l giro del mondo in 80 racconti inizia con un bambino che viaggia con la fantasia attraverso le letture di Verne. Inizia le sue esplorazioni su vagoni con i sedili di legno e i finestrini annebbiati dal fumo e dal vapore della locomotiva. Essa lo porta periodicamente nei paesi d’origine dei suoi genitori: la bassa Pianura Padana, dove la nebbia entra nei polmoni, o i Campi Flegrei, dove l’ombra delle chiome verde scuro degli agrumeti profuma di zagara.
Molti anni dopo decide di ripercorrere le orme lasciate da grandi viaggiatori, scienziati, pensatori, figure iconiche: Darwin, von Humboldt, Robert Scott, Pico della Mirandola, Pasolini, Talete, Alessandro il Grande, Giuseppe Tucci e Fosco Maraini, il colonnello Kurtz, Che Guevara e tanti altri. In viaggi, programmati e compiuti nell’arco di decenni, affronta così grandi distanze attorno al mondo, facili da superare grazie ai mezzi di trasporto moderni, ma anche distanze più brevi, colmate con la fatica del camminare o del pedalare.
Cosa spinge l’essere umano a viaggiare? Qual’è la scintilla che accende in noi il desiderio di scoprire il mondo? Per il nostro autore tutto è iniziato con un libro di Jules Verne, Il giro del mondo in 80 giorni, ricevuto in dono quando era ancora bambino. Da allora, e per diversi decenni, non ha mai smesso di viaggiare, spesso ripercorrendo le tracce di figure iconiche del passato, che indirettamente avevano influenzato la sua vita come quella di molti di noi.
Questo libro raccoglie le sue esperienze di viaggio in 80 racconti brevi, che ci trasportano, attraverso una narrazione vivida e dettagliata, dal Mediterraneo all’Antartide, dalle Ande all’Asia centrale, dall’Australia all’Africa, e non solo. Un caleidoscopio di colori, storie, profumi e immagini di terre lontane, ma anche di quell’Italia “minore” troppo spesso dimenticata.
Il giro del mondo in 80 racconti. Un libro di viaggi...
1.
2. Carta geografica – proiezione di Peters - fonte «Mani Tese»
31 «racconti» in Europa 3 in Africa 17 in Asia 4 in Antartide
5 in Oceania
20 in America Centrale e Meridionale
3. Giulio Verne (1828 – 1905)
24 dicembre1968 Frank Borman, Bill Anders e Jim Lovell entrano nell’orbita lunare con
l’Apollo 8…scattano la foto “Earthrise” …
Da allora la grande terra di Verne è diventata sempre più piccola…
4. (…)Oggi a un astronauta della Stazione Spaziale Internazionale sono sufficienti
novanta minuti per fare il giro completo della Terra passando dal giorno alla
notte. Il tempo e lo spazio, queste due grandezze fondamentali della fisica,
interagiscono da sempre con le nostre esistenze e sono in grado di assumere
valori diversi nei vari momenti delle nostre storie, che siano individuali o
collettive. E nel viaggio, o meglio, nei viaggi, influenzano ancor di più le nostre
percezioni e sensazioni.
La lentezza espande il valore del tempo e riduce quello dello spazio, ci si
muove con il ritmo naturale dell’organismo; una velocità elevata invece, come
quella di un volo aereo, ne ribalta i valori: la distanza è dilatata, il tempo
contratto.
Ci si lascia permeare dai luoghi, dalle atmosfere nuove di terre e popoli
lontani dalle nostre esperienze quotidiane. Quello che cerchiamo è un tempo
amico dello spazio per viaggiare consapevoli di accorgerci del dove si è.
Ognuno costruisce il proprio viaggio intorno al mondo secondo il suo punto
di vista, la sua personale lettura del nostro pianeta. Non è una gara o una
scommessa come quella di Phileas Fogg e gli amici del club londinese, non si
tratta di andare verso est per recuperare una giornata, ma si insegue lo
stimolo che luoghi o popoli lontani ci hanno lanciato attraverso variegate
modalità, il loro richiamo giunge fino all’interno delle nostre case. (…)
6. (…)Molti anni fa “la bassa” mi si presentava quando il treno proveniente dal
Veneto si fermava alla stazione di Revere, alta sopra l'argine del fiume Po,
appena oltre il ponte di ferro che la univa alla stazione di Ostiglia; affacciato al
finestrino, non sempre si riusciva a scorgere l'altra riva, le nebbie, che
avvolgevano alberi e orizzonti, si espandevano sopra la pianura estesa sotto
l'argine.
Poco più avanti, scesi dal treno alla stazione di Cividale, con una piccola
corriera blu si percorreva la galleria nebbiosa costituita dalle fronde dei tigli e
si arrivava alla piazza di Mirandola. (…)
(…) Lontano dal mare e dalla sua riva mai immobile rivedo con la mente la
striscia di confine tra l'umido e l'asciutto. Ancora bambino, accovacciato
sull'orlo della battigia, prendo con la mano la sabbia dorata e la faccio
scivolare come se il palmo fosse un imbuto, nel tentativo infantile di separare
dall'insieme singoli granelli.
Impossibile riuscire con la grossolanità del nostro tatto a percepire e
distinguere il così piccolo: il risultato di tanto sforzo è un flusso tra
discontinuo e continuo di granelli quasi ordinati nel loro ritornare all'insieme
enorme della spiaggia. Quanti saranno i granelli di sabbia? Un centimetro
cubo ne conterrà milioni o migliaia? E un metro cubo, miliardi di miliardi?(…)
12. (…)Hut Point, così è chiamato il piccolo promontorio che chiude a est la baia di
McMurdo. Robert Falcon Scott fece costruire questo rifugio di tavole di legno nel 1902
durante la Discovery Expedition, da cui il suo nome, Discovery’s Hut. Occupata in
seguito da tutte le successive spedizioni inglesi, ora è un museo congelato di ciò che
queste spedizioni hanno lasciato. La breve camminata lungo la strada sterrata mi
allontana dalle costruzioni ingombranti della base e subito mi introduce dentro un
panorama aperto, dove sento solo il rumore dei sassolini spostati dai miei scarponi. La
capanna di Scott appare illuminata dai raggi giallo-aranci di questo interminabile
tramonto australe, le tavole di legno ultra centenarie recuperano il loro caldo colore
naturale facendo risaltare nodi e venature. Un’ombra lunga si corica sul terreno
chiazzato di bianco. Arrivo fino alla croce che commemora la morte di George Vince,
uno dei marinai della spedizione Discovery, la uso come schermo per fotografare il cielo
e le sue sfumature di colori. Il denso arancione in prossimità della lontana linea della
banchisa ghiacciata si schiarisce via via che si avvicina al sole per virare in un mélange
prima quasi verde, poi sempre più azzurro verso l’alto del cielo.(…)
19. (…)Cape Evans è una sottile penisola appena sopra la banchisa.
Poca neve ghiacciata chiazza di bianco la spiaggia di detriti
vulcanici neri, di fronte a noi il cono maestoso e perfettamente
bianco, fumante, del vulcano Erebus, alto oltre tremila metri.
Una caldaia di lava che non scalda. Verso il mare, lontano una
distanza imprecisata perché in Antartide l’aria secca e limpida
trae in inganno nella percezione delle distanze, il fronte alto e
squadrato della Barriera di Ross, il ghiacciaio che riempie il
golfo galleggiando per circa seicento chilometri sull’acqua
dell’oceano. Il rifugio costruito da Scott nel 1911 risalta con le
sue tavole di legno in questo paesaggio dominato dal bianco.
Attorno alla capanna il gelo ha conservato alcuni segni delle
spedizioni scientifiche ed esplorative inglesi: un sacco di
lenticchie arancioni sparso in un angolo, foraggio dei pony
usati dalle spedizioni ben seccato sotto il riparo di una
tettoia.(…)
26. (…)Novanta minuti di volo in elicottero permettono di raggiungere Beacon
Valley, una delle Dry Valley che si insinuano dentro la catena Transantartica
che separa il continente nelle sue due parti, occidentale e orientale. Lasciato
la McMurdo Station, costeggiamo per un po’ la banchisa ghiacciata del mare
di Ross.
Il paesaggio è bianco candido, con un vago riflesso azzurro dato dalle zone in
cui il ghiaccio marino è scoperto. Poi gli aridi pendii scoscesi di un cupo colore
marrone iniziano ad accompagnare la banchisa, fino alla confluenza con il
grande ghiacciaio Ferrar, dal nome del geologo che accompagnò Scott nella
prima esplorazione del 1901. L’elicottero si insinua nella valle a seguire questo
larghissimo fiume di ghiaccio. Dai crinali delle cime scendono altre ripide
lingue glaciali, bianchissime, a lambirlo senza fondersi. Le aree più
pianeggianti, prive di copertura nevosa, sono come tassellate di piastrelle più
o meno esagonali che il teleobiettivo della macchina fotografica amplifica
nella loro caratterizzazione geometrica. Le pareti che contengono il flusso di
ghiaccio risultano ora più ripide, probabilmente incise quando il ghiaccio era
ancora più alto. Compaiono le diverse colorazioni degli strati che connotano
questa parte della catena: fasce scure intervallate con fasce più chiare, color
ocra o simile. Una seraccata, come una inquietante successione di onde
oceaniche in rapida sequenza immobilizzate in un istante dal congelamento, ci
indica un salto di dislivello.(…)
36. (…)Puntale l’elicottero scende a riprenderci alla Beacon
Valley, carichiamo i sacchi di sopravvivenza, uno ogni due
persone. Contiene una tenda, due sacchi piuma,
carburante per il fornello e cibo per circa tre giorni di
permanenza fuori dalla base, razzi di segnalazione, una
pala, medicine. Ogni ospite di McMurdo deve provare a
usare queste attrezzature con un campeggio addestrativo
di ventiquattro ore. L’esperienza, chiamata non senza
ironia “Happy camp”, fa saggiare cosa significa trovarsi a
vivere all’aperto in Antartide. Impariamo a difendere con
blocchi di neve ghiacciata la tendina da eventuali raffiche
di blizzard, il vento che spazza la banchisa, a sciogliere la
neve per ricavare l’acqua da bere, a cercare di dormire
all’interno di un adeguato sacco piuma e altro ancora.(…)
41. (…)Gli scritti di Giuseppe Tucci, grande orientalista e profondo
conoscitore di questi luoghi, ci accompagneranno in questo viaggio,
permettendoci di cogliere il filo di morbidissimo cashmere che
idealmente si srotola dalla vallata dello Swat, al confine tra ciò che oggi è
Afghanistan e Pakistan, fino ai monasteri lamaisti del Tibet.(…)
(…)La lettura giovanile dei libri di Tucci scoperti per caso tra le bancarelle
di libri usati sotto la Loggia dei Cavalieri, mi è rimasta sopita nella
coscienza per decenni, fino al momento in cui tempo e possibilità non mi
permisero di raggiungere queste regioni, un attimo prima dell’esplosione
o implosione dei rapporti tra l’occidente e una parte del mondo islamico.
Oggi rivedere appunti e ricordi, aggiornando quelle riflessioni con altri
studi più recenti, mi rinforza nella convinzione che culture diverse sono
in grado di accettarsi vicendevolmente se nessuno cerca di porre una
resistenza, un muro, reale o ideologico che sia, alla loro diffusione e che
la nostra ricchezza, la nostra evoluzione, nasce proprio da questi incontri
e contaminazioni.(…)
42. Tra Himalaya e Hindo Kush
Nepal: Dolpo 1996 Tibet: Kailash, Tholing e Tsaparang 1997
India: Zanskar 2000
Cina: Kashgar e Xinjiang 1993
Pakistan: Gandhara e Kalash Valley 2001
43. Siddhārta Gautama Śākyamuni conseguì l’Illuminazione o il Risveglio (bodhi), per cui da
allora fu chiamato il Buddha (il Risvegliato). 566 aC – 486 aC (Forse…)
48. (…)che portano incisi sulla loro superficie un
mantra, in genere quell'OM MANI PADME HUM
che si incontra ovunque, scolpito su rocce o
singole pietre. (…)
51. (…)Lungo il suo basamento correvano lesene corinzie a delimitare
nicchie contenenti bassorilievi di originali strutture architettoniche. Si
trattava di tre porte, completamente diverse tra loro: la prima
sormontata da un timpano che richiamava i classici templi greci, la
seconda da un arco carenato, l'ultima da un doppio arco dalle linee più
fantasiose, arricchito con riccioli laterali, simile a una torana indiana.
Taxila si trova sulla sinistra orografica dell'Indo, oltre la confluenza con il
fiume Kabul. Il grande fiume, arteria principale del Pakistan, nasce nei
pressi del mitico monte Kailash, raccoglie acque e sedimenti della
catena himalayana e del Karakorum e li mescola a quelli dell'Hindukush,
portati a loro volta da innumerevoli torrenti che confluiscono nello Swat
prima e nel Kabul poi. Taxila, ora un villaggio anonimo, fu la capitale
dell'antico regno di Gandhāra e visse la complessa stratificazione di
culture che qui si avvicendarono.
Qui dominarono i persiani della dinastia Achemenide a partire dalla
conquista di Ciro, i Macedoni di Alessandro, i Maurya del Bengala tra cui
il mitico re Ashoka, i greci scesi dalla vicina Battriana, poi un avvicendarsi
di tribù centroasiatiche in cerca di terre fertili: Sciti, Parti, Kushana,
cacciati a loro volta dai persiani Sasanidi, fino ad arrivare alla conquista
islamica.(…)
56. (…)Nell'estate del 2001, dopo aver risalito lo Swat e
superato il passo Lowari a oltre 3000 metri, raggiungeremo
queste valli strette e isolate, insinuate nelle pendici
meridionali dell'Hindukush, per incontrare i Kalasha, popolo
di religione animista e politeista dagli occhi azzurri e dalla
pelle ambrata, chiamati in tono dispregiativo dai
musulmani “Kafiri”, cioè gli infedeli che non sono nel libro,
non cristiani e non ebrei.
Bumburet, Rumbur, Birir, sono i nostri punti di riferimento, i
primi due raggiunti con la nostra auto, Birir dopo un tratto a
piedi e poi trasportati da un affollato e malconcio
fuoristrada abbandonato da qualche spedizione americana.
Molto deve essere cambiato rispetto al Paropamiso narrato
da Fosco Maraini, ma ci sentiamo comunque immersi in un
ambiente tranquillo, rassicurante, sembra quasi di
percepire l'armonia con gli spiriti della natura qui
venerati.(…)
63. (…)Tuttavia questa oasi che compare all’improvviso ai piedi dell’altipiano
resta crocevia di strade che si irradiano verso tutti punti cardinali, vie di
transito per le mercanzie che arrivano al mercato, dove il moderno si
mescola con il medioevo di Marco Polo.
Il mercato della domenica richiama gente da ogni dove e il turista resta
circondato da una cornucopia di merci che vanno da fette di anguria a
copriletti di seta, a pugnali carichi di rubini, a cappelli di diverse fogge, a
pelli...
L'area del mercato copre una zona vastissima, tanto che al suo interno
mi sono inaspettatamente trovato intrappolato in un ingorgo di traffico.
Nessun veicolo a motore era in vista, ma il lungo stallo era causato dal
passaggio lento e ingombrate di pecore dalla coda grassa, tipica di
queste montagne, e di cavalli guidati da carrettieri il cui il grido "Hosh"
equivaleva al suono del clacson.
La parte del mercato forse più genuina è un vasto terreno vicino al fiume
dove gli agricoltori si radunano per vendere i loro animali. Il suo
affollamento dimostra che non ha perso il ruolo di pilastro fondamentale
dell'economia di Kashgar. (…)
69. (…)E finalmente compare lungo la strada, alla nostra
sinistra, una linea arancio-bruna fatta di mattoni crudi
allineati verso l’oriente, una traccia della grande
muraglia che doveva tener separati l’impero cinese
dalle orde a cavallo dei nomadi delle steppe. Ci
fermiamo a Jiayuguan per fotografare il forte
restaurato del “il passo inespugnabile sotto il cielo”.
Da qui la muraglia ricostruita delinea nettamente la
separazione tra il nord e il sud del celeste impero,
come una cresta impettita lungo i crinali delle colline
aride, poco lontana dal confine con la Mongolia, oggi
politicamente divisa tra la Mongolia Interna cinese e
la repubblica di Mongolia, ma unita fisicamente dal
deserto del Gobi.(…)
72. (…)Luglio 2000.
Molto più comodamente arriviamo in aereo a Leh, capitale dell’antico regno del
Ladakh; l'attraversa lento e sinuoso l’Indo, dopo aver abbandonato l’altipiano
tibetano. Seguiremo questo fiume nel suo corso verso Ovest, vedremo la
confluenza con il fiume Zanskar e la sua stretta gola percorsa in inverno,
camminando lungo il fiume ghiacciato, dagli abitanti del luogo che devono
andare a Padum da Leh. Noi per raggiungere la valle dello Zanskar dovremmo
fare in auto un giro più lungo, quasi un'ampia inversione a U, molto meno
interessante ma sicuramente più confortevole.
Passeremo per Kargil, rapidamente superata per non incorrere in qualche
distratta cannonata pakistana, e più avanti entreremo in un'altra valle, di nuovo
paralleli alla grande catena himalayana, percorrendola questa volta verso Sud
Est. Maestose cime si presenteranno con i loro aspri profili settentrionali
coperti di neve e ghiaccio: il Num e il Kum, una coppia quasi gemellare, la prima
alta 7135, la seconda 7070, separati da un plateau nevoso non visibile dalla
nostra posizione, ma che ci immaginiamo, avendolo visto in qualche fotografia
prima di partire.
Continueremo costeggiando il fiume di ghiaccio del Drang Drung a cui ci
avvicineremo quando, lasciata la strada lungo il letto sassoso del torrente,
saliremo verso il Pensi La, il passo che a 4400 metri chiude geologicamente a
ovest il bacino idrografico dello Zanskar. Questa è la porta d’ingresso per
Padum, la capitale dell’antico regno dello Zanskar.(…)
85. (…)Agosto 1996, il governo del Nepal solo da due anni ha
aperto ai turisti l’ultima regione himalayana ancora chiusa, il
Dolpo. Da quello che si sa la regione è un groviglio di valli
d’alta quota unite tra loro dai tracciati delle secolari vie
carovaniere che dal Tibet scendono nelle basse valli nepalesi
e indiane, la terra mistica del “Leopardo delle nevi” di
Matthiessen. Il recente libro di Eric Valli, presente in tutti i
negozi per trekkers di Katmandu, racconta per immagini la
vita del popolo che la abita. Solo qualche anno dopo uscirà il
suo film “Himalaya, l’infanzia di un capo”, che farà conoscere
il Dolpo al mondo.
Durante il nostro trekking di una ventina di giorni nell'Alto
Dolpo valicheremo passi sui 4000 metri e incontreremo
tende di nomadi, modesti templi, minuscoli villaggi e una
carovana che guada il fiume con decine e decine di yak
carichi del peso contenuto in sacchi in lana a righe nelle
sfumature del marrone.(…)
96. (…)Mentre compiamo la nostra kora, proviamo disagio a
incontrare pellegrini con scarpe e vestiti poco adeguati al freddo
pungente e al terreno accidentato, spesso indossano sandali o
sono addirittura scalzi, portano un piccolissimo bagaglio in spalla
o a tracolla con le cose essenziali, il mulino delle preghiere in
mano. Noi siamo protetti da un ottimo abbigliamento tecnico,
calziamo comode scarpe da trekking e sappiamo che la sera i
portatori ci faranno trovare una cena calda e le attrezzature per
passare la notte in modo confortevole.
Questa sensazione di imbarazzo si acuisce quando, lungo un
ghiaione innevato poco oltre il passo Drolma-la, a una quota di
5600 metri, ci imbattiamo in una donna a piedi nudi che procede
intercalando i suoi passi con una serie di prostrazioni. Si china, si
inginocchia, si prostra con la faccia che quasi tocca il suolo,
allunga le braccia per segnare con le dita il punto raggiunto, si
rialza, avanza fino al segno tracciato e ripete la prostrazione.
Ci sentiamo del tutto fuori luogo, ma la pellegrina non sembra
essere disturbata dalla nostra presenza e ci sorride
cordialmente.(…)