è il processo con il quale si sviluppano idee originali che hanno valore e che INNOVANDO prendono corpo. Possiamo farlo? Non lo so, io nelle mie materie ci provo. Sono facilitato da quello che insegno (tecnologia per chi non lo avesse capito), dai mezzi a disposizione, e che sia il CODING, la ROOTICA, MICRO:BIT piuttosto che il LEGO MINDSTORM EV3 poco importa. Per fare quello che ho descritto basta anche la carta, la lavagna o qualsiasi mezzo capace di accendere gli occhi dei nostri ragazzi. Nelle altre? Nella scuola? È possibile questo cambio epocale? Vi rispondo con una storia. Non so se conoscete SAM COOKE (1931-1964), forse il più grande cantante rythm and blues della storia. A parte le dicerie che vogliono abbia fatto un patto
  • 13. col diavolo per ottenere la voce che lo rese famoso, si distinse nella sua breve vita e con le sue canzoni, per la strenua difesa dei diritti delle minoranze nere in un’America che cominciava a ribellarsi al razzismo dilagante. Martin Luther King, Malcom X, la figura di Cassius Clay Mohammad Ali e nella musica SAM COOKE e Bob Dylan animarono quegli anni. Nel 1962 Bob Dylan scrisse una delle sue canzoni più famose, Blowing in The Wind in cui si chiedeva "how many years can some people exist, before they're allowed to be free?“ (quanti anni ancora un popole deve esistere prima di essere considerato libero?). L’anno dopo Sam Cooke scrisse una canzone meravigliosa che intitolò originariamente Fewer the you think (prima di quello che pensi), proprio in risposta al grande cantautore premio Nobel. La canzone alla fine fu intitolata A CHANGE IS GONNA COME (il cambiamento sta arrivando https://www.youtube.com/watch?v=wEBlaMOmKV4 ), titolo ancora più suggestivo. Cosa centra con noi e con la scuola? Beh facile da raccontare. La verità è che la nascita spontanea sui social di una rete di colleghi ed amici che scambiano idee, buone pratiche con il loro carico di condivisione, di contaminazione, di scambio culturale continuo ed ininterrotto ha creato una selezione naturale di innovazione che va al di là di ogni riforma della scuola buona o cattiva che sia. Siamo finalmente noi da soli a scegliere cosa e come insegnare, a sperimentare, a promuovere e bocciare pratiche e tecniche con vantaggio indiscusso per le nostre classi ed i nostri studenti. Questa volta A CHANGE IS GONNA COME lo dico io a gran voce (non lo canto sono per rispetto al grande SAM COOKE), ed il cambiamento, il vero cambiamento di paradigma è più vicino di quello che crediate.
  • 14. Chiudo la lunga chiacchierata con un’ultima cosa. Ricordate gli sguardi inquisitori dei ragazzi all’inizio di questo articolo? Beh, insegnando col cuore e con attenzione al loro futuro cambiano come nelle foto. Luca Scalzullo