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Gianluca De Sanctis
La logica del confine
Per un'antropologia dello spazio nel mondo romano
Carocci editore
Il presente volume è pubblicato con il contributo economico dell'unità di Roma del progetto
FIRB Spazisacri epercorsiidentitari. Testi difondazione, iconografia, culto etradizioni neisantuari
cristiani italianifra Tarda antichita eMedioevo (coordinatore nazionale Laura Carnevale).
1" edizione, marzo 2.015
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Indice
Introduzione Il
Parte prima
Terminus
I. Un «dio oggetto» 19
I. l. Turno, la Dira e il macigno 19
1.2.. Immobile saxum 2.7
1.3. Tra Saturno e Giove 31
2.. Il culto 36
2..1. I Tenninalia 36
2..2.. Terminus, indice e icona 39
2..3. Confini e passaggi 42.
2..4. Requisiti di un tenninus 46
2..5. Il sacrificio come processo di animazione 49
3· Attraversamenti e divinità della soglia 52.
3-1. Soglie 52.
3-2.. Terminus e Marte 56
3-3· Dèi custodi della cultura 58
4· Antropologia del confine 6o
4.1. Breve excursus arandologico 6o
4-2.. Firma stabiliaque cuncta 63
4·3· Confini e giuramenti 65
4+ Terminus e Giove 72.
s
INDICE
S· Qui terminum exarasset... 76
s.I. Saceresto 76
s.2. Terminus e Fides 8!
5·3· A proposito del confine tra religione e politica a Roma 83
S+ La profezia vegoica e la morte di Turno 87
Parte seconda
Delimitare e punire
6. Storia di un delitto e delle sue interpretazioni 93
6.1. Gli acerbafata del popolo romano 93
6.2. Il bello dei miti: interpretazioni di interpretazioni 97
6+ Ricostruzioni moderne 99
6.4. L'ipotesi Wiseman 105
7· Un sacrificio di fondazione alle origini della città? 109
?.I. Il "sacrificio di fondazione" nella letteratura etnografica 109
7.2. Talismani e reliquie 112
7·3· I "sacrifici di fondazione" nel mondo antico 115
7+ Il mito come "mascheramento"? 119
8. La posta in gioco 121
S.I. Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea 121
8.2. La contesa augurale e la scelta del luogo 123
8.3. L'inauguratio e la delimitazione del pomerium 132
8+ La natura del sulcusprimigenius e il "primo comandamento"
della città romulea 135
s.s. Una morte necessaria 140
8.6. Da interdizione religiosa a norma giuridica 144
8.7. Sancire morte o abrogare impunitate 149
9· Ipotesi sulla natura S<tcrale del sulcusprimigenius 153
9·1. I termini invisibili. Remo homo sacer? 153
9.2. Sanctus = inaugurttflts? 157
6
INDICE
9·3· Sanctitas delle mura e ius delle porte IS9
9·4· Il potere del cerchio I6I
Conclusioni. Il confine al centro r6s
Riferimenti bibliografici 169
Indice dei nomi 203
7
AVVERTENZA
Nei rimandi abbreviati ai Riforimenti bibliografici, accanto al nome dell'autore si fornisce
la data della prima pubblicazione dell'opera citata; i numeri di pagina si riferiscono invece
all'edizione (o alla traduzione) effettivamente utilizzata, di cui si dà conto estesamente nei
Riforimenti bibliografici in fondo al volume.
a Matteo, Maddalena eLara
Introduzione
L'oggetto della Storia è l'uomo. Diciamo meglio: sono gli
uomini che la Storia vuoi cogliere. Chi non vi riesce non sarà
mai altro, nel migliore dei casi, che un manovale dell'erudi-
zione. Il buon storico, lui, somiglia all'orco della fiaba. Là
dove fiuta la carne umana, là sa che è la sua preda.
Mare Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino 1998, p. 2.3
Anche ad un lettore inesperto il finale dell'Eneide appare, se non enigmatico,
quantomeno inaspettato. Di fatto il duello conclusivo tra i due eroi a lungo prepa-
rato nel corso del poema non ha luogo. Quando Turno si accorge che gli dèi hanno
ormai deciso il suo destino, smette di fuggire, ma invece di affrontare Enea con la
spada decide, sulla scorta di quanto fanno spesso gli eroi di O mero, di scagliargli
contro un grosso masso. A questo punto accade qualcosa di strano e il racconto
devia inaspettatamente rispetto alla traccia america, perché Turno, non appena
solleva la grande pietra, è colto da una improvvisa, e inspiegabile, astenia che lo
rende incapace, prima, di sostenere fisicamente il peso del masso, e dunque di cen-
trare il bersaglio, poi, di reagire al successivo attacco di Enea. Ma perché mai Virgi-
lio avrebbe deciso di concludere il poema in questo modo? Perché non concedere
a Turno la possibilità di battersi alla pari con Enea, e parallelamente ad Enea la
gloria che gli sarebbe derivata dall'aver sconfitto, dopo un "regolare" duello, un
rivale degno di lui? Il termine "regolare" risulta quanto mai opportuno, perché il
confronto descrittoci da Virgilio sembra in un certo senso alterato da un interven-
to esterno. L'impressione, infatti, è che l'improvvisa debolezza fisica e mentale di
Turno non sia riconducibile a ragioni di carattere esclusivamente psicologico (la
consapevolezza della sconfitta, la paura della morte ecc.). Di qualunque cosa si
tratti, questa forza misteriosa nel giro di pochi istanti spoglia il re dei Rutuli della
sua energia vitale, restituendolo ad Enea goffo e impacciato. Vi è, insomma, come
una strana escrescenza nel tessuto testuale che oscura la logica del racconto, ren-
dendola non immediatamente decifrabile. L'idea di questo studio prende le mosse
da qui, da questa scena virgiliana, nella convinzione che il grande masso divelto da
Turno non sia un semplice elemento di scena, ma un terminus, ossia un oggetto
fortemente marcato dal punto di vista religioso, la cui manomissione, come vedre-
mo, immette il responsabile direttamente nella dimensione del «sacro».
La seconda parte di questo lavoro prende invece in esame il mito di fondazione
ed in particolare l'episodio della morte di Remo, ucciso, o fatto uccidere dal fratel-
lo, lungo il confine del nuovo abitato. I moderni hanno spesso attribuito a questo
Il
LA LOGICA DEL CONFINE
racconto un significato allegorico: l'uccisione di Remo significa l'esclusione dalla
città appena fondata di tutto ciò che si pone al di fuori di essa, vale a dire di ciò che
si caratterizza come selvaggio, scomposto, proibito. Il valore simbolico del «solco
primigenio» che separa il vecchio mondo da cui provengono i gemelli, il mondo
della natura, delle selve e dei boschi, dal nuovo mondo della città e delle leggi che
sta per venire, è fuori discussione. Ciò non esclude però che i Romani potessero
trovare nel fratricidio delle ragioni meno astratte e più concrete, ragioni di ordine
politico, giuridico e religioso; ragioni che appariranno del tutto evidenti qualora si
intrecci il racconto del mito con quello del rito di fondazione.
Queste due storie hanno a che fare, seppure in diverso modo, con la nozione
di «confine». Seguendo i fili che da esse si dipartono, fili che attraversano e legano
tra loro alcuni nodi fondamentali della cultura romana, quali il rapporto con gli
dèi, la costruzione dello spazio, il valore performativo dell'immagine, la nascita
della legge, le regole del potere, sarà possibile cogliere nella loro complessità non
solo il significato di questi racconti, ma anche, ci auguriamo, le ragioni antropolo-
giche di quella sorta di "ossessione" per i confini che così potentemente anima la
mentalità romana.
La complessità del tema e la natura della documentazione ci hanno spinto a
seguire la strategia del cosiddetto "giro più lungo", indicata in antropologia cultu-
rale da Clyde Kluckhohn (I949) alla fine degli anni Quaranta, ossia una ricerca a
largo raggio, fatta di digressioni e sconfinamenti, «strani costumi, cocci e crani».
«Chiedersi se valga la pena il giro più lungo in campo antropologico», scrive Fran-
cesco Remotti (I990,p. 18), apropositodell'approccio metodologico diKluckhohn,
«è un po' come chiedersi se valesse la pena il giro intorno al mondo di Charles
Darwin sul brigantino Beagle».
La sfida, per l'antropologia come per la biologia, è quella di trasformare un mucchio di ri-
masugli o di spazzatura in un insieme di relazioni, in un contesto formato da connessioni
significative, le quali possono, anzi dovrebbero avere la forza di integrare almeno in parte i
nessi dell'ordine di partenza, con lo scopo di dar luogo ad un ordine più ricco e significati-
vo. Il giro più lungo contiene dunque, implicito, un elogio del disordine, della marginalità,
della residualità (come, del resto, un po' tutte le culture umane riconoscono); contiene
tuttavia anche una scommessa sulla possibilità di proporre connessioni più rilevanti, evitan-
do di naufragare nella spazzatura, anzi trasformando le semplici anomalie e stranezze in un
assetto di differenze in qualche modo ordinate: si attinge al disordine per ottenere un ordi-
ne più significativo (ivi, p. 22).
Il "giro più lungo': dunque, parte dal riconoscimento di una differenza, o meglio,
da un sentimento di stupore nei confronti di ciò che è "diverso': e che, in quanto
tale, stimola la ricerca di un senso. Le "stranezze" degli altri, insomma, suscitando
12
INTRODUZIONE
in noi il sentimento della dijfèrenza, ci inducono inevitabilmente sulla strada della
comparazione: «Perché loro fanno così?», «Perché noi non lo facciamo?». Per
rispondere a questo genere di domande sarà necessario, almeno temporaneamente,
disattivare le nostre categorie interpretative, mettere in dubbio il valore delle nostre
convinzioni, insomma sospendere, anche solo per un momento, la fede nella nostra
cultura. Solo in questo modo, attraverso la neutralizzazione del sé, sarà possibile
tentare di comprendere veramente l'altro.
Certo, si tratta di un'operazione complessa, che richiede abilità ed energie par-
ticolari, in primo luogo una certa capacità empatica. In effetti è molto più facile
avvertire il diverso senza !asciarsene toccare, piuttosto che sentir/o e cominciare a
rifletterei sopra. Questo vale anche per le persone di una certa cultura. È interes-
sante in proposito quanto racconta Pasca! Boyer (woi, p. 34I) a proposito di una
sua «esperienza» fatta durante una cena all'Università di Cambridge: mentre egli
raccontava agli altri convitati di alcune credenze in uso pressi i Fang, un autorevole
teologo cattolico si rivolse a lui dicendo: «This is what makes anthropology so
fascinating and so difficult too. You bave to explain how people can believe in such
nonsense» 1
• Tuttavia, sostenere che una certa credenza sia priva di senso non risol-
ve alcun problema: non spiega, né elimina gli effetti sociali, psicologici e persino
politici che essa è in grado di produrre. Il fatto è che le credenze religiose sono
eventi sociali «pubblici come il matrimonio ed osservabili come l'agricoltura»
(Geertz, I973• p. u6). Il compito dell'antropologia non consiste nello spiegare le
«sciocchezze» degli altri, quanto nello scoprire il senso che tali presunte «scioc-
chezze» hanno nel loro sistema di riferimento. L'idea che Kluckhohn (I949· pp.
u-26) intendeva sostenere è che il significato più autentico di una data cultura si
nasconde proprio negli usi, nei costumi e nelle credenze che ai nostri occhi risulta-
no essere più esotici e bizzarri; una impostazione, questa, che ribalta la prospettiva
seguita da Frazer e da gran parte dell'antropologia comparativista del Novecento:
se si vogliono davvero comprendere gli altri, non si deve andare a caccia delle somi-
glianze, delle convergenze, dei punti in comune, quanto piuttosto degli scarti, del-
le anomalie, delle dissonanze>.
1. Non per niente, secondo Kluckhohn (1949, p. 33): «la dimostrazione antropologica che i più
strani insiemi di costumi hanno una coerenza e un ordine è paragonabile alla dimostrazione della psi-
chiatria moderna che c'è un significato e un senso nel discorso apparentemente incoerente dd pazzo».
2. L'impostazione metodologica di Kluckhohn è stata recentemente ripresa da Bettini (2009b)
per quel che riguarda lo studio della cultura romana: si veda ora dello stesso autore Elogio delpolitei-
smo, sul confronto tra politeismi e monoteismi (Bettini, 2014), e l'Introduzione, scritta insieme a
William Short, al volume Con i Romani. Un'antropologia della cultura antica (Bettini, Short, 2014,
pp. 13-19). Secondo Detienne (2000) la comparazione è tanto più illuminante quanto più è condotta
tra dementi «incomparabili>>.
I3
LA LOGICA DEL CONFINE
Vi è, tuttavia, anche un altro vantaggio nel "giro più lungo": «Quando qualche
cosa è decisamente classificata come anomala», scrive Mary Douglas (1967, p. So)
«si chiariscono i limiti della categoria che non la comprende». Per illustrare que-
sto concetto l'antropologa britannica ricorreva ad un bella citazione di Jean-Paul
Sartre sulla vischiositàl che può servirei da metafora:
La vischiosità, egli dice [Sartre], di per se stessa è repellente come esperienza primaria. Un
bambino che immerge le mani in un vaso di miele ne viene immediatamente indotto a
meditare sulle priorità formali dei solidi e dei liquidi e sulla relazione essenziale esistente
tra il proprio io che sperimenta soggettivamente il mondo e il mondo sperimentato. Lo
stato viscoso si trova a metà tra il solido e il liquido; è la sezione nel punto di passaggio tra
i due: è instabile, ma non scorre; è soffice, cedevole e comprimibile. La sua superficie non è
scivolosa. La sua appiccicosità è una trappola, si attacca come una sanguisuga, attacca i
confini tra me e lui. Lunghe colonne si staccano dalle mie dita creando l'illusione che la mia
materia coli nel lago vischioso. Immergersi nell'acqua dà un'impressione del tutto differen-
te: io resto un solido; ma toccare l'attaccaticcio è come rischiare di venire diluiti nel mezzo
viscoso [...]. In questo modo il primo contatto con la viscosità arricchisce l'esperienza del
bambino. Egli ha appreso qualcosa su se stesso e sulle proprietà della materia ed ha capito
l'interrelazione tra se stesso e le cose (ivi, pp. 8o-1).
Imbattersi in qualcosa di diverso, che non rientri immediatamente nei nostri sche-
mi di classificazione, può essere, dunque, un'esperienza estremamente preziosa. Il
confronto con l'alterità non ci offre soltanto l'occasione per imparare qualcosa
sugli altri, ma anche, e forse soprattutto, qualcosa su noi stessi. Come avvertiva lo
stesso Kluckhohn (1949, p. 21, corsivo nostro), «chi si occupa delle scienze umane
ha bisogno di sapere altrettanto dell'occhio che vede tanto quanto dell'oggetto
veduto. L 'antropologiaporgeall'uomo ungrandespecchio cheglipermettedi osservar-
si nella sua molteplice varieta».
In questo senso il confronto con il mondo antico si rivela tutt'altro che sterile
per la cultura moderna. Crediamo anzi, sulla scorta di quanto già detto da Mauri-
zio Bettini (wooa, pp. IX-XIII) e Marcel Detienne (wos, pp. 20-2 e 140-2), che
esso possa costituire per noi moderni un inesauribile giacimento di differenze, di
ipotesi alternative, di modelli con cui misurarsi. Pur essendo per tanti aspetti mol-
to simili a noi, i Romani hanno spesso pensato e fatto le cose diflèrentemente da
come le pensiamo e facciamo noi; ma è esattamente questo il motivo per cui pos-
sono insegnarci ancora qualcosa: mostrandoci, attraverso le loro stranezze o biz-
zarrie, altri mondi possibili, altre possibili forme di umanità, ci aiutano in qualche
modo a «relativizzare» la nostra, a comprenderne i limiti, a ricordare che essa non
3· La citazione di Sartre è tratta da L 'étre et le néant.
14
INTRODUZIONE
è né l'unica, né la migliore, ma più semplicemente quella che abbiamo scelto di
«costruire» 4.
Naturalmente quel quid di alterità che ogni cultura lascia emergere attraverso
le maglie della comparazione ha bisogno, per essere compreso, del suo contesto;
esso va cioè indagato utilizzando in massimo grado i concetti forniti dagli "abitan-
ti" di quella cultura. Questo tipo di atteggiamento apre la strada ad un livello di
analisi emico. Il termine "emico" e il suo contrario, "etico", sono impiegati in an-
tropologia culturale per designare due diversi approcci allo studio dei fatti sociali:
mentre l'analisi emica si propone di definire gli oggetti della sua indagine utiliz-
zando in massimo grado le nozioni proprie del sistema culturale analizzato, riflet-
tendo dunque la «percezione nativa» di ciò che viene descritto, l'analisi etica,
facendo uso di categorie interpretative estranee alla cultura oggetto dell'osserva-
zione e considerate a priori universali, tende invece ad ignorare le discriminazioni
antropologiche e, dunque, ad assimilare piuttosto che a distinguere. In altre parole,
se la prospettiva emica predica l'empatia, la prospettiva etica, al contrario, presup-
pone uno sguardo più distaccato. Anche se, come raccomandava Clifford Geertz
(I973, p. 73), entrambi i livelli di analisi sono necessari per una buona interpreta-
zione delle culture, è tuttavia l'analisi emica quella che prospetta le scoperte più
interessanti. La riflessione etica, infatti, addormenta, se così si può dire, la nostra
sensibilità nei confronti delle stranezze altrui, poiché tende ad omologare, ad assi-
milare le esperienze degli altri alle proprie - in questo senso essa risulta senza dub-
bio «più immediata», ma è anche «più insidiosa» e «più egoista». Al contrario
la prospettiva emica, per sua natura più sensibile alle «escrescenze» che l'osserva-
tore rileva nell'analisi di un tessuto culturale, si dimostra essere non solo «più al-
truista» e «nobile» deli'altra, ma anche «più potente dal punto di vista ermeneu-
tico» (Bettini, 2009b, p. 42). Lo scopo, owiamente, non è registrarle o raccoglier-
le per farne un'a~tologia di meraviglie, quanto piuttosto, come suggerisce Mauri-
zio Bettini (ivi, pp. 28-3I), utilizzarle come delle aphonndi, termine con il quale
Filone di Alessandria designava lo «spunto» dal quale deve prendere le mosse
l'esegeta per la sua interpretazione del testo biblico. Le stranezze altrui, dunque,
stimolando, in ragione della loro dissonanza, la riflessione comparativa, funzio-
nando da reagenti, costituiscono i «punti di partenza», appunto le aphonndi,
del!'analisi antropologica. Abbiamo cercato, dunque, di indagare i significati che i
Romani attribuivano al confine partendo da alcuni elementi testuali che ci sono
apparsi dissonanti e hanno per questo costituito le aphonndi del nostro percorso:
«Perché Turno perde improwisamente tutte le sue forze?»,« Perché Remo viene
4· Sui modi di «costruire»/ «fare>> umanità, cfr. Remotti (wiJ).
IS
LA LOGICA DEL CONFINE
ucciso, o fatto uccidere, dal fratello per aver saltato lungo il confine della città?»,
«Che significato attribuivano i Romani a queste storie?».
Questo libro sviluppa e porta a termine gli studi da me condotti durante gli anni
del dottorato senese. Alcune parti di questo lavoro sono state presentate per la
prima volta nel corso dei Seminari del Martedì, promossi dal Centro Antropologia
e Mondo antico dell'Università degli Studi di Siena. Non posso, dunque, non co-
minciare con il ringraziare gli amici del Centro AMA, dove il progetto è nato e
cresciuto. Devo ricordare in particolare Alessandro D'Avenia, per l'amicizia e il
confronto sempre stimolante che ha saputo offrirmi, Micol Perfigli e Isabella Ton-
do, insieme alle quali ho cominciato a riflettere e a discutere di questi temi durante
i mesi trascorsi a Parigi, ospiti del Centre de recherches comparées sur les sociétés
anciennes "Louis Gernet" e del Laboratoire d'anthropologie sociale.
Desidero esprimere la mia riconoscenza a tutti coloro che, anche solo occasio-
nalmente, hanno discusso con me alcune parti di questa ricerca, fornendomi pre-
ziosi suggerimenti e opportunità di riflessione, in particolare Alessandro Barchiesi,
Paolo Carafa, Luigi Lo Cascio e Carlo Severi. Non potrò mai ringraziare abbastan-
za Andrea Giardina e Augusto Fraschetti, troppo presto scomparso, per i loro inse-
gnamenti, l'attenzione e la premura con cui mi hanno seguito in questi anni; Ema-
nuela Prinzivalli, per la stima e l'interesse che ha sempre mostrato nei miei confron-
ti, e l'unità romana del progetto FIRB Spazi sacri epercorsi identitari. Testi difonda-
zione, iconografia, culto etradizioni nei santuari cristiani italianifra Tarda antichita
eMedioevo, di cui sono membro, che ha reso possibile la pubblicazione di questo
libro. Il ringraziamento più grande va però a Maurizio Bettini che ha ispirato, se-
guito pazientemente e discusso a lungo con me queste pagine, sostenendomi con
la sua competenza ed il suo affetto. Gli eventuali errori restano una mia personale
responsabilità.
Sono debitore ai miei studenti che, con la loro curiosità, non hanno mai smes-
so di stimolare in me il dubbio, spingendomi a vedere le cose, anche le più semplici
e scontate, da un nuovo punto di vista. Ringrazio infine Sveva Elti di Rodeano che
ha letto e corretto con premura il manoscritto.
L'ultimo pensiero va alla mia famiglia, a mio padre e mia madre, per l'amore e
la pazienza; a Tessa, senza la quale nulla di quello che faccio avrebbe senso, e ai miei
bambini che ogni giorno mi insegnano a guardare il mondo con occhi diversi e
migliori.
Parte prima
Terminus
M~ l<:l'IElTW y~ç optct !ll'JOElç !l~TE oiJ<:El01.1 7tOÀtT01.1 ye[Tovoç, ll~TE
Ò!lOTÉP!lOVOç f7t' ÉO'XctTtaç l<:El<:Tl']!lÉ'YOç aÀÀ!.Jì ;É'V!.Jì ymovwv,
'YO!llO'ctç TÒ Tctl<:l'll']Tct l<:l'IEl'1 ctÀl']9Wç TOUTO e1vctt· ~01.1ÀÉcr9w Of 7tctç
7tÉTpov É7ttXEtp~O'ctll<:l'IElv TÒV!lÉYlO'TOVaÀÀOVTIÀ~V opov!lctÀÀov
~ O'!lll<:pÒv Àt9ov Òpt~O'ITct <jltÀtct'1 TE J<:ctt ex9pctv EVOpl<:0'1 7tctpà
9ewv.
Platone, Leges VIII, 842.e-843b
Le premier qui, ayant enclos un terrain, s'avisa de dire: Ceci
est à moi, et trouva des gens assez simples pour le croire, fut
le vrai fondateur de la société civile. Que de crimes, de guer-
res, de meurtres, que de misères et d'horreurs n'eut point
épargnés au genre humain celui qui, arrachant !es pieux ou
comblant le fossé, eut crié à ses semblables: Gardez-vous
d'écouter Cet imposteur; VOUS eteS perdus, si VOUS oubJiez que
!es fruits sont à tous, et que la terre n'est à personne.
].-]. Rousseau, Discours sur l'origine desfondements de l'inégalité
parmi /es homes, 1755. Partie II
I
Un «dio oggetto»
I.I
Turno, la Dira e il macigno
Accingendosi a commentare gli ultimi versi dell'Eneide, e in particolare l'episodio
della morte di Turno, William Warde Fowler (1919, pp. 152-3) scriveva:
In rhe whole range ofpoetry there is nothing, I think, outside Paradise Lost and rhe Divina
Commedia, so grand as this conclusion to the great poem. Homer is here, Lucretius is here,
others, perhaps, that we do not know of: Virgil calls in their aid to inspire him, to raise him
to the highest leve! ofwhich ancient poetry was capable. But the resu!t is no amalgam; it is
Vergil and Vergil only, perfect in its nobility ofdiction, rhythm and imagination.
In effetti, nonostante i diversi apporti e il riferimento a molteplici modelli, il finale
dell'Eneide, con lo scontro tra Enea a Turno, è così originale, da risultare per certi
versi addirittura ambiguo: non soltanto perché in qualche modo mette in discus-
sione la stessa figura di Enea, reo, secondo alcuni, di aver ucciso Turno nonostante
questi fosse ormai ridotto alla condizione di humilis supplex, e dunque di essere
venuto meno, proprio nel momento culminante della sua missione, a quella pietas
che egli invece era stato chiamato a rappresentare e difendere'; o perché l'ultima
immagine, dedicata alla figura dello sconfitto, piuttosto che aquella del vincitore -
«L'ultima voce dell'Eneide èil lamento dell'anima di Turno. E ne è anche l'ultimo
problema» (Traina, 1998, p. us) -, sembra gettare un' «ombra» sul significato
dell'intero poema, significato che Virgilio avrebbe nascosto proprio negli ultimi
versi2
; ma anche perché l'ambiguità, a nostro avviso, riguarda la stessa morfologia
1. Cfr. Traina (1998); Ceccardli (2012.). Sulla questione relativa alla presunta empietà di Enea,
cfr. Bettini, Lentano (2.013, pp. 190-2.2.1).
2.. Traina (1994, p. 98) parla di un «finale in ombra dd poema, simbolicamente suggellato da un
lessema ominoso» come umbra: «Questa è la grande tragica intuizione di Virgilio, che fa perenne
l'attualità dell'Eneide: è sempre l'individuo, nella sua irripetibile concretezza esistenziale, a pagare il
prezzo dei paradisi perduti».
19
LA LOGICA DEL CONFINE
del racconto. Il duello tra i due grandi eroi viene infatti liquidato in pochi versi,
disattendendo così le aspettative del lettore, per di più attraverso una sequenza
narrativa che, letta in filigrana, mostra un tessuto non perfettamente coerente.
La scena è il campo di battaglia, di fronte alla città di Latino, dove Enea e T ur-
na sono sul punto di affrontarsi nel duello decisivo. Giove, che è appena riuscito a
convincere Giunone ad abbandonare il suo campione in cambio di un'ambigua
promessa riguardante il destino dei Troianil, invia sulla terra una delle due Dire,
per comunicare a Giutuna che deve smettere di combattere accanto al fratello, il
cui destino è stato ormai deciso. Giunta sopra le schiere dei combattenti, la dea,
dice Virgilio, si trasforma in quel piccolo uccello che «spesso di notte, appollaiato
sulle tombe o su tetti deserti, a lungo canta angoscioso tra le ombre», e comincia
a volteggiare, stridendo, sopra il volto del guerriero rutulo e a colpire con le ali il
suo scudo4. A questo punto segue un distico che descrive la reazione di Turno:
«Uno strano torpore gli scioglie le membra per la paura l i capelli si drizzano dal-
lo spavento e la voce rimane strozzata in gola»l, Può venire il sospetto, leggendo
questi versi, che lo «strano torpore» che qui colpisce il povero Turno non sia
tanto di natura psicologica, quanto piuttosto l'effetto di un incantesimo prodotto
direttamente su di lui dalla Dira. Ma noi sappiamo, perché Virgilio è molto chiaro
su questo punto, che il destinatario del messaggio non è Turno, quanto piuttosto
sua sorella Giuturna, che infatti riconosce immediatamente il significato di quel
monstrum: «Riconosco quelle ali l e il suono di morte, né mi ingannano gli ordini
severi l del generoso Giove» 6
• Resasi conto di non poter fare più nulla per il fratel-
lo, disperata come se questi fosse già morto, ella si abbandona ai gesti caratteristici
dellutto7 ; quindi, dopo aver maledetto l'immortalità donatale da Giove che le
3· Virgilio, Aeneis XII, 830-840. Sulla "scomparsa" dei Troiani promessa da Giove, cfr. Betrini
(wo9a, pp. 273-301).
4· Virgilio, Aeneis XII, 861-866. Sull'intervento della Dira, cfr. Grassmann-Fischer (1966, pp.
100 ss.). Nonostante l'opinione di Servio, AdAeneidem XII, 863: culminibus desertis noctuam dicit,
non bubonem; nam ait ''alitis in parvae": bubo autem maior est, l'esegesi moderna è incline ad identi-
ficare laparva ales in cui si è conlecta la Dira proprio in un bubo; così ad esempio Hiibner (1970, pp.
125 ss.) e Fowler (1919, p. 151). Per quanto riguarda i colpi d'ala dell'uccello malaugurante sullo scudo
di Turno, Servio, Ad Aeneidem XII, 866, osserva: clipeumque everberat alis: signa sunt ista plangen-
tium; sul significato dell'espressione everberat alis come manifestazione di una sternotypia, cfr. Betri-
ni (1988, pp. 140-3).
5· Virgilio, Aeneis XII, 867-868: l/li membra novos solvitJormidine torpor l arrectaeque orrore
comae et voxJàucibus haesit.
6. lvi, 876-878: Alarum verbera nosco l letalemque sonum necjàllunt iussa superba l magnanimi
lovis.
7· lvi, 870-871. Sulla reazione di Giuturna all'apparizione della mostruosa Dira, che sembra ri-
produrre il comportamento delle donne romane in occasione deifunera, cfr. Barchiesi (1978, pp.
99-121). Più in generale sul pianto funebre nel mondo antico, De Martino (1975).
20
I. UN «DIO OGGETTO»
impedisce di accompagnare Turno nel mondo delle ombre8
, si copre il capo con un
velo azzurro e si getta in lacrime nel Numico, uscendo così definitivamente di sce-
na9.
Nel frattempo Enea, che non sembra essersi accorto né della Dira, né della
mutata condizione psicologica del suo antagonista, lo invita a non fuggire e a bat-
tersi comminus armis'0
• Turno risponde sprezzante di non temere il duello, ma gli
dèi e Giove in particolare, la cui ostilità sentiva- è proprio il caso di dire - aleggia-
re sulla testa:
«Non mi atterriscono le tue fervide parole,
feroce Enea, ma gli dèi e Giove nemico».
Altro non disse, si guardò intorno e vide un gran masso,
un grande masso antico, che giaceva per caso nel piano,
posto a confine di un campo per sciogliere le liri fra gli agri:
a stento dodici uomini potrebbero portarlo sul collo
scelti fra quelli che ora produce la terra;
quello avendolo afferrato con mano febbrile, lo vibrava contro il nemico
sollevandolo più alto, l'eroe, e rapido nella corsa.
Ma non si riconosce nel correre, né nell'incedere,
né nel sollevare le mani, né nel muovere l'immane pietra;
le ginocchia tremano, il sangue si ferma gelato in un brivido.
Così quella pietra lanciata dal guerriero nel vuoto
non percorse rutto lo spazio [che avrebbe dovuto], né portò a segno il colpo.
Ma come in sogno, quando ci grava sugli occhi la languida
quiete della notte, inutilmente in avide corse
crediamo di volerei lanciare e stanchi nel mezzo dei tentativi,
cadiamo e la parola è vacua, né le consuete forze nel corpo
bastano, né voce o parole le seguono;
così Turno, qualunque strada cerchi con il valore,
trova la dea Dira a sbarrargli il cammino. Allora nel petto
differenti sensazioni si muovono. Guarda i Ruruli e la città
e indugia nella paura e teme di essere sotto il tiro dell'asta,
né riesce a vedere come possa sfuggire, né in che modo assalire il nemico,
non vede più il carro, né la sorella auriga".
8. Virgilio,Aeneis XII, 869-884.
9- lvi, 88s-886.
IO. lvi, 887-893.
11. lvi, 894·918: «Non me tuaftrvida terrenil dicta,ftrox. Di me terrent et luppiter hostis.» l Nec
plura efJàtus, saxum circumspicitingem, l saxum antiquum ingens, campo quodforte iacebat, l limes agro
positus litem ut discernerei arvis: l vix illudlecti bis sex cervice subirent, l qualia nunc hominum produ-
cit corpora tellus: l ille manu raptum trepida torquebat in hostem l altior insurgens et cursu concitus
heros. l Sed neque currentem se nec cognoscit euntem, l tollentemque manu saxumve immane mo·
ventem; l genua labant, gelidus concrevitjrigore sanguis. l Tum lapis ipse viri vacuum perinane volutus l
2.1
LA LOGICA DEL CONFINE
Si direbbe che Turno sia in preda ad un vero e proprio attacco di panico, che ne
ottunde le capacità fisiche e mentali. Enea ne approfitta, scaglia il suo telum, e lo
colpisce al femore; Turno allora piomba sulla ginocchia, quasi costretto nella posa
del supplice12
• Gli ultimi versi del poema lo ritraggono infatti mentre implora pietà,
in un atteggiamento assolutamente inedito, che risulta fortemente in contrasto con
il carattere superbo e violento esibito fino a quel momento (Ille humilis supplex
oculos dextramque precantem l protendens)'3; e solo la vista del balteo di Pallante
distoglie Enea dal proposito di risparmiargli la vita'4 .
Questo episodio è stato oggetto di molte interpretazioni, che hanno riguar-
dato non soltanto il significato e la struttura del XII libro, ma più in generale il
senso dell'intero poema e l'ideologia dell'autore. Non è possibile ripercorrere in
questa sede, neppure sommariamente, le fasi salienti di questo interminabile di-
battito filologico-letterario'1• Quello che qui più ci interessa invece è stabilire da
cosa sia determinata questa fine. Non c'è dubbio che, nell'ottica di Virgilio, il
vero responsabile della morte di Turno sia Giove. Ma qual è lo strumento che
Giove avrebbe scelto per eseguire la sentenza? La Dira,lo stesso Enea o qualcos' al-
tro ancora? Per rispondere a questa domanda converrà riesaminare, testo alla ma-
no,le diverse sequenze narrative che compongono l'episodio del duello.
Il primo scontro fra i due contendenti si interrompe quando improvvisamen-
te la spada di Turno (peifìdus ensis), non quella di suo padre Dauno, ma quella
presa per errore all'auriga Metisco, si spezza ifrangitur) contro le armi vulcanie di
Enea (697-741). Egli allora fugge per la piana inseguito dal figlio di Anchise in un
confuso intrigo di giri, stretto da ogni parte dai T roiani, chiuso da un lato da una
vasta palude, dall'altro dalle alte mura della città; e fuggendo grida, chiama per
nec spatium evasit totum, neque pertulit ictum. l A c velut in somnis, oculos ubi languida pressit l nocte
quies, nequiquam avidos extendere cursus l velle videmur et in mediis conatibus aegri l succidimus; non
lingua valet, non corpore notae l sujficiunt vires nec vox aut verba sequuntur: l sic Turno, quacumque
viam virtutepetivit, l successum dea dira negat. Tum pectore sensusl vertuntur varii; Rutulos aspectat et
urbem l cunctaturque metu letumque instare tremescit, l necquo se eripiat, nec qua vi tendat in hostem, l
nec currus usquam videt aurigamve sororem.
12.. lvi, 92.1·92.7. Su questo punto, Burnell (1987, pp. 186-wo).
13· Virgilio,Aeneis XII, 930-931. Sulla condizione di supplicc di Turno c l'ambivalenLa scmanri-
ca (fisica c psichica) di supplex, cfr. Traina (1981, pp. 113 ss.).
14. Virgilio, Aeneis XII, 941-951. Sulla reazione di Enea alla vista delle spoglie di Pallante, cfr.
Galinsky (1988); Negri (1999, pp. 2.40 ss.); Mosr (2.003). Sul mito dell"impius Aeneas cfr. Bcrrini,
Lcntano (2.013, pp. 190-2.2.1). Più in generale sulla supplica di Turno e i modelli omcrici, Barchiesi
(1984, pp. 114 ss.).
15. La bibliografia sulla marre di Turno e il finale dell'Eneide, è ampissima; per un tentativo di
sintesi e discussione cfr. Traina (1990, pp. 332.-3). Per il rema che qui più ci interessa si veda in partico-
lare Thornton (1953); Quinn (1964); Wesr (1974); Gagliardi (1985); Burnell (1987); Srhal (1990);
Porz (1991); Gaskin (1992.); Nicoll (2.001); Ceccarelli (2.012.).
22
I. UN «DIO OGGETTO»
nome i suoi compagni, chiede che gli sia restituita la spada paterna (742.-765).
Giuturna, prese le sembianze di Metisco, finalmente riarma il fratello. Enea dal
canto suo, grazie all'aiuto di Venere, riesce ad estrarre la sua lancia dal tronco te-
nace di un vecchio olivo sacro a Fauno, dove si era conficcata (766-787). A questo
punto i due combattenti sono di nuovo alla pari (788-790).
L'apparizione della Dira, sotto forma di uccello ominoso, sembra determinare
invece un nuovo squilibrio di forze. Turno è letteralmente assalito da quell'omen,
che vola e rivola stridendo contro il suo viso e con le ali sferza ripetutamente lo
scudo: hanc versa in fociem Turni se pestis ob ora l ftrtque refertque sonans cli-
peumque everberat alis'6
• Allora, egli prende improvvisamente coscienza del pro-
prio destino e, quasi fosse un imputato che sente pronunciare su di sé la sentenza
che lo condanna a morte, sbigottisce: illi membra novus soluitJormidine torpor, l
arrectaeque horrore comae et voxfoucibus haesit'7• Ma siamo ancora in una dimen-
sione puramente psicologica. Il novus torporche «scioglie le membra» di Turno è,
infatti, un prodotto dellaJormido, dello sgomento derivante da questa improvvisa
presa di coscienza. Alle provocazioni di Enea egli risponde, infatti, in modo sprez-
zante di non temere il combattimento corpo a corpo (comminus), ma gli dèi e in
particolare Giove nemico (Di me terrent et Iuppiter hostis)'8
• Di tutt'altra natura
sembra essere invece l'imprevista e apparentemente inspiegabile astenia che lo col-
pisce subito dopo lo sradicamento del grande masso. Soltanto allora, mentre tenta
di sollevare il macigno e scagliarlo contro Enea, Turno si accorge di non essere più
lo stesso: i movimenti sono impacciati, le braccia non sostengono il peso, le ginoc-
chia tremano. Il colpo neppure si avvicina al bersaglio'9. Braccato da ogni parte da
forze oscure che ne limitano i pensieri e le azioni, Turno è solo, atterito, impoten-
te e ovunque egli cerchi una via di scampo, la Dira è lì, pronta a sbarrargli la stra-
da"0. Si direbbe, insomma, che in seguito alla «litobolia», lo spaesamento di Tur-
no, invece di ridursi, si sia amplificato.
Se questa nostra lettura del testo è corretta, converrà allora distinguere l' ango-
scia e il turbamento provocati dalla comparsa dell'omen-Dira dalla misteriosa de-
bolezza che si manifesta concretamente al momento del lancio del masso. In altre
parole, se il novus torpor (866-867) rientra nel novero delle emozioni- Turno vede
l'uccello ominoso, si rende conto di essere stato abbandonato dagli dèi, intuisce il
16. Virgilio,Aeneis XII, 86s-866.
17. lvi, 867-868. Sulla consapevolezza di Turno, cfr. soprattutto Di Benedetto (199s) e Huskey
(1999, P· 79).
18. Traina (1990, p. 333) nota in proposito che è rarissima la predicazione di hostis ad una divi-
nità.
19. Virgilio,Aeneis XII, 903-907.
20. lvi, 911-914.
2.3
LA LOGICA DEL CONFINE
proprio destino di morte e ha paura (jòrmido/horror) -,l'improvviso esaurimento
di forze che segue allo sradicamento del saxum (903-91s) sembra piuttosto un fe-
nomeno di altra natura, determinato da una fonte esterna al soggetto,1
• Tuttavia,
forse neppure in questo caso è necessario dare la responsabilità alla D ira. Essa, in-
fatti, come abbiamo appena visto, si limita a negare una via di fuga alla sua vittima,
un successum, probabilmente continuando a tormentarlo come ha fatto sin dall'i-
nizio, volandogli intorno, sul capo, o colpendolo con le ali, impedendogli, insom-
ma, di sottrarsi al colpo di Enea.
Tra questi due momenti, la presa di coscienza e l'improvvisa astenia, si colloca
l'episodio della «litobolia», un episodio che sembra tutto sommato poco armoni-
co rispetto alla logica del racconto. Turno, infatti, avrebbe potuto affrontare Enea
comminus, battendosi con la spada di Dauno che gli era stata appana restituita da
Giuturna. Invece preferisce seguire l'esempio di Diomede e di altri eroi omerici e
avventurarsi nel lancio di un grosso masso. Si dirà che qui Virgilio aveva presente il
modello iliadico. Servio, infatti, si limita a chiosare: Homeri totus hic locus est».
Tuttavia, nei quattro passi iliadici in cui compare il medesimo schema, il lancio
della pietra da parte dell'eroe o del dio, il tiratore non mostra alcuna difficoltà a
maneggiare il proiettile e riesce sempre a centrare il bersaglio. In Iliade v (302-310),
Diomede colpisce Enea con un xepfUiotov, ferendolo all'anca. In XII (44S-4S3),
Ettore sfonda i battenti della porta del campo acheo lanciadogli contro unÀtictv che
Zeus ha reso leggero (èÀct~p6v). In xx (28s-291) Enea viene sottratto alla battaglia
dall'intervento di Poseidone poco prima di scagliare un xepf.ttXO!OV contro Achille.
Infine, e questo è senza dubbio il parallelo più interessante, in Iliade XXI (403-
406), Atena scaglia contro Ares un macigno scabro, nero ed enorme, colpendolo al
collo. In effetti, a differenza degli altri massi iliadici, meri elementi esornativi del
paesaggio omerico, la cui grandezza serve a dare un'idea dell'eccezionalità dell'e-
2.1. La maggior parre degli interpreti moderni non ritiene che vi sia una discontinuità fra i due
momenti, ossia che la scomparsa di forze manifestatasi al momento della «litobolia» sia in realtà
una conseguenza del tutto naturale del fatto che Turno ha preso consapevolezza dell'ineluttabili-
tà del proprio destino. Così ad esempio Fowler (1919, p. 153): «What paralyzes him is the discovery
that che great deity offldes, iustitia, pietas, is his enemy. To have Jupiter as your enemy was far a
Roman inconceivable: it would mean that you are an outcast from civilization, from sociallife and
virtue. lt was nor far these rhat Turnus fought, but individuai passion, far che pride of youth and
beauty, far che lave of fighting. When rhat messenger from Jupiter has warned him that such
things are not to be avail. and that the course of this world is not to be ordered by them, that they
have no value in the eyes ofthe king ofgods and men, then his hand trembles as he graps the stone;
and vir and heros rhough he be (902., 906), his strength fails, his brain gives away». Altri ritengo-
no invece che la «détresse>> che colpisce Turno sia provocata dalla stessa Dira; cfr. Paratore (1978,
p. LII).
2.2.. Servio, AdAeneidem XII, 896. Sul motivo della «litobolia>>, cfr. Monrenz (2.002.).
1. UN «DIO OGGETTO>>
roe, il masso lanciato da Atena, è un oggetto linguisticamente più complesso - gli
aggettivi fLE'Àctç, TPYJxUç, fLEyaç lo differenziano nettamente rispetto dagli altri -, e
soprattutto investito di una precisa funzione culturale. Si tratta infatti, come il
macigno divelto da Turno nell'Eneide, di un antico segno di confine (T6v p' &vopeç
np6TEpot 9eCTav EfLfLEVctL oùpov tipovpYjç). Va detto però che qui a compiere un simile
gesto non è un uomo, ma un dio. Se, dunque, vogliamo valorizzare il piano interte-
stuale, dobbiamo riconoscere che Turno fa qualcosa che nell'Iliade fa soltanto una
divinità. Èper questo che la sua "fatica" (il f!Eya epyov di Diomede, Ettore ed Enea)
si risolve in un completo disastro? Del resto, mentre i macigni innalzati dagli eroi
omerici sono tali che neppure due uomini fra i migliori della generazione presente
riuscirebbero a sollevare (o où ovo y' &vope ~epotev, l oIotvuv ~poTo{ eiCT' ), quello di
Turno è ancora più grande e straordinario, poiché neppure dodici uomini lecti sa-
rebbero sufficienti (vix illud lecti bis sex cervice subirent, l qualia nunc hominum
producit corpora tellus)1
l. Evidentemente questo saxum non è comparabile in quan-
to agrandezza e significato ai xepfLctOLct sollevati degli eroi omerici; è qualcosa di ben
più straordinario, qualcosa che un uomo farebbe bene a lasciar stare, che potrebbe
sollevare soltanto un dio.
Èevidente, insomma, che qui la traccia america, più che spiegare, altera la co-
erenza del testo virgiliano. La struttura del racconto presenta in effetti le anomalie
tipiche del!'episodio omerico riscritto e risemantizzato da Virgilio secondo un'ot-
tica romana. Tra i diversi elementi che il poeta ha collocato sulla scena (gli dèi, le
schiere, i due eroi, le loro armi), il grande masso sradicato da Turno è il più disor-
ganico, «come un'asperità ben mimetizzata eppure avvertibile al tatto>>14
• Oltre
ad essere antiquum, questo masso è, soprattutto, straordinariamente grande, smi-
surato. Gli aggettivi che lo qualificano, ingens (ripetuto due volte) e immane, indi-
cano qualcosa che è fuori dali'ordinario, che non (in-) appartiene al mondo delle
gentes, che eccede la misura, insomma, qualcosa che si pone «al di fuori della
cultura»1
1. Una simile grandezza impone attenzione, o meglio "circospezione".
Prima di sradicarlo, infatti, Turno lo osserva bene, gli gira intorno con lo sguardo
(circumspicit). Ma soprattutto, su questo masso sembrano concentrarsi due diverse
forme di soggettività: quella dell'eroe (empatheia), e quella dell'autore-narratore
2.3. Virgilio, Aeneis XII, 899-900.
2.4. Riprendiamo quest'immagine da Conte (2.002., p. 51), che la usa per spiegare l'effetto di
estraniamento che producono sul lettore le sollecitazioni espressive tipiche del linguaggio virgiliano.
Interessante è poi l'invito che Conte rivolge al lettore di Virgilio poco dopo (p. 61): «ogni lettore
dell'Eneide si armi di un ideale sismografo, e si tenga pronto a registrare tutte le vibrazioni del testo
e della sua crosta linguistica. Gli apparirà visibile un tracciato che non è affatto lineare, bensì desulto-
rio, con vari picchi di intensità>>.
2.5. Sul significato di ingens e immanis cfr. Bettini (1978, pp. 144-9).
LA LOGICA DEL CONFINE
(sympatheia), due coefficienti stilistici che, come ha mostrato bene Gian Biagio
Conte, servono a deformare la fissità dell'oggetto e a render!o, per così dire, bidi-
mensionale, contraddittorio, incertol6
• Attraverso questo meccanismo Virgilio
descrive la stessa scena secondo angolazioni diverse e complementari: in un primo
momento (896-897) riferisce il modo in cui il suo personaggio percepisce l'ogget-
to, nel secondo (898) suggerisce al lettore che cosa l'oggetto significa realmente. In
altre parole, la prima parte della descrizione (896-897) appartiene all'orizzonte
visivo e percettivo di Turno, è il suo punto di vista: saxum circumspicit ingens, l
saxumantiquum ingens, campo quodforte iacebat. L'avverbioforte, contrariamente
al suo significato, non è affatto casuale, tutt'altro; è un indizio importante, soprat-
tutto se messo in relazione con quanto si dice nel verso successivo, ossia che il
masso era in realtà un antico limes agro positus litem ut discernere! arvis. Ciò vuoi
dire che questo macigno si trovava per caso (/orte) nel campo solo per Turno, che
evidentemente non lo riconosce in quanto limes e lo giudica una presenza acciden-
tale. Il verso 898, costituisce invece una notazione extradiegetica dell'autore. Qui
Virgilio interviene direttamente nella narrazione per spiegare al lettore la reale
natura dell'oggetto in questione: il masso è un'antica pietra di confine, e in quan-
to tale si trova in quel luogo nonforte, ma per una ragione ben precisa, dirimere le
liti fra gli agri. Quello che, dunque, per Turno è un semplice oggetto di scena, un
dato naturale e marginale del paesaggio, è, nel!'ottica di Virgilio, un «confine» in
funzionel7• Del resto, considerando l'esito del duello, la presenza di questo ogget-
to non è affatto casuale, ma piuttosto causale, poiché sembra in qualche modo
determinare la fine dell'intero poemal8• C'è da chiedersi se sia davvero Enea o non
piuttosto questo strano macigno, con le sue capacità stordenti ed estranianti, a
sconfiggere Turno.
2.6. Sull'empatheia e la sympatheia come livelli differenti di rappresentazione e deformazione
dell'oggettività epica, cfr. Come (wo2., pp. 91-12.4, in pare. pp. II7 ss.).
2.7. La relazione fra Turno e lo sradicamemo dell'ingem saxum è stata notata solo di sfuggita
dagli interpreti moderni. Piccaluga (1974a, p. u3, n. 46): «Il facto che chi sposta i termini si trovi
automaticamente "in balia" di luppicer può forse aiutarci a comprendere meglio un episodio del xn
libro dell'Eneide»; ma anche Montanari (1990, p. 133) e Carandini (2.ooob, p. q8); da ultimo, più
diffusamente, Huskey (1999); Tilly (1969, p. 2.2.0, n. 897), pur riconoscendo che il macigno di Turno
è un terminus, riteneva che esso avesse perso il suo valore sacrale.
2.8. Interessanti in proposito le osservazioni di Thaniel (1971), che definisce la pietra «an inscru-
ment of fate» e la considera l'espressione culminante del «theme of desecracion>>, sviluppato da
Virgilio lungo cucco il poema.
I. UN «DIO OGGETTO»
1.2
Immobile saxum
Per capire la specificità di questo oggetto, dovremo partire dai pochi elementi che
il testo ci mette a disposizione: innazitutto le caratteristiche fisiche, l'essere ingens
e immane, la vetustà (antiquum), e infine la funzione (limes agro positus litem ut
discerneret arvis), che evidentemente deve avere a che fare con il motivo per cui
esso si trova sulla scena. Si tratta di studiare questi indizi in relazione al sistema
culturale di riferimento, perché soltanto in questo modo, recuperando l'orizzonte
antropologico di Virgilio, essi potranno dirci qualcosa sul ruolo che l'autore ha
attribuito a questo misterioso saxum.
Tanto per cominciare, va detto che esiste un altro luogo del poema virgiliano
in cui il termine saxum è accompagnato da un aggettivo che rinvia, come ingens e
immane, all'idea di grandezza e di straordinarietà: si tratta dell'attributo immobile,
che compare in Eneide IX, 449, dove Virgilio, che ha appena finito di raccontare
la tragica storia di Eurialo e Niso, si ripromette di sottrarre all'oblio la memoria dei
due giovani amici attraverso la grandezza dei suoi versi:
Fortunati entrambi! Se possono qualcosa i miei versi,
mai nessun giorno vi sottrarrà al ricordo futuro,
finché la casa di Enea [domus Aeneae] abiterà l'immobile sasso [immobile saxum]
del Campidoglio e il padre Romano avra il comando!'9
Se è evidente che la domus Aeneae fa riferimento allagens Iulia, o forse all'intero
popolo romano, e l'espressione pater Romanus allude al senato di Roma oppure,
come hanno sostenuto altri (Binder, 1971, p. 126), allo stesso Giove Ottimo Massi-
mo, il sintagma immobilesaxum si presta invece ad una pluralità di interpretazioni.
La maggior parte dei commentatori ritiene che si tratti di una semplice metonimia
per indicare il Campidoglio, poiché a Roma il saxum per eccellenza è appunto il
monte Tarpeo30
• Èanche possibile però che, come suggerisce il commentoadlocum
di Servio, con l'aggettivo immobile Virgilio intendesse riferirsi ad un elemento spe-
cifico del complesso capitolino:
«abiterà l'immobile sasso del Campidoglio». Nella città di Roma non c'era il tempio di
Giove. Quando Tarquinio il Superbo volle edificare questo tempio, già promesso in voto
29. Virgilio, Aeneù IX, 447-4so: Fortunati ambo! Si quid mea carmina possunt, l nulla dies
umquam memori vos eximet aevo, l dum domus Aeneae Capitoli inmobile saxum l accolet imperiumque
pater Romanus habebit.
30. Cicerone, AdAtticum I4, I6, I; Orazio, Saturae I, 6, 39; Properzio, Elegiae Ili, II, 4S·
LA LOGICA DEL CONFINE
da Tarquinia Prisco, cominciò acercare attraverso gli augùri quale monte fosse il più adatto
per questa realizzazione. E poiché inconfondibilmente venne riconosciuto il Tarpeo, sul
quale stavano molti altari di divinità diverse, si provvide affinché questi dèi fossero evocati
arrraverso sacrifici per essere trasferiti da quel luogo presso altri templi [ut exinde ad alia
tempia numina evocarentursacrificiis]; e questo per poter costruire il tempio di Giove libe-
ramente e senza commettere alcuna azione sacrilega [libere et sinepiaculo]. E mentre tutti
gli dèi migrarono felicemente, solo Terminus, il dio dei confini [limitum deus], non volle
abbandonare la sua sede e lì rimase. Allora in ragione di questo evento si offrì un sacrificio
e si comprese che il rimanere di Terminus accanto a Giove preannunciava per la città un
imperium senza fine fondato sul culto degli dèi [Terminus cum Iove remanens aeternum
urbi imperium cum religione significaret]. Perciò sul Campidoglio, la parre bassa del retto,
quella che guarda la pietra di Terminus, è lasciata aperta; infarti, a Terminus non si sacrifi-
cava se non a cielo aperto. Per questo motivo il poeta ora disse: «abiterà l'immobile sasso
del Campidoglio», perché Terminus non fu spostato dalla sua sedel'.
Secondo Servio, dunque, Virgilio con l'espressione immobilesaxum alludeva al dio
Terminus "in persona", o meglio al suo santuario, installato sul Campidoglio ben
prima della costruzione del tempio di Giove Ottimo Massimol'. D'altra parte, se
l'immobilità di Terminus costituiva effettivamente nell'ottica dei Romani una sor-
ta di pignus imperii, non sarebbe affatto strano che l'autore dell'Eneide sia ricorso
proprio al mito di Terminus per celebrare l'eternità del dominio di Roma e, impli-
citamente, della sua poesia. L'episodio a cui fa riferimento Servio, così come la sua
interpretazione, è ben documentata dalla tradizione relativa ai primordia del tem-
pio di Giove Ottimo Massimo. Livio, in cui la storia è raccontata nei particolari,
riferisce che la resistenza di Terminus venne subito interpretata come un segno
divino (numen) della futura grandezza della città:
Si narra che al principio della costruzione di quest'opera gli dèi abbiano dato un segno che
lasciava presagire la grandezza di un così vasto impero [numen adindicandam tanti imperii
31. Servio, AdAeneidem IX, 446: «Capito/ii inmobile saxum accolet». In urbe Roma Iovis tem-
plum nonJuit. ~od cum iam devotum a Prisco Tarquinia vellet Superbus Tarquinius aedificare, coepit
auguriis captare qui mons huic tempio esset aptissimus. Et cum in omnibus Tarpeius esset inventus, in
quo erant multa diversorum numinum sacella, actum est, ut exinde adalia tempia numina evocarentur
sacriflciis, quo posset libere et sine piaculo templum lovis exaedificare. Cumque omnes dii libenter mi-
grassent, Terminus solus, hoc est limitum deus, discedere noluit, sedillic remansit. Tunc de hoc ipso sacri-
ficatum est et deprehensum, quod Terminus cum love remanens aeternum urbi imperium cum religione
significare!; unde in Capito/io prona pars tectipatet, quae lapidem ipsum Termini spectat; nam Termino
non nisi sub divo sacrificabatur. Hinc ergo nune dixit «Capito/ii inmobile saxum accolet», quia Termi-
nus non est revulsus de loco.
32.. L'interpretazione serviana è accolta sia da Lattanzio, Divinae institutiones 1, 2.0, 37, che da
Agostino, Decivitate Dei IV, 2.3 e 2.9; tra i moderni cfr. Piccaluga (1974a, pp. 12.3 ss.) e Montanari (1990,
pp. 132.·3).
2.8
1. UN «DIO OGGETTO»
molem]. Infatti, se gli auspici si erano dimostrati favorevoli alla sconsacrazione di tutti i
santuari, non permisero quella del tempietto di Terminus; ora il fatto che la sede di Termi-
nus non fosse stata spostata e che questo solo fra gli dèi non fosse stato scacciato dai luoghi
a lui consacrati fu interpretato come segno augurale che prometteva stabile e ferma ogni
cosa [finna stabiliaque cuncta]. Accolto questo come un auspicio d'eternità, si verificò un
altro prodigio che preannunciava la grandezza deli' impero: si dice che quelli che scavavano
le fondamenta del tempio trovarono un teschio umano dal volto ancora intatto. Questa
apparizione indicava senza dubbio che quella sarebbe stata la rocca del!' impero e il capo del
mondo [arcem eam imperii caputque rerum]; così si espressero i vati che erano in città e
quelli che erano giunti dall'Etruria per dare il proprio responso su questo fenomeno3l.
L'interpretazione dell'inamovibilità di Terminus è qui rafforzata dal ritrovamento
della testa umana: l 'imperium di Roma non solo sarebbe stato immobile e saldo,
ma avrebbe avuto proprio sull'antico monte Tarpeo il suo caput, che sarebbe dive-
nuto così il "centro del mondo"34•
Ma andiamo con ordine. Perché il dio dei confini non accetta di lasciare come
gli altri il posto a Giove? Evidentemente per garantire con la sua inamovibilità la
solidità e la fermezza dello Stato (firma stabiliaque cuncta); o, come direbbero gli
antropologi, per fondare l'inamovibilità delle pietre di confine (termini) e assicu-
rare così, attraverso il peso vincolante di un racconto mitico, un principio fonda-
mentale dell'ordinamento spaziale romano.
Vi è tuttavia un elemento che rende la storia di T erminus leggermente più
complessa. Il carattere peculiare di questa divinità, il suo differenziale, l' inamovi-
bilità appunto, sembra essere, infatti, qualcosa di organico e originario. Lattanzio,
nel 1 libro delle Divinae institutiones, ci ha conservato uno splendido ritratto di
questa curiosa divinità dei confini:
E che cosa dovrei dire di coloro che venerano una pietra informe e grezza [lapidem infor-
mem ac rudem] di nome Terminus? Si dice che questo sia quello che Saturno divorò al
posto di Giove e a buon diritto è onorato. Infatti, poiché Tarquinia voleva costruire il
tempio sul Campidoglio, ma in quel luogo sorgevano molti tempietti di divinità, chiese
33· Livio, Ab Urbe condita libri 1, ss. 3-7. In altre versioni dello stesso racconto (Floro, Epitome
de T. Livio bellorum omnium annorum DCC libri duo l, 7 e Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Ro-
manae III, 69), sarebbe rimasta insieme a Terminus anche luventas; Agostino, De civitate Dei lV, 2.3,
IO e 2.9, I, inserisce ne1 novero degli "dèi ribelli" anche Marre. Ad ogni modo, che la resistenza di
Terminus fosse divenuta proverbiale in età tardo repubblicana, lo dimostra un aenigma trovato da
Gellio nel De sermone Latino ad Marcellum di Varrone (Noctes Attit"ae XII, 6), la cui soluzione è co-
stituita, come dimostrò Angelo Poliziano, proprio dal dio Terminus: seme! minusne an bis minus sit
nescio, l an utrumque eorum; ut quondam audivi dicier, l lovi ipsi regi noluit concedere; cfr. Monda
(2.012.).
34· Sulprodigium del caput, rinvenuto nello scavo delle fondamenta del nuovo tempio, si veda la
documentazione raccolta da Piccaluga (I974a, p. 2.03, n. 168); per una sua discussione ivi (pp. 2.01 ss.).
29
LA LOGICA DEL CONFINE
loro attraverso il linguaggio augurale se erano disposti a cedere il loro posto a Giove; ebbe-
ne, mentre tutti gli altri si ritirarono, Terminus fu l'unico a rimanere [cedentibus ceterissolus
Terminus mansit]. Per questo il poeta lo chiama «immobile sasso del Campidoglio». E da
questo episodio si capisce quanto sia grande Giove, al quale una pietra non ha voluro lascia-
re il posto, forse in virtù di quell'antica confidenza, perché lo aveva sottratto alle fauci pa-
terne. Quando fu ultimato il tempio, sopra lo stesso Terminus fu lasciato aperto uno spira-
glio, perché, dal momento che non si era mosso, continuasse a nutrirsi della volta celeste.
Ma del cielo non si nurre questa gente che pure crede che se ne debba nutrire una pietra. E
viene pubblicamente adorata come divinità protettrice dei confini, non soltanto sotto for-
ma di sasso, ma anche quando a volte prende le sembianze di un ceppo. E cosa dovrei dire
di questi individui che venerano tali cose, se non che loro stessi sono delle pietre e dei
ciocchi di legno?li
L'incomprensione che dimostra qui l'apologeta cristiano nei confronti del dio Ter-
minus ricorda quella provata da molti missionari - ma anche da alcuni etnografi -
di fronte alla scoperta dei culti litici diffusi presso le religioni africane: stessa incre-
dula meraviglia, stessa inquietudine. In effetti, la descrizione di Lattanzio corri-
sponde, per usare la terminologia coniata da Mare Augé, a quella di un «dio ogget-
to», ossia una divinità che si identifica, o si confonde, con il suo simulacro natura-
le o artificiale; nel caso di Terminus, una pietra informe e grezza (infomtis ac rudis),
radicata al suolo così profondamente da non poter essere smossa36
• Ecco perché
Virgilio lo definisce immobile saxum: non solo per la tenace resistenza dimostrata
in occasione dell'instaurazione del nuovo culto capitolino, perché non volle rece-
dere, come i suoi vicini, dal luogo in cui si era insediato per fare spazio a Giove; ma
35· Larranzio, Divinae institutiones I, 20, 37-41: f!?id qui lapidem colunt informem ac rudem cui
nomen est Terminus? Hic est quem pro Iove Saturnus dicitur devorasse nec immerito illi honos tribuitur.
Nam cum Tarquinius CapitoliumJacere vellet atque in eo loco multorum deorum sacella essent, consu-
luit eos per auguria utrum Iovi cederent, et cedentibus ceteris solus Terminus mansit. Unde illum poeta
«Capitoli inmobile saxum» vocat. lam ex hoc ipso quam magnus luppiter invenitur, cui non cessit lapis,
ea fortasse fiducia, quod illum de paternibusJaucibus liberaverat. Facto itaque Capito/io supra ipsum
Terminumforamen est in tecto relictum, ut quia non cesserai, libero coelofrueretur: quo ne ipsi quidem
fruebantur qui lapidemfrui putaverunt. Et huic ergo publice supplicatur quasi custodi.flnium deo, qui
non tantum lapis, sed etiam stipes interdum est. Quid de iis dicas qui colunt talia, nisi ipsos potissimum
lapides ac stipites esse?
36. L'espressione è stata coniata da Augé (1988) per indicare gli dèi vudu della religione africana,
e in particolare il dio Legba, la cui effige è composta di argilla impastata e vari materiali organici, tra
cui resti di sacrifici. Non sono mancare interpretazioni di tipo feticistico anche nei confronti del dio
romano; così ad esempio Fowler (1899, p. 326); Wissowa (1902, p. 136); Rose (1926, p. 52); ma soprar-
rurro Frazer (1929, p. 481, vedi infra); sulle diverse interpretazioni che sono stare formulare sul signi-
ficato originario del culto del terminus capitolino, Piccaluga (1974a, pp. 123-8). Fowler (1899, p. 327),
ad esempio, credeva che questa pietra fosse effettivamente un amico segno di confine, e più precisa-
mente uno dei termini che doveva segnare la frontiera fra la città di Romolo sul Palarino e quella di
Tiro Tazio sul Quirinale.
I. UN «DIO OGGETTO>>
anche perché, in fin dei conti, Terminus è una pietra, un grosso masso piantato nel
terreno, qualcosa insomma che esprime l'immobilitas in modo strutturale, median-
te la materia di cui è fatto, attraverso il suo essere saxum.
1.3
Tra Saturno e Giove
Secondo una parte della tradizione, il dio dei confini si era installato sull'antico
mons Tarpeius quasi all'inizio della storia della città. Prima dell'arrivo di Giove,
quel luogo, scrive Dionigi di Alicarnasso, era disseminato di «altari di dèi e divini-
tà gli uni accanto agli altri, che era necessario trasferire altrove perché tutta l'area
fosse dedicata al santuario che stava per essere innalzato» 37• Si tratta senza dubbio
di queiJana e sacel/a che, stando al racconto liviano, vennero offerti in voto da
Tito Tazio al tempo della guerra romano-sabina, prima dello scontro risolutivo
nella piana del foro, e che poi furono inaugurati e consacrati in seguito alla pacifi-
cazione con i Romanil8
• Varrone ci ha conservato una lista completa delle divinità
sabine importate a Roma in quell'occasione:
Con qualche piccola modifica provengono dai Sabini anche i seguenti nomi: Pale, Vesta,
Salute, Fortuna, Fonte, Fede. E di Sabino hanno il sapore anche le are che furono innalzare
a Roma per voto di Tiro Tazio. Negli Annali, si legge, infatti, che egli dedicò are a Opi, a
Flora, a Vediove e Sarurno, al Sole e alla Luna, a Vulcano e a Summano, e a Larunda, a Ter-
minus, a Quirino, a Verrumno, ai Lari, a Diana e a Lucina. Alcuni di questi nomi hanno
radici in entrambe le lingue, come gli alberi che sorti in un campo spingono le loro radici
in quello vicinol9.
Il culto di Terminus sarebbe stato, dunque, importato, insieme ad altri, dalla Sabina
al tempo della guerra con i Romani, nell'ambito di un evento mitico che, come è
stato più volte sottolineato, riveste un'importanza fondamentale nella costruzione
dell'identità romana (Dumézil. 1941, pp. 161 ss.). La lista varroniana ci permette
37· Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae III, 69, 4· Per questo genere di «bonifiche
sacre>>, cfr. Glinister (2.ooo) c Giardina (2.012., pp. 301-2.).
38. Livio,Ab Urbe condita libri l, 55, 1-2..
39· Varronc, De lingua Latina v, 74: Pau/o a/iter ab eisdem dicimus h<a>ec: Palem, Vestam, Sa-
futem, Fortunam, Fontem, Fidem. e<t> ar<a>e Sabinum linguam olent, quae Tati regis voto sunt Ro-
mae dedicatae: nam, ut anna/es dicunt, vovit Opi, Flor<a>e, Vedio[io}vi Saturnoque, Soli, Lunae, Vol-
cano et Summano, itemque Larundae, Termino, Quirino, Vortumno, Laribus, Dianae Lucinaeque; e
quis nonnulla nomina in utraque lingua habent radices, ut arbores quae in con.flnio natae in utroque
agro serpunt. Su questo documento, i nomi e le funzioni delle divinità che vi compaiono, cfr. Terrosi
Zanco (1961).
31
LA LOGICA DEL CONFINE
però di fare un ulteriore passo avanti nella nostra indagine su Terminus. Qui, infat-
ti, tra gli altri teonimi compare anche quello di Saturno, il padre di Giove, conside-
rato dai Romani come il dio "anteriore all'ordine". Visto il rapporto parentale e
funzionale tra le due divinità non può essere privo di significato il fatto che il san-
tuario di Saturno venga spostato alle pendici del colle capitolino, proprio quando
sulla sua sommità viene innalzato il tempio di Giove Ottimo Massimo40
• Si tratta
invece di un trasferimento particolarmente indicativo dal punto di vista ideologi-
co: «Ora», come ha sottolineato a suo tempo Angelo Brelich (1955, p. 12.0), «se il
dio garante dell'ordine è in cima- e sul colle capitolino lo era anche prima della
fondazione dell'aedes lovis O. M. (Iuppiter Feretrius) - difficilmente sarà senza
significato il fatto che al dio calendarialmente e ritualmente contraddistinto quale
rappresentante di uno stato "anteriore all'ordine" sia stato assegnato un posto ai
piedi del colle da cui Iuppiter era destinato a dominare il mondo». All'arrivo di
Giove, insommà, Saturno e Terminus si separano: mentre il primo scende ai piedi
del Campidoglio, ad occupare una posizione che esprime anche topograficamente
l'avvenuta sottomissione a Giove, l'altro resta invece al suo posto, sulla cima del
colle, finendo addirittura per essere inglobato nel nuovo tempio.
Questa dissociazione diventa ancor più significativa, se teniamo conto del fat-
to che nelle rappresentazioni dell'Età dell'oro, ossia di quel tempo mitico in cui il
regno di Saturno precede quello di Giove4 ', il segno di confine, il temJinus appun-
to, non esiste. Scrive Virgilio nel primo libro delle Georgiche:
Il padre stesso [Giove] volle
che non fosse facile l'arte della coltivazione, e per primo
fece smuovere con arte i campi pungolando i cuori dei mortali
con le preoccupazioni, poiché non sopportava
che il suo regno restasse nell'antico grave torpore.
Prima di Giove nessun colono lavorava la terra,
segnare o dividere i campi con un confine
non era lecito: i beni erano nel mezzo e la terra stessa offriva
tutto generosamente senza che nessuno lo chiedesse4 >.
40. Varrone, De lingua Latina v, 42.; Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae VI, 1; Feste,
De verborum significatu, s.v. Saturnia, p. 430 Lindsay; Servio, AdAeneidem Il, 116 e vm, 319.
41. Su Crono/Saturno, signore dell'Età dell'oro, in opposizione a Zeus/Giove, signore del pre-
sente, con riferimento alle oscillazioni di giudizio negli autori classici, cfr. Guastella (1992.); sulle
rappresentazioni latine dell'Età dell'oro, Pianezzola (1979).
42.. Virgilio, Georgicon libri 1, ILI-8: Pater ipse colendi l baudfocilem esse viam voluit, primusque
per artem l movit agros, curis acuens mortalia corda l nec torperegravi passus sua regna veterno. l Ante
lovem nulli subigebant arva coloni: l nesignare quidem autpartiri limite campum l jàs erat; in medium
quaerebant, ipsaque tel!us l omnia liberius nulloposcentejèrebat. Il mito deli' Età del! 'oro viene ripreso
1. UN «DIO OGGETTO»
A differenza di Lucrezio, che da buon epicureo riteneva che gli dèi non avessero
avuto alcuna responsabilità nel liberare l'uomo dalla sua condizione ferina, Virgilio
crede invece nella teodicea del lavoro, per cui la fatica e l'operosità sono considera-
te positivamente, in quanto stimoli all'intelligenza e all'intraprendenza dell'uo-
mo4l. In altre parole, per Virgilio l'aurea aetas non costituisce affatto un modello
culturale, come lo sarà per altri poeti dell'età augustea: prima dell'arrivo di Giove
tutto era in comune e indiviso, non esiteva né l'agricoltura, né la proprietà privata,
poiché la terra offriva tutto a tutti senza alcuna fatica (liberius nullo poscente); ma
questo stato rendeva insipida la vita stessa degli uomini: non costretti ad agire, a
sudare, a soffrire per procurarsi da vivere, essi vivevano in una sorta di torpida in-
dolenza, afflitti da una specie di «malattia dello spirito» (Barchiesi, 1980, p. 144).
È chiaro che in un mondo in cui non è necessario coltivare la terra per procurarsi
da vivere, è inutile misurarla, dividerla o proteggerla contro l'invidia degli altri.
Anzi, a pensarci bene, neppure l'invidia ha motivo di esistere in un mondo in cui
non esistono differenze; per questo motivo era giudicato addirittura nefas segnare
o dividere i campi con dei segni di confine.
Di tutt'altro tenore è l'immagine dell'Età del!'oro che affiora nei versi di Ti-
bullo:
Quanto bene vivevano quando regnava Saturno,
prima che la terra fosse aperta in lunghe strade!
Non ancora il pino sapeva sfidare le onde cerulee,
né sapeva offrire ai venti le vele spiegate,
né il mercante errante, desideroso di guadagno in terre ignote,
aveva riempito la stiva con merci straniere.
Allora il toro possente non si sottometteva al giogo,
né il cavallo mordeva con la bocca domata i freni;
le case non avevano porte, né fissa nei campi
stava la pietra per reggere i terreni con confini sicuri.
Le querce stillavano miele e spontaneamente le pecore
offrivano sicure le mammelle colme di latte agli uomini.
Non esistevano eserciti, né ira, né guerre,
né il fabbro crudele aveva appreso con l'arte severa a forgiare la spada.
Ora sotto il regno di Giove sempre massacri e dolori,
ora i pericoli del mare e vie infinite e improvvise alla morte44•
da Virgilio anche inAeneis VI, 791-794 e Bucolica 4, 6-10, come modello di rappresemazione dell'età
augustea.
43· Lucrezio, De rerum natura v, 9lS-IOIO; per un confromo fra Virgilio e Lucrezio sul tema
dell'Età dell'oro, cfr. Barchiesi (1980, pp. 144-s); sul comrasto tra la lettura virgiliana di questo mito
c quella degli altri poeti di età augustea, Viglietti (2011, pp. 99-ws).
44· Tibullo, Carmina 1, 3, 3s-48: Quam bene Saturno vivebant rege, priusquam l tellus in longas
33
LA LOGICA DEL CONFINE
Siamo, evidentemente, agli antipodi della celebrazione virgiliana. Ma i tratti carat-
teristici di questa specie di paradiso terrestre restano immutati. L'umanità primor-
diale, priva delle grandi conquiste culturali, che vive senza strade e senza navi, che
ignora la fatica e l'arte di piegare la natura ai propri scopi, che non conosce l'agri-
coltura, l'allevamento o la metallurgia, è necessariamente anche preservata dai
grandi mali della storia (acies, ira, bella). In questo mondo contrassegnato dalla
pace tra gli uomini e dalla prosperità delle risorse, in cui non hanno posto né desi-
deri, né violenze, neppure la divisione dei campi e l'idea della proprietà privata
sono concepibili. Èvero, la successione di Giove a Saturno ha sostituito l'ordine al
caos; ma l'ordine è divisione e la divisione comporta per sua natura la differenza, la
sproporzione. Ecco allora che il segno di confine, personificazione dell'ordine e al
tempo stesso della disuguaglianza, può essere assunto asimbolo di civiltà, ma anche
dei mali che essa comporta. Non è un caso che, nel rievocare l'aetas in cui gli uomi-
ni vivevano mixti deis, l' Ippolito di Seneca ricordi, accanto ali'assenza dell'auri
caecus cupido, proprio quella della «pietra sacra posta nel campo a dividere i terri-
tori fra i popoli» 41; o che Ovidio, nella sua nostalgica celebrazione dei regna Sa-
turni, metta in relazione l'innocenza dell'uomo primitivo e il suo disinteresse per
il guadagno e il possesso privato con l'assenza di limites, di confini tra i campi46.
Vengono in mente le famose parole con cuiJean-Jacques Rousseau apre la seconda
parte del suo Discours sur l'origine desjòndements de l'inégalitéparmi les homes:
Le premier qui, ayant enclos un terrain, s'avisa de dire: Ceci est à moi, et trouva des gens
assez simples pour le croire, fut le vrai fondateur de la société civile. Que de crimes, de
guerres, de meurtres, que de misères et d'horreurs n'eCu point épargnés au genre humain
celui qui, arrachant les pieux ou comblant le fossé, eut crié à ses semblables: Gardez-vous
d'écouter cet imposteur; vous etes perdus, si vous oubliez que les fruits sont à tous, et que
la terre n'est à personne47.
est patejacta vias! l Nondum caeruleas pinus contempserat undas, l ejfusum ventù praebueratque si-
num, l nec vagus ignotù repetem conpendia terrù l presserai externa navita merce ratem. l !Ilo non va-
lidus subiit iuga tempore taurus, l non domitoftenos ore momordit equus, l non domus ullafores habuit,
nonjìxus in agrù, l qui regeret certùjìnibus arva, lapis. l Ipsae mella dabant quercus, ultroqueferebant l
obvia securù ubera lactù oves. l Non acies, non iraJuit, non bella, nec emem l inmiti saevm duxerat arte
fober. l Nunc /ove sub domino caedes et vulnera semper, l nunc mare, nunc feti mille repente viae.
4S· Seneca, Phaedra Sl7·Sl9: Nullus hù aurifuit l caecus cupido, nullus in campo sacer l diviJit
agros arbiter populiJ lapis. Sulle rappresentazioni poetiche delle antiche frequentazioni fra uomini e
dèi nell'Età dell'oro, cfr. Feeney (1998, pp. ISO ss.).
46. Ovidio, A mores III, 8, 41-42: Nec valido quisquam terram scindebat aratro, l signabat nullo
limite memor humum. Ovidio descriva ancora l'Età dell'oro in Metamorphoseon libri l, 89-112, ma
senza far riferimento questa volta all'assenza del segno di confine.
47.].-J. Rousseau, Dùcournur l'origine desfondements de l'inégalitéparmi /es homes, I7SS. Partie Il.
34
1. UN «DIO OGGETTO>>
Probabilmente Tibullo, Ovidio e Seneca avrebbero sottoscritto queste parole. È
evidente, dunque, che il segno di confine, il terminus, non ha sempre goduto di una
buona reputazione. Esso appartiene al regno di Giove, all'aetas dell'ordine, della
divisione, delle disuguaglianze, e in quanto tale non può che essere assunto a sim-
bolo di progresso, o di civilizzazione. Ma proprio per questo motivo, almeno nel
pensiero dei poeti che rievocano con nostalgia il ricordo di una lontana e ormai
perduta condizione edenica primordiale, il suo statuto, come quello di ogni altra
invenzione umana, risulta essere quanto meno ambiguo.
Non dimentichiamo però che il mito dell'Età dell'oro ha, per dirla con Jan
Assmann (1992, p. 51), una funzione "contrappresentistica": evoca cioè un "prima"
migliore, l'Età dell'oro appunto, che, contrapposto all'"ora",l'età contemporanea
in cui scrive l'autore, ha lo scopo di rilevare ciò di cui il presente è manchevole, di
rendere consapevole la frattura qualitativa tra i due tempi, quello favoloso rievoca-
to dal mito e quello reale e contestuale di chi racconta. Ben diversa è l'idea del se-
gno di confine che affiora in testi di tutt'altra natura, meno ideologizzati e svinco-
lati dalla preoccupazione di opporre ad un presente degradato un passato mitico
fortemente idealizzato.
35
2
Il culto
2.1
I Terminalia
Nei Fasti Ovidio dedica ben 46 versi all'elogio del dio Terminus. L'occasione è la
descrizione dei Terminalia, la festa in suo onore, celebrata dai Romani il2.3 febbra-
io. Dal momento che il brano in questione è centrale ai fini del nostro discorso,
sarà bene riportarlo per intero:
Quando è trascorsa la notte, si celebra con il consueto onore
il dio che con il proprio segno delimita i campi [separai indicioqui deus arva suo].
O Terminus, sia che tu sia una pietra, oppure un legno piantato nel campo,
sin dai tempi antichi tu hai un numen.
Due proprietari provenienti da parti opposte ti coronano
e ti portano due ghirlande e due focacce.
Si erige un altare: qui la rozza contadina porta in un piccolo vaso del fuoco
che lei stessa ha preso dalle tiepide braci.
Un vecchio spacca i legni e li accatasta spezzati con arte
e combatte per piantare i rami nella solida terra;
allora suscita con la secca corteccia le prime scintille;
un ragazzo sta a guardare e tiene fra le mani un grande cesto.
Quindi, dopo che ha gettato per tre volte grani nel fuoco,
una bambina vi getta piccole fave a pezzetti.
Altri tengono il vino: una parte di ciascuna offerta è libata nelle fiamme.
La gente vestita di bianco osserva e tace.
Il terminus comune viene cosparso del sangue di un agnello sacrificale,
né si lamenta se gli si offre una scrofa da latte.
Il vicinato si riunisce e frugale celebra il banchetto
e cantano le tue lodi, santo Terminus:
«Tu sei confine per i popoli, le città e i grandi regni;
senza di te ogni campo sarebbe conteso.
Nessun tipo di corruzione può agire su di te, né sei piegaro dall'oro,
conservi i terreni a te affidati con la fedeltà che deriva dal diritto.
Se tu avessi marcato un tempo i confini del paese di Tire,
l.. IL CULTO
trecento corpi non sarebbero stati inviati alla morte
e il nome di Otriade non starebbe su un trofeo di armi».
O quanto sangue questo guerriero ha donato alla patria!
E cosa accadde quando fu costruito il nuovo Campidoglio?
Tutta la folla di divinità cedette e lasciò il posto a Giove;
Terminus, come ricordano gli antichi, trovato nel luogo,
vi rimase [restitit] e dimora insieme con il grande Giove nel tempio.
Anche oggi, perché non veda al di sopra di sé nient'altro che le stelle,
il tetto del tempio conserva un piccolo foro.
O Terminus, da quel giorno non hai più la libertà di muoverti:
rimani di guardia, lì dove sei stato posto.
Al vìcino che ti chiede non cedere nulla,
affinché tu non sembri aver anteposto un uomo a Giove.
E se ti capita di essere colpito da un vomere o da un rastrello,
proclama: «Questo campo è tuo e quest'altro è tuo!».
C 'è una strada che porta il popolo ai campi Laurenti,
regno inseguito un tempo dal condottiero dardanio.
Su quella via, la sesta pietra a partire dalla città,
ti vede offrire in sacrificio una pecora lanosa.
A tutte le altre genti è stata concessa una terra con limiti;
per quella romana lo spazio della città e quello del mondo coincidono'.
Come altre festività romane, i Tenninalia, dunque, prevedevano un doppio binario
cerimoniale: uno pubblico, di cui sappiamo molto poco, e uno privato, sul quale
1. Ovidio, Fasti II, 639-684: Nox ubi transierit, solito celebretur honore l separat indicio qui deus
arva suo. l Termine, sive lapis sive es defossus in agro l stipes, ab antiquis tu quoque numen habes. l Te
duo diversa domini de parte coronant, l binaque serta tibi binaque libaJèrunt. l Ara fit: huc ignem
mrtoJert rustica testo l sumptum de tepidis ipsa colonaJocis. l Ligna senex minuit concisaque construit
arte, l et solida ramos figere pugnat humo; l tum sicco primas inritat corticejlammas; l stat puer et
manibus lata canistra tenet. lInde ubi ter.fruges medios immisit in ignes, l porrigit incisosfilia parva
jàvos. l Vina tenent a/ii: libantur singulajlammis; l spectant, et linguis candida turbaJavet. l Spargitur
et caesocommunis Terminus agno, l necqueriturlactans cum sibiporca datur. l Conveniunt celebrantque
dapes vicinia simplexl et cantant laudes, Termine sancte, tuas: l «tu populos urbesque et regna ingentia
jìnis: l omnis erit sine te litigiosus ager. l Nulla tibi ambitio est, nullo corrumperis auro, l legitima servas
eredita rurafide. l Si tu signasses olim Thyreatida terram, l corpora non feto missa trecentaJorent, l nec
Jòret Othryades congestis lectus in armis». l O quantum patriae sanguinis il/e dedit! l Quid, nova cum
jìerent Capitolia?Nempe deorum l cuncta lovi cessit turba locumque dedit;l Terminus, ut veteres memo-
rant, inventus in aede l restitit et magno cum love tempia tenet. l Nunc quoque, se supra ne quid nisi si-
dera cernat, l exiguum templi tectaJoramen habent. l Termine, post illudlevitas tibi libera non est: l qua
positusJueris in statione, mane; l nec tu vicino quicquam concede roganti, l ne videare hominem praepo-
suisse lovi. l Et seu vomeribus seu tu pulsabere rastris, l e/amato «tuus est hic ager, il/e tuus». l Est via
quae populum Laurentes ducit in agros l quondam Dardanio regna petita duci: l il/a lanigeri pecoris
tibi, Termine, fibris l sacra videtfieri sextus ab Urbe lapis. l Gentibus est aliis tellus data limite certo: l
Romanaespatium est Urbis et orbis idem. Per un commento puntuale al testo, si veda Frazer (192.9, pp.
481-99), e più recentemente Troucier (2.009, pp. 6o8-13).
37
LA LOGICA DEL CONFINE
Ovidio offre maggiori dettagli•. Per quel che riguarda la sfera privata sono i pro-
prietari dei terreni confinanti, assistiti dalle rispettive famiglie, ad agire direttamen-
te sul terminus communis. Non tutti i termini, infatti, erano oggetto di culto, ma
solo i termini sacrifica/es che sorgevano lungo iperimetri delle proprietà, o anche al
loro interno, e sui quali, come su degli altari, veniva compiuto il sacrificio3• Questo
terminus viene coronato con due ghirlande, che dobbiamo presumere siano state
confezionate separatemente dai due gruppi familiari, così come pure le due focacce
che gli vengono portate in offerta4 • Poi, dopo che è stato acceso un fuoco sacrifica-
le, la pietra viene cosparsa con il sangue di una scrofa o di un agnello da latte: è il
momento più solenne della celebrazione1. A questo punto i vicini si uniscono (con-
veniunt) per celebrare il banchetto e intonano al dio un canto di lode (cantant
laudes). Quello che colpisce in questo testo, certamente «troppo raffinato e dotto
per essere declamato da un coro di campagnoli» (Barchiesi, 1994, p. 204)6
, è il
fatto che non venga fatta alcuna distinzione tra l'oggetto terminus e il dio Termi-
nus. In realtà Ovidio sembra considerare sia l'immobile saxum del Campidoglio,
sia un qualunque altro segno di confine come manifestazioni, tra loro perfettamen-
te omogenee, della stessa divinità. Mentre infatti i versi 673-674 fanno riferimento
al grande terminus capitolino, che resistendo (restitit!) a Giove si è per così dire
fossilizzato nella sua posizione originaria (Termine, post illud levitas tibi libera non
2.. Sulla celebrazione pubblica che si teneva presso il sesto miglio della Laurentina, si vedano le
osservazioni di Zi6lkowski (2009, pp. 119-2.1). Colonna (1991, p. 2.12.), identifica questo santuario di
Terminus con l'enigmatico <I>~O'TOL di cui parla Strabone, Geographica v, 3, 2., dove ogni anno gli
lEpOf.LV~f.LOVۍ celebravano l'altrettanto misteriosa festa chiamata hf.L~!Xpou[IX (gli Ambravalia?).
3· Frontino, De controversiis agrorum 2., in Gromatici Veteres, p. 43 Lachmann; cfr. in proposito
Piccaluga (1974a, pp. 12.0-1); secondo Woodard (2.oo6, pp. 59-96), il modello cultuale e funzionale
del terminus sarebbe da rintracciare nelloyupa vedico.
4· Si potrebbe forse supporre, anche se ce ne mancano le prove, che questo cippo, come le im-
magini di Giano, avesse due facce: trovandosi all'incrocio di due proprietà e segnalando, dunque,
contemporaneamente la fine dell'una e l'inizio dell'altra, esso si configura, da un punto di vista semi-
otico, come un "segno bifronte", che veicola lo stesso significato da visuali opposte.
s. Sui sacrifici offerti ai termini, Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae n, 74 e Plutarco,
Numa 16 e Quaestiones Romanae 15, parlano di offerte incruente; e così anche gli autori latini: Giove-
nale, Saturae 16, 39; Tibullo, Carmina I, 1, 11-12.; Apuleio, FLorida 1, 1; Minucio Felice, Octavius 3, 1;
Arnobio, Adversus nationes II, 2.4. Offerte cruente sono invece testimoniate oltre che dai Fasti di Ovi-
dio, da Prudenzio, Contra Symmachum n, 1008, e da un passo di Siculo Fiacco, De condicioneagrorum,
in Gromatici Veteres, p. 141 Lachmann, incentrato però sul rituale di fondazione dei termini. Non è il
caso di tornare su questa divergenza, per cui si rinvia a Piccaluga (1974a, soprattutto pp. 17 ss.), la cui
indagine sui segni di confine nella religione romana nasce dal tentativo di risolvere la "contraddizione".
6. Già Frazer (192.9, p. 490): «We are apparently intended to understand che following outburst
ofpsalmody as a hymn to Terminus chanted by a tuneful choir ofcountry bumpkins. Bue ir needs no
Bentley to perceive that che psalmist is Ovid himself. The poet could not attune his sweet notes to
rhe gruffvoices of che groundlings».
l.. IL CULTO
est: l qua positusJueris in statione, mane), il referente dei due versi successivi è inve-
ce un terminus qualsiasi, al quale si chiede di non cedere alle richieste, evidente-
mente disoneste, di un vicino, poiché, sostiene il poeta, sarebbe disdicevole conce-
dere qualcosa ad un uomo, quando non si è concesso nulla neppure a Giove (nec tu
vicino quicquam concede roganti, l ne videare hominem praeposuisse lovi). Evidente-
mente, dal punto di vista del pensiero religioso, i due termini non sono distingui-
bili, e non lo sono neppure rispetto al dio Terminus che infatti si confonde, o si
nasconde, sia nell'uno che nell'altro. Abbiamo ache fare in sostanza con un sistema
di "identità multiple", in cui la divinità coincide con il suo simulacro, il simulacro
con il segno di confine e quest'ultimo con la divinità.
l Terminus dio l
/~
terminus
~,, - - - - - ,
terminus
capitolino
Del resto, i Romani, non distinguendo tra lettere maiuscole e lettere minuscole,
non erano portati a istituire confini troppo rigidi tra parole, concetti ed eventuali
ipostasi divine7• La differenza fra il terminus inteso come oggetto e Terminus inte-
so come divinità è, insomma, il prodotto di una lettura etica della religione romana,
un problema, dunque, sostanzialmente dei moderni. Per Ovidio - e probabilmen-
te per il suo pubblico -l'uno e l'altro erano semplicemente la stessa cosa.
2.2.
Terminus, indice e icona
Del resto, Ovidio afferma chiaramente che qualunque pietra (o legno) utilizzata
come segno di confine possiede un numen (ab antiquis tu quoque numen ha-
7. Feeney (1998, p. 12.8): «Da un punto di vista moderno, il problema degli ascracci sembra ero·
vare una composizione nel fano che i Romani non facevano distinzioni era leccere maiuscole e minu-
scole. Pensare alla differenza era Pax epax non è facile, ma è certamente più agevole che farlo craPAX
e PAX. La chiarezza che si esprime attraverso le moderne regole tipografiche può tuttavia oscurare i
vantaggi collegaci ad una mentalità che non imponeva demarcazioni rigide era parole, qualità e ipo-
scasi e che poteva servirsi utilmente dell'indeterminatezza in uno spirito di improvvisazione>>.
39
LA LOGICA DEL CONFINE
bes)8• Come sanno bene gli storici della religione romana, il significato di questo
termine oscilla a seconda delle epoche e dei contesti in cui viene utilizzato: «vo-
lontà divina», «potenza divina», «divinità». Le teorie animistiche in voga nella
prima metà del secolo scorso si erano spinte, con HerbertJenkins Rose (192.6, pp.
44-5; 1951) e Hendrik Wagenvoort (1947), fino al punto di vedere nel numen dei
Romani un corrispettivo del concetto melanesiano di mana9. Sulla base di questa
presunta equipollenza, secondo i primitivisti della religione romana, Terminus do-
veva essere annoverato fra gli esseri divini più antichi, risalenti ad una età preistori-
ca. Valga per tutti la definizione che ne diedeJames George Frazer (192.9, p. 481)
nel suo commento ai Fasti:
Thus rhe worship ofTerminus was ferishism pure and simple: ir was never elevared by
myrhology imo a higher sphere: rhe god never conrrived, if we may say so, ro exrricare
himselffrom his srone or stock. His rires rhus rouched rhe lowesr leve! in Roman religion:
rhey would nor be our ofpiace in Wesr Africa ar rhe presenr.
In realtà il concetto di numen ha ben poco a che vedere con la nozione di mana
(ammesso che si possa dare di mana una definizione univoca e precisa)'0
• Per quel
che riguarda poi il nostro caso specifico, sarà opportuno osservare che il numen di
cui parla Ovidio sembra albergare in qualunque cosa, lapis o stipes, che sia chiama-
ta a svolgere la funzione di un terminus. È, dunque, la funzione dell'oggetto, non
l'oggetto in sé, a determinare la presenza del numen". Una volta attivato attraverso
il dispositivo rituale, infatti, il segno di confine agisce come un rappresentante di
Terminus, diventa una sua estensione, un suo indicium (Fasti n, 840). Il termine
utilizzato qui da Ovidio è molto interessante e vale la pena esaminarlo nel dettaglio.
L'indicium è una sorta di "traccia", un segno che conserva e, dunque, rivela qua/co-
8. Ovidio, Fasti II, 642..
9· Sulla nozione di mana nella religione romana arcaica, cfr. le osservazioni critiche di Boyancé
(1948) e Dumézil (1974, pp. 33·44). Quale che sia la sua accezione originaria è molto probabile che il
termine numen abbia significato «presenza divina» soltanto nella letteratura tarda; si veda in pro-
posito Beard, North, Price (1998, vol. II, pp. 3-4).
10. Sulla vaghezza del concetto di mana e i relativi problemi interpretativi a partire dalla "sco-
perta" di Codrington, Pignato (2.001, pp. 59-62.).
l!. Un terminus non necessariamente deve essere una pietra; puo trattarsi anche di un pezzo di
legno, di un semplice stipes dejòssus in agro; cfr. Ovidio, Fasti II, 641-642.: Termine, sive lapis sive es
dejòssus in agro l stipes, ab antiquis tu quoque numen habes; Lattanzio, Divinae institutiones l, 2.0, 41:
et huic ergo pubblice supplicatur quasi custodifinium deo, qui non tantum lapis, sed etiam stipes inter-
dum est; Igino, Degeneribus controversiarum, in Gromatici Veteres, pp. 12.6-7 Lachmann, precisa che
il materiale può essere estremamente vario: qua/es sint termini, considerandum est. Solent plerique la-
pidei esse: at vide equo lapide, quoniam quique consuetudinesjere per regiones suas habet. A/ii ponunt
siliceos, alii Tiburtinos, a/ii enchorios, alii peregrinos, alii autem politos et scribtos, alii aut robureos aut
ex certa materia ligneos, quidam etiam hos quos sacrifica/es vocant.
l.. IL CULTO
sa dell'oggetto che lo ha prodotto. Se dovessimo collocarlo all'interno della tasso-
nomia dei segni elaborata dal padre della semiotica, Charles Sanders Peirce (1903,
pp. 291-2), diremmo che la nozione di indicium corrisponde, non soltanto da un
punto di vista linguistico, a quella di "indice". «An Index», scrive Peirce, « is asign
which refers to the Object that it denotes by virtue ofbeing really affected by the
object [...].In so far as the Index is affected by the Object, it necessarily has some
Quality in common with the Object, and it is in respect to these that it refers to
rhe Object». In altre parole, ciò che distingue gli "indici" dalle altre tipologie di
segno ("simboli" e "icone") è il fatto di essere in un rapporto di contiguità naturale
con il loro oggetto, ragione per cui gli "indici" funzionano come spie, manifesta-
zioni dell'oggetto denotato: il sintomo ad esempio è"indice" della malattia, il fumo
è "indice" del fatto che qualcosa sta bruciando, il movimento della banderuola è
"indice" della direzione del vento, e così via.
Nel caso del terminus la questione però è più complessa. Il cippo di confine,
infatti, non è realmente un prodotto o un effetto di Terminus, ma viene pensato
come se lo fosse. La sua natura di oggetto culturale viene costantemente rimossa, o
per meglio dire camuffata dalla sua iconicità, dal suo essere costruito ad immagine
e somiglianza della divinità. Ancor prima di essere un "indice", il terminus è, infat-
ti, un'"icona", una immagine che riproduce alcune caratteristiche dell'oggetto
rappresentato, nel nostro caso l'effige del dio. Pertanto, un terminus è sempre an-
che un ritratto, appunto un'"icona" di Terminus, una sua rappresentazione in
miniatura. Vi èpoi l'idea, diffusa in molte culture e alla base di numerosi racconti,
che una immagine possa in qualche modo riprodurre anche alcune qualità intrin-
seche dell'oggetto raffigurato, che la similarità comporti la contiguità tra la copia
e il modello (Bettini, 1992). Come dice la Laodamia di Ovidio, «una immagine è
più di quello che sembra» n. Ci sono persino immagini che non si limitano a rim-
piazzare il proprio referente assente, ma riescono, in virtù dell'uso che se ne fa, del
modo in cui ci si comporta nei loro confronti, a sostituirsi compiutamente a lui:
Non basta dire che le immagini stanno a "rappresentare" qualcosa, con le immagini "si fa"
anche qualche cosa: l'essere rappresentazioni di oggetti fuori di loro non impedisce alle
immagini di diventare, a loro volta, oggetto (o anche soggetto) di intenzioni o pratiche che
le coinvolgono. Questo vale tanto per la persona che tiene in tasca la fotografia di qualcuno
e non sa distaccarsene quanto per il denso apparato simbolico che accompagna il racconto
di Admeto e del simulacro nell'Alcesti di Euripide (ivi, p. 6o).
In altre parole, la pragmatica culturale è in grado di trasformare ciò che nasce come
rappresentazione dell'oggetto nell'oggetto stesso della rappresentazione, ma per-
n. Ovidio, Heroides 13, 153: crede mihi, plus est, quam quod videatur, imago.
LA LOGICA DEL CONFINE
ché questo avvenga è necessario innanzitutto che l'immagine sia "icona" dell'ogget-
to rappresentato. Un alto grado di iconicità (si pensi ad un certo tipo di ritratti o,
come suggeriva lo stesso Peirce, alle fotografie) genera naturalmente l'idea di un
contatto, di una relazione fisica, organica fra il segno e il suo referente. In questo
senso possiamo dire che alcune "icone" possiedono una "capacità indicale", la quale
fa sì che esse possano diventare a tutti gli effetti "indici" della cosa rappresentata e
aspirare, se così possiamo dire, ad assumerne l'identità.
Tornando a noi, il terminus può essere pensato come un "indice", una proiezione
di Terminus, innanzitutto perché è una "icona" di Terminus; una "icona" evidente-
mente molto potente, che non si limita a riprodurre la forma del suo referente divino,
ma ne ha in qualche modo ereditato anche il carattere, la personalità, la forza. Ma
perché questa "icona" è così speciale in confronto alla altre? Cosa è che la rende così
diversa rispetto ad una comune statua della divinità? Crediamo che la risposta sia da
ricercare ancora una volta nella pragmatica culturale, nell'uso che si fa del terminus e
nell'insieme delle relazioni che lo vedono coinvolto. Qui abbiamo infatti ache fare con
un'immagine che, oltre a rappresentare qualcosa, fa anche qualcosa di molto concreto,
o meglio viene impiegata per fare qualcosa di molto concreto, vale a dire il confine. Si
tratta, dunque, di una "icona" che possiede un alto valore performativo. Se la funzione
di una statua cultuale è quella di rappresentare la divinità che vi è stata effigiata, nel
terminus rappresentazione e funzione coincidono. Ancor meglio diremo che il fermi-
nus rappresenta esattamente la sua funzione. Ecco dove risiede il numen di cui parla
Ovidio, non nell'oggetto - nel qual caso ricadremmo in una lettura animistica della
religione romana - ma nella capacità dell'oggetto di "presentifìcare" Terminus attra-
verso la sua performatività. Quel che intende dire il poeta è che qualunque tronco o
pietra che sia stato chiamato asvolgere la funzione di segno di confine è, in quanto tale,
una manifestazione del dio Terminus, un'espressione della sua potenza (numen ). Non
dobbiamo dimenticare che gli dèi degli antichi non sono delle "persone", con una iden-
tità precisa, quanto piuttosto delle "potenze" capaci di manifestarsi in una pluralità di
forme e sotto una pluralità di segni, e che tuttavia non si identificano mai completa-
mente con nessuna delle loro manifestazioni panicolari (Vernant, 196sb, pp. 369-72)'l.
2.3
Confini e passaggi
I termini non sono, pertanto, delle mere copie morfologiche di Terminus'4• In
quanto "indici" e al tempo stesso "icone" della divinità essi sono destinati a ripro-
13· Sul "linguaggio" del politeismo greco si veda l'ottima sintesi di Gabriella Pironti (201 1).
14. Come il dispositivo Legba-Fa-Kpoli, studiato da Augé (1988, p. 134).
2.. IL CULTO
durne anche il comportamento. Come Terminus, o per meglio dire il suo simula-
cro, era rimasto immobile, e dunque impassibile, di fronte all'avvento di Giove,
così anche i singoli termini sarebbero dovuti rimanere fermi alloro posto e vegliare
sul rispetto dei confini a loro assegnati. I Romani non solo credevano che l'immo-
bilitas di Terminus si trasmettesse automaticamente ai suoi indicia, ma anche che
essa fosse a sua volta segno di fermezza morale, imparzialità, e senso di giustizia.
Èquesto, per altro, come già detto, un carattere fisiologico che il terminus espri-
me direttamente attraverso la propria materialità. Una pietra o un pezzo di legno
non possono per loro natura essere sensibili all'aurum, né all'ambitio, come lo sono
invece gli esseri umani, dotati di sentimenti, passioni e desideri. La pietra in partico-
lare rappresenta il massimo di inflessibilità che si possa trovare in natura, è l'inerte
per eccellenza, èpura inorganicità'1; ma èproprio questa sua estrema alterità rispetto
all'umano a farne il garante ideale dellafides tra i confinanti'6
• Chi, o cosa meglio di
una pietra ruvida e inespressiva, imparziale persino nella sostanza, avrebbe potuto
assicurare il diritto e il rispetto delle regole nelle relazioni tra i vicini? Come ha mo-
strato Maurizio Bettini (1992, p. 161), tra i poteri che hanno le immagini, e in parti-
colare le statue, vi è quello di far rispettare le leggi. L'inorganico milita dalla parte
della giustizia: «Dove la giustizia umana non arriva - perché ignora, perché inade-
guata o corrotta - una superiore giustizia si desta in ciò che è rigido e inanimato».
Ma cosa ci si aspettava concretamente da un terminus? Come esercitava il suo
mestiere di arbitro? In che modo esso riusciva a garantire il diritto e la lealtà tra i
vicini? Saremmo sorpresi a questo punto di scoprire che da un punto di vista eti-
mologico terminus sembra rimandare ad un'idea molto lontana da quella di immo-
bilità. Esso deriva, infatti, come i suoi corrispondenti greci térmon e térma, dalla
radice indoeuropea •ter- che rimanda all'area semantica dell'attraversamento,
15. Estremamente interessanti su questo punto le riflessioni di Augé (1988, pp. 2.7 ss.), riguardan-
ti però le divinità feticce africane; cfr. ad esempio p. 2.8: «Ciò che fa problema è l'inerte, la materia
bruca. Fa problema e oppone resistenza. Di qui le collere infantili (agli inizi l'organico non opponeva
resistenza) e le metafore abituali ("volontà di ferro", "cuore di pietra", "restare di ghiaccio"). L'impen-
sabile, e in un certo modo, la potenza sono dalla parte dell'inerzia bruta, della pura materialità. Il
naturale è dunque la vita, e quesw lascia pensare che il soprannaturale sia dalla parte dell'inerte. Da
questo punto di vista sono molto importanti le rappresentazioni dei "feticci" africani, tutte vicine
alla materia bruta. Il loro antropomorfismo è appena abbozzato, come un'allusione alla necessità di
comprendere qualcosa e, simultaneamente, all'impossibilità di riuscirei: come se si trattasse di anima·
re "al punto giusw" per comprendere l'inanimaw,l'inflessibile, l'inesorabile, il già là. È proprio la
materia bruta ad essere difficilmente pensabile». Sulla percezione e le rappresentazioni dei minerali
nel mondo antico, cfr. il bel libro di Sonia Macrì (2.009).
16. Ovidio, Fasti Il, 661-662.. Il concetw difides, come si sa, è uno dei cardini portanti del pen-
siero religioso-politico romano. Ed è particolarmente interessante il fatto che Terminus e Fides com-
paiano insieme in un paragrafo di una vita plutarchea, su cui wrneremo fra breve, come culti coevi e
ideologicamente connessi.
43
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De Sanctis, Gianluca.- La logica del confine. Per un’antropologia dello spazio nel mondo romano [ocr] [2015].pdf

  • 1.
  • 3. I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele n, 22.9 oo186 Roma telefono o6 42. 81 84 17 fax o6 42. 74 79 31 Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/caroccieditore www.twitter.com/caroccieditore
  • 4. Gianluca De Sanctis La logica del confine Per un'antropologia dello spazio nel mondo romano Carocci editore
  • 5. Il presente volume è pubblicato con il contributo economico dell'unità di Roma del progetto FIRB Spazisacri epercorsiidentitari. Testi difondazione, iconografia, culto etradizioni neisantuari cristiani italianifra Tarda antichita eMedioevo (coordinatore nazionale Laura Carnevale). 1" edizione, marzo 2.015 ©copyright 2.015 by Carocci editore S.p.A., Roma Impaginazione e servizi editoriali: Pagina soc. coop., Bari Finito di stampare nel marzo 2.015 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.
  • 6. Indice Introduzione Il Parte prima Terminus I. Un «dio oggetto» 19 I. l. Turno, la Dira e il macigno 19 1.2.. Immobile saxum 2.7 1.3. Tra Saturno e Giove 31 2.. Il culto 36 2..1. I Tenninalia 36 2..2.. Terminus, indice e icona 39 2..3. Confini e passaggi 42. 2..4. Requisiti di un tenninus 46 2..5. Il sacrificio come processo di animazione 49 3· Attraversamenti e divinità della soglia 52. 3-1. Soglie 52. 3-2.. Terminus e Marte 56 3-3· Dèi custodi della cultura 58 4· Antropologia del confine 6o 4.1. Breve excursus arandologico 6o 4-2.. Firma stabiliaque cuncta 63 4·3· Confini e giuramenti 65 4+ Terminus e Giove 72. s
  • 7. INDICE S· Qui terminum exarasset... 76 s.I. Saceresto 76 s.2. Terminus e Fides 8! 5·3· A proposito del confine tra religione e politica a Roma 83 S+ La profezia vegoica e la morte di Turno 87 Parte seconda Delimitare e punire 6. Storia di un delitto e delle sue interpretazioni 93 6.1. Gli acerbafata del popolo romano 93 6.2. Il bello dei miti: interpretazioni di interpretazioni 97 6+ Ricostruzioni moderne 99 6.4. L'ipotesi Wiseman 105 7· Un sacrificio di fondazione alle origini della città? 109 ?.I. Il "sacrificio di fondazione" nella letteratura etnografica 109 7.2. Talismani e reliquie 112 7·3· I "sacrifici di fondazione" nel mondo antico 115 7+ Il mito come "mascheramento"? 119 8. La posta in gioco 121 S.I. Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea 121 8.2. La contesa augurale e la scelta del luogo 123 8.3. L'inauguratio e la delimitazione del pomerium 132 8+ La natura del sulcusprimigenius e il "primo comandamento" della città romulea 135 s.s. Una morte necessaria 140 8.6. Da interdizione religiosa a norma giuridica 144 8.7. Sancire morte o abrogare impunitate 149 9· Ipotesi sulla natura S<tcrale del sulcusprimigenius 153 9·1. I termini invisibili. Remo homo sacer? 153 9.2. Sanctus = inaugurttflts? 157 6
  • 8. INDICE 9·3· Sanctitas delle mura e ius delle porte IS9 9·4· Il potere del cerchio I6I Conclusioni. Il confine al centro r6s Riferimenti bibliografici 169 Indice dei nomi 203 7
  • 9. AVVERTENZA Nei rimandi abbreviati ai Riforimenti bibliografici, accanto al nome dell'autore si fornisce la data della prima pubblicazione dell'opera citata; i numeri di pagina si riferiscono invece all'edizione (o alla traduzione) effettivamente utilizzata, di cui si dà conto estesamente nei Riforimenti bibliografici in fondo al volume.
  • 11.
  • 12. Introduzione L'oggetto della Storia è l'uomo. Diciamo meglio: sono gli uomini che la Storia vuoi cogliere. Chi non vi riesce non sarà mai altro, nel migliore dei casi, che un manovale dell'erudi- zione. Il buon storico, lui, somiglia all'orco della fiaba. Là dove fiuta la carne umana, là sa che è la sua preda. Mare Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino 1998, p. 2.3 Anche ad un lettore inesperto il finale dell'Eneide appare, se non enigmatico, quantomeno inaspettato. Di fatto il duello conclusivo tra i due eroi a lungo prepa- rato nel corso del poema non ha luogo. Quando Turno si accorge che gli dèi hanno ormai deciso il suo destino, smette di fuggire, ma invece di affrontare Enea con la spada decide, sulla scorta di quanto fanno spesso gli eroi di O mero, di scagliargli contro un grosso masso. A questo punto accade qualcosa di strano e il racconto devia inaspettatamente rispetto alla traccia america, perché Turno, non appena solleva la grande pietra, è colto da una improvvisa, e inspiegabile, astenia che lo rende incapace, prima, di sostenere fisicamente il peso del masso, e dunque di cen- trare il bersaglio, poi, di reagire al successivo attacco di Enea. Ma perché mai Virgi- lio avrebbe deciso di concludere il poema in questo modo? Perché non concedere a Turno la possibilità di battersi alla pari con Enea, e parallelamente ad Enea la gloria che gli sarebbe derivata dall'aver sconfitto, dopo un "regolare" duello, un rivale degno di lui? Il termine "regolare" risulta quanto mai opportuno, perché il confronto descrittoci da Virgilio sembra in un certo senso alterato da un interven- to esterno. L'impressione, infatti, è che l'improvvisa debolezza fisica e mentale di Turno non sia riconducibile a ragioni di carattere esclusivamente psicologico (la consapevolezza della sconfitta, la paura della morte ecc.). Di qualunque cosa si tratti, questa forza misteriosa nel giro di pochi istanti spoglia il re dei Rutuli della sua energia vitale, restituendolo ad Enea goffo e impacciato. Vi è, insomma, come una strana escrescenza nel tessuto testuale che oscura la logica del racconto, ren- dendola non immediatamente decifrabile. L'idea di questo studio prende le mosse da qui, da questa scena virgiliana, nella convinzione che il grande masso divelto da Turno non sia un semplice elemento di scena, ma un terminus, ossia un oggetto fortemente marcato dal punto di vista religioso, la cui manomissione, come vedre- mo, immette il responsabile direttamente nella dimensione del «sacro». La seconda parte di questo lavoro prende invece in esame il mito di fondazione ed in particolare l'episodio della morte di Remo, ucciso, o fatto uccidere dal fratel- lo, lungo il confine del nuovo abitato. I moderni hanno spesso attribuito a questo Il
  • 13. LA LOGICA DEL CONFINE racconto un significato allegorico: l'uccisione di Remo significa l'esclusione dalla città appena fondata di tutto ciò che si pone al di fuori di essa, vale a dire di ciò che si caratterizza come selvaggio, scomposto, proibito. Il valore simbolico del «solco primigenio» che separa il vecchio mondo da cui provengono i gemelli, il mondo della natura, delle selve e dei boschi, dal nuovo mondo della città e delle leggi che sta per venire, è fuori discussione. Ciò non esclude però che i Romani potessero trovare nel fratricidio delle ragioni meno astratte e più concrete, ragioni di ordine politico, giuridico e religioso; ragioni che appariranno del tutto evidenti qualora si intrecci il racconto del mito con quello del rito di fondazione. Queste due storie hanno a che fare, seppure in diverso modo, con la nozione di «confine». Seguendo i fili che da esse si dipartono, fili che attraversano e legano tra loro alcuni nodi fondamentali della cultura romana, quali il rapporto con gli dèi, la costruzione dello spazio, il valore performativo dell'immagine, la nascita della legge, le regole del potere, sarà possibile cogliere nella loro complessità non solo il significato di questi racconti, ma anche, ci auguriamo, le ragioni antropolo- giche di quella sorta di "ossessione" per i confini che così potentemente anima la mentalità romana. La complessità del tema e la natura della documentazione ci hanno spinto a seguire la strategia del cosiddetto "giro più lungo", indicata in antropologia cultu- rale da Clyde Kluckhohn (I949) alla fine degli anni Quaranta, ossia una ricerca a largo raggio, fatta di digressioni e sconfinamenti, «strani costumi, cocci e crani». «Chiedersi se valga la pena il giro più lungo in campo antropologico», scrive Fran- cesco Remotti (I990,p. 18), apropositodell'approccio metodologico diKluckhohn, «è un po' come chiedersi se valesse la pena il giro intorno al mondo di Charles Darwin sul brigantino Beagle». La sfida, per l'antropologia come per la biologia, è quella di trasformare un mucchio di ri- masugli o di spazzatura in un insieme di relazioni, in un contesto formato da connessioni significative, le quali possono, anzi dovrebbero avere la forza di integrare almeno in parte i nessi dell'ordine di partenza, con lo scopo di dar luogo ad un ordine più ricco e significati- vo. Il giro più lungo contiene dunque, implicito, un elogio del disordine, della marginalità, della residualità (come, del resto, un po' tutte le culture umane riconoscono); contiene tuttavia anche una scommessa sulla possibilità di proporre connessioni più rilevanti, evitan- do di naufragare nella spazzatura, anzi trasformando le semplici anomalie e stranezze in un assetto di differenze in qualche modo ordinate: si attinge al disordine per ottenere un ordi- ne più significativo (ivi, p. 22). Il "giro più lungo': dunque, parte dal riconoscimento di una differenza, o meglio, da un sentimento di stupore nei confronti di ciò che è "diverso': e che, in quanto tale, stimola la ricerca di un senso. Le "stranezze" degli altri, insomma, suscitando 12
  • 14. INTRODUZIONE in noi il sentimento della dijfèrenza, ci inducono inevitabilmente sulla strada della comparazione: «Perché loro fanno così?», «Perché noi non lo facciamo?». Per rispondere a questo genere di domande sarà necessario, almeno temporaneamente, disattivare le nostre categorie interpretative, mettere in dubbio il valore delle nostre convinzioni, insomma sospendere, anche solo per un momento, la fede nella nostra cultura. Solo in questo modo, attraverso la neutralizzazione del sé, sarà possibile tentare di comprendere veramente l'altro. Certo, si tratta di un'operazione complessa, che richiede abilità ed energie par- ticolari, in primo luogo una certa capacità empatica. In effetti è molto più facile avvertire il diverso senza !asciarsene toccare, piuttosto che sentir/o e cominciare a rifletterei sopra. Questo vale anche per le persone di una certa cultura. È interes- sante in proposito quanto racconta Pasca! Boyer (woi, p. 34I) a proposito di una sua «esperienza» fatta durante una cena all'Università di Cambridge: mentre egli raccontava agli altri convitati di alcune credenze in uso pressi i Fang, un autorevole teologo cattolico si rivolse a lui dicendo: «This is what makes anthropology so fascinating and so difficult too. You bave to explain how people can believe in such nonsense» 1 • Tuttavia, sostenere che una certa credenza sia priva di senso non risol- ve alcun problema: non spiega, né elimina gli effetti sociali, psicologici e persino politici che essa è in grado di produrre. Il fatto è che le credenze religiose sono eventi sociali «pubblici come il matrimonio ed osservabili come l'agricoltura» (Geertz, I973• p. u6). Il compito dell'antropologia non consiste nello spiegare le «sciocchezze» degli altri, quanto nello scoprire il senso che tali presunte «scioc- chezze» hanno nel loro sistema di riferimento. L'idea che Kluckhohn (I949· pp. u-26) intendeva sostenere è che il significato più autentico di una data cultura si nasconde proprio negli usi, nei costumi e nelle credenze che ai nostri occhi risulta- no essere più esotici e bizzarri; una impostazione, questa, che ribalta la prospettiva seguita da Frazer e da gran parte dell'antropologia comparativista del Novecento: se si vogliono davvero comprendere gli altri, non si deve andare a caccia delle somi- glianze, delle convergenze, dei punti in comune, quanto piuttosto degli scarti, del- le anomalie, delle dissonanze>. 1. Non per niente, secondo Kluckhohn (1949, p. 33): «la dimostrazione antropologica che i più strani insiemi di costumi hanno una coerenza e un ordine è paragonabile alla dimostrazione della psi- chiatria moderna che c'è un significato e un senso nel discorso apparentemente incoerente dd pazzo». 2. L'impostazione metodologica di Kluckhohn è stata recentemente ripresa da Bettini (2009b) per quel che riguarda lo studio della cultura romana: si veda ora dello stesso autore Elogio delpolitei- smo, sul confronto tra politeismi e monoteismi (Bettini, 2014), e l'Introduzione, scritta insieme a William Short, al volume Con i Romani. Un'antropologia della cultura antica (Bettini, Short, 2014, pp. 13-19). Secondo Detienne (2000) la comparazione è tanto più illuminante quanto più è condotta tra dementi «incomparabili>>. I3
  • 15. LA LOGICA DEL CONFINE Vi è, tuttavia, anche un altro vantaggio nel "giro più lungo": «Quando qualche cosa è decisamente classificata come anomala», scrive Mary Douglas (1967, p. So) «si chiariscono i limiti della categoria che non la comprende». Per illustrare que- sto concetto l'antropologa britannica ricorreva ad un bella citazione di Jean-Paul Sartre sulla vischiositàl che può servirei da metafora: La vischiosità, egli dice [Sartre], di per se stessa è repellente come esperienza primaria. Un bambino che immerge le mani in un vaso di miele ne viene immediatamente indotto a meditare sulle priorità formali dei solidi e dei liquidi e sulla relazione essenziale esistente tra il proprio io che sperimenta soggettivamente il mondo e il mondo sperimentato. Lo stato viscoso si trova a metà tra il solido e il liquido; è la sezione nel punto di passaggio tra i due: è instabile, ma non scorre; è soffice, cedevole e comprimibile. La sua superficie non è scivolosa. La sua appiccicosità è una trappola, si attacca come una sanguisuga, attacca i confini tra me e lui. Lunghe colonne si staccano dalle mie dita creando l'illusione che la mia materia coli nel lago vischioso. Immergersi nell'acqua dà un'impressione del tutto differen- te: io resto un solido; ma toccare l'attaccaticcio è come rischiare di venire diluiti nel mezzo viscoso [...]. In questo modo il primo contatto con la viscosità arricchisce l'esperienza del bambino. Egli ha appreso qualcosa su se stesso e sulle proprietà della materia ed ha capito l'interrelazione tra se stesso e le cose (ivi, pp. 8o-1). Imbattersi in qualcosa di diverso, che non rientri immediatamente nei nostri sche- mi di classificazione, può essere, dunque, un'esperienza estremamente preziosa. Il confronto con l'alterità non ci offre soltanto l'occasione per imparare qualcosa sugli altri, ma anche, e forse soprattutto, qualcosa su noi stessi. Come avvertiva lo stesso Kluckhohn (1949, p. 21, corsivo nostro), «chi si occupa delle scienze umane ha bisogno di sapere altrettanto dell'occhio che vede tanto quanto dell'oggetto veduto. L 'antropologiaporgeall'uomo ungrandespecchio cheglipermettedi osservar- si nella sua molteplice varieta». In questo senso il confronto con il mondo antico si rivela tutt'altro che sterile per la cultura moderna. Crediamo anzi, sulla scorta di quanto già detto da Mauri- zio Bettini (wooa, pp. IX-XIII) e Marcel Detienne (wos, pp. 20-2 e 140-2), che esso possa costituire per noi moderni un inesauribile giacimento di differenze, di ipotesi alternative, di modelli con cui misurarsi. Pur essendo per tanti aspetti mol- to simili a noi, i Romani hanno spesso pensato e fatto le cose diflèrentemente da come le pensiamo e facciamo noi; ma è esattamente questo il motivo per cui pos- sono insegnarci ancora qualcosa: mostrandoci, attraverso le loro stranezze o biz- zarrie, altri mondi possibili, altre possibili forme di umanità, ci aiutano in qualche modo a «relativizzare» la nostra, a comprenderne i limiti, a ricordare che essa non 3· La citazione di Sartre è tratta da L 'étre et le néant. 14
  • 16. INTRODUZIONE è né l'unica, né la migliore, ma più semplicemente quella che abbiamo scelto di «costruire» 4. Naturalmente quel quid di alterità che ogni cultura lascia emergere attraverso le maglie della comparazione ha bisogno, per essere compreso, del suo contesto; esso va cioè indagato utilizzando in massimo grado i concetti forniti dagli "abitan- ti" di quella cultura. Questo tipo di atteggiamento apre la strada ad un livello di analisi emico. Il termine "emico" e il suo contrario, "etico", sono impiegati in an- tropologia culturale per designare due diversi approcci allo studio dei fatti sociali: mentre l'analisi emica si propone di definire gli oggetti della sua indagine utiliz- zando in massimo grado le nozioni proprie del sistema culturale analizzato, riflet- tendo dunque la «percezione nativa» di ciò che viene descritto, l'analisi etica, facendo uso di categorie interpretative estranee alla cultura oggetto dell'osserva- zione e considerate a priori universali, tende invece ad ignorare le discriminazioni antropologiche e, dunque, ad assimilare piuttosto che a distinguere. In altre parole, se la prospettiva emica predica l'empatia, la prospettiva etica, al contrario, presup- pone uno sguardo più distaccato. Anche se, come raccomandava Clifford Geertz (I973, p. 73), entrambi i livelli di analisi sono necessari per una buona interpreta- zione delle culture, è tuttavia l'analisi emica quella che prospetta le scoperte più interessanti. La riflessione etica, infatti, addormenta, se così si può dire, la nostra sensibilità nei confronti delle stranezze altrui, poiché tende ad omologare, ad assi- milare le esperienze degli altri alle proprie - in questo senso essa risulta senza dub- bio «più immediata», ma è anche «più insidiosa» e «più egoista». Al contrario la prospettiva emica, per sua natura più sensibile alle «escrescenze» che l'osserva- tore rileva nell'analisi di un tessuto culturale, si dimostra essere non solo «più al- truista» e «nobile» deli'altra, ma anche «più potente dal punto di vista ermeneu- tico» (Bettini, 2009b, p. 42). Lo scopo, owiamente, non è registrarle o raccoglier- le per farne un'a~tologia di meraviglie, quanto piuttosto, come suggerisce Mauri- zio Bettini (ivi, pp. 28-3I), utilizzarle come delle aphonndi, termine con il quale Filone di Alessandria designava lo «spunto» dal quale deve prendere le mosse l'esegeta per la sua interpretazione del testo biblico. Le stranezze altrui, dunque, stimolando, in ragione della loro dissonanza, la riflessione comparativa, funzio- nando da reagenti, costituiscono i «punti di partenza», appunto le aphonndi, del!'analisi antropologica. Abbiamo cercato, dunque, di indagare i significati che i Romani attribuivano al confine partendo da alcuni elementi testuali che ci sono apparsi dissonanti e hanno per questo costituito le aphonndi del nostro percorso: «Perché Turno perde improwisamente tutte le sue forze?»,« Perché Remo viene 4· Sui modi di «costruire»/ «fare>> umanità, cfr. Remotti (wiJ). IS
  • 17. LA LOGICA DEL CONFINE ucciso, o fatto uccidere, dal fratello per aver saltato lungo il confine della città?», «Che significato attribuivano i Romani a queste storie?». Questo libro sviluppa e porta a termine gli studi da me condotti durante gli anni del dottorato senese. Alcune parti di questo lavoro sono state presentate per la prima volta nel corso dei Seminari del Martedì, promossi dal Centro Antropologia e Mondo antico dell'Università degli Studi di Siena. Non posso, dunque, non co- minciare con il ringraziare gli amici del Centro AMA, dove il progetto è nato e cresciuto. Devo ricordare in particolare Alessandro D'Avenia, per l'amicizia e il confronto sempre stimolante che ha saputo offrirmi, Micol Perfigli e Isabella Ton- do, insieme alle quali ho cominciato a riflettere e a discutere di questi temi durante i mesi trascorsi a Parigi, ospiti del Centre de recherches comparées sur les sociétés anciennes "Louis Gernet" e del Laboratoire d'anthropologie sociale. Desidero esprimere la mia riconoscenza a tutti coloro che, anche solo occasio- nalmente, hanno discusso con me alcune parti di questa ricerca, fornendomi pre- ziosi suggerimenti e opportunità di riflessione, in particolare Alessandro Barchiesi, Paolo Carafa, Luigi Lo Cascio e Carlo Severi. Non potrò mai ringraziare abbastan- za Andrea Giardina e Augusto Fraschetti, troppo presto scomparso, per i loro inse- gnamenti, l'attenzione e la premura con cui mi hanno seguito in questi anni; Ema- nuela Prinzivalli, per la stima e l'interesse che ha sempre mostrato nei miei confron- ti, e l'unità romana del progetto FIRB Spazi sacri epercorsi identitari. Testi difonda- zione, iconografia, culto etradizioni nei santuari cristiani italianifra Tarda antichita eMedioevo, di cui sono membro, che ha reso possibile la pubblicazione di questo libro. Il ringraziamento più grande va però a Maurizio Bettini che ha ispirato, se- guito pazientemente e discusso a lungo con me queste pagine, sostenendomi con la sua competenza ed il suo affetto. Gli eventuali errori restano una mia personale responsabilità. Sono debitore ai miei studenti che, con la loro curiosità, non hanno mai smes- so di stimolare in me il dubbio, spingendomi a vedere le cose, anche le più semplici e scontate, da un nuovo punto di vista. Ringrazio infine Sveva Elti di Rodeano che ha letto e corretto con premura il manoscritto. L'ultimo pensiero va alla mia famiglia, a mio padre e mia madre, per l'amore e la pazienza; a Tessa, senza la quale nulla di quello che faccio avrebbe senso, e ai miei bambini che ogni giorno mi insegnano a guardare il mondo con occhi diversi e migliori.
  • 18. Parte prima Terminus M~ l<:l'IElTW y~ç optct !ll'JOElç !l~TE oiJ<:El01.1 7tOÀtT01.1 ye[Tovoç, ll~TE Ò!lOTÉP!lOVOç f7t' ÉO'XctTtaç l<:El<:Tl']!lÉ'YOç aÀÀ!.Jì ;É'V!.Jì ymovwv, 'YO!llO'ctç TÒ Tctl<:l'll']Tct l<:l'IEl'1 ctÀl']9Wç TOUTO e1vctt· ~01.1ÀÉcr9w Of 7tctç 7tÉTpov É7ttXEtp~O'ctll<:l'IElv TÒV!lÉYlO'TOVaÀÀOVTIÀ~V opov!lctÀÀov ~ O'!lll<:pÒv Àt9ov Òpt~O'ITct <jltÀtct'1 TE J<:ctt ex9pctv EVOpl<:0'1 7tctpà 9ewv. Platone, Leges VIII, 842.e-843b Le premier qui, ayant enclos un terrain, s'avisa de dire: Ceci est à moi, et trouva des gens assez simples pour le croire, fut le vrai fondateur de la société civile. Que de crimes, de guer- res, de meurtres, que de misères et d'horreurs n'eut point épargnés au genre humain celui qui, arrachant !es pieux ou comblant le fossé, eut crié à ses semblables: Gardez-vous d'écouter Cet imposteur; VOUS eteS perdus, si VOUS oubJiez que !es fruits sont à tous, et que la terre n'est à personne. ].-]. Rousseau, Discours sur l'origine desfondements de l'inégalité parmi /es homes, 1755. Partie II
  • 19.
  • 20. I Un «dio oggetto» I.I Turno, la Dira e il macigno Accingendosi a commentare gli ultimi versi dell'Eneide, e in particolare l'episodio della morte di Turno, William Warde Fowler (1919, pp. 152-3) scriveva: In rhe whole range ofpoetry there is nothing, I think, outside Paradise Lost and rhe Divina Commedia, so grand as this conclusion to the great poem. Homer is here, Lucretius is here, others, perhaps, that we do not know of: Virgil calls in their aid to inspire him, to raise him to the highest leve! ofwhich ancient poetry was capable. But the resu!t is no amalgam; it is Vergil and Vergil only, perfect in its nobility ofdiction, rhythm and imagination. In effetti, nonostante i diversi apporti e il riferimento a molteplici modelli, il finale dell'Eneide, con lo scontro tra Enea a Turno, è così originale, da risultare per certi versi addirittura ambiguo: non soltanto perché in qualche modo mette in discus- sione la stessa figura di Enea, reo, secondo alcuni, di aver ucciso Turno nonostante questi fosse ormai ridotto alla condizione di humilis supplex, e dunque di essere venuto meno, proprio nel momento culminante della sua missione, a quella pietas che egli invece era stato chiamato a rappresentare e difendere'; o perché l'ultima immagine, dedicata alla figura dello sconfitto, piuttosto che aquella del vincitore - «L'ultima voce dell'Eneide èil lamento dell'anima di Turno. E ne è anche l'ultimo problema» (Traina, 1998, p. us) -, sembra gettare un' «ombra» sul significato dell'intero poema, significato che Virgilio avrebbe nascosto proprio negli ultimi versi2 ; ma anche perché l'ambiguità, a nostro avviso, riguarda la stessa morfologia 1. Cfr. Traina (1998); Ceccardli (2012.). Sulla questione relativa alla presunta empietà di Enea, cfr. Bettini, Lentano (2.013, pp. 190-2.2.1). 2.. Traina (1994, p. 98) parla di un «finale in ombra dd poema, simbolicamente suggellato da un lessema ominoso» come umbra: «Questa è la grande tragica intuizione di Virgilio, che fa perenne l'attualità dell'Eneide: è sempre l'individuo, nella sua irripetibile concretezza esistenziale, a pagare il prezzo dei paradisi perduti». 19
  • 21. LA LOGICA DEL CONFINE del racconto. Il duello tra i due grandi eroi viene infatti liquidato in pochi versi, disattendendo così le aspettative del lettore, per di più attraverso una sequenza narrativa che, letta in filigrana, mostra un tessuto non perfettamente coerente. La scena è il campo di battaglia, di fronte alla città di Latino, dove Enea e T ur- na sono sul punto di affrontarsi nel duello decisivo. Giove, che è appena riuscito a convincere Giunone ad abbandonare il suo campione in cambio di un'ambigua promessa riguardante il destino dei Troianil, invia sulla terra una delle due Dire, per comunicare a Giutuna che deve smettere di combattere accanto al fratello, il cui destino è stato ormai deciso. Giunta sopra le schiere dei combattenti, la dea, dice Virgilio, si trasforma in quel piccolo uccello che «spesso di notte, appollaiato sulle tombe o su tetti deserti, a lungo canta angoscioso tra le ombre», e comincia a volteggiare, stridendo, sopra il volto del guerriero rutulo e a colpire con le ali il suo scudo4. A questo punto segue un distico che descrive la reazione di Turno: «Uno strano torpore gli scioglie le membra per la paura l i capelli si drizzano dal- lo spavento e la voce rimane strozzata in gola»l, Può venire il sospetto, leggendo questi versi, che lo «strano torpore» che qui colpisce il povero Turno non sia tanto di natura psicologica, quanto piuttosto l'effetto di un incantesimo prodotto direttamente su di lui dalla Dira. Ma noi sappiamo, perché Virgilio è molto chiaro su questo punto, che il destinatario del messaggio non è Turno, quanto piuttosto sua sorella Giuturna, che infatti riconosce immediatamente il significato di quel monstrum: «Riconosco quelle ali l e il suono di morte, né mi ingannano gli ordini severi l del generoso Giove» 6 • Resasi conto di non poter fare più nulla per il fratel- lo, disperata come se questi fosse già morto, ella si abbandona ai gesti caratteristici dellutto7 ; quindi, dopo aver maledetto l'immortalità donatale da Giove che le 3· Virgilio, Aeneis XII, 830-840. Sulla "scomparsa" dei Troiani promessa da Giove, cfr. Betrini (wo9a, pp. 273-301). 4· Virgilio, Aeneis XII, 861-866. Sull'intervento della Dira, cfr. Grassmann-Fischer (1966, pp. 100 ss.). Nonostante l'opinione di Servio, AdAeneidem XII, 863: culminibus desertis noctuam dicit, non bubonem; nam ait ''alitis in parvae": bubo autem maior est, l'esegesi moderna è incline ad identi- ficare laparva ales in cui si è conlecta la Dira proprio in un bubo; così ad esempio Hiibner (1970, pp. 125 ss.) e Fowler (1919, p. 151). Per quanto riguarda i colpi d'ala dell'uccello malaugurante sullo scudo di Turno, Servio, Ad Aeneidem XII, 866, osserva: clipeumque everberat alis: signa sunt ista plangen- tium; sul significato dell'espressione everberat alis come manifestazione di una sternotypia, cfr. Betri- ni (1988, pp. 140-3). 5· Virgilio, Aeneis XII, 867-868: l/li membra novos solvitJormidine torpor l arrectaeque orrore comae et voxJàucibus haesit. 6. lvi, 876-878: Alarum verbera nosco l letalemque sonum necjàllunt iussa superba l magnanimi lovis. 7· lvi, 870-871. Sulla reazione di Giuturna all'apparizione della mostruosa Dira, che sembra ri- produrre il comportamento delle donne romane in occasione deifunera, cfr. Barchiesi (1978, pp. 99-121). Più in generale sul pianto funebre nel mondo antico, De Martino (1975). 20
  • 22. I. UN «DIO OGGETTO» impedisce di accompagnare Turno nel mondo delle ombre8 , si copre il capo con un velo azzurro e si getta in lacrime nel Numico, uscendo così definitivamente di sce- na9. Nel frattempo Enea, che non sembra essersi accorto né della Dira, né della mutata condizione psicologica del suo antagonista, lo invita a non fuggire e a bat- tersi comminus armis'0 • Turno risponde sprezzante di non temere il duello, ma gli dèi e Giove in particolare, la cui ostilità sentiva- è proprio il caso di dire - aleggia- re sulla testa: «Non mi atterriscono le tue fervide parole, feroce Enea, ma gli dèi e Giove nemico». Altro non disse, si guardò intorno e vide un gran masso, un grande masso antico, che giaceva per caso nel piano, posto a confine di un campo per sciogliere le liri fra gli agri: a stento dodici uomini potrebbero portarlo sul collo scelti fra quelli che ora produce la terra; quello avendolo afferrato con mano febbrile, lo vibrava contro il nemico sollevandolo più alto, l'eroe, e rapido nella corsa. Ma non si riconosce nel correre, né nell'incedere, né nel sollevare le mani, né nel muovere l'immane pietra; le ginocchia tremano, il sangue si ferma gelato in un brivido. Così quella pietra lanciata dal guerriero nel vuoto non percorse rutto lo spazio [che avrebbe dovuto], né portò a segno il colpo. Ma come in sogno, quando ci grava sugli occhi la languida quiete della notte, inutilmente in avide corse crediamo di volerei lanciare e stanchi nel mezzo dei tentativi, cadiamo e la parola è vacua, né le consuete forze nel corpo bastano, né voce o parole le seguono; così Turno, qualunque strada cerchi con il valore, trova la dea Dira a sbarrargli il cammino. Allora nel petto differenti sensazioni si muovono. Guarda i Ruruli e la città e indugia nella paura e teme di essere sotto il tiro dell'asta, né riesce a vedere come possa sfuggire, né in che modo assalire il nemico, non vede più il carro, né la sorella auriga". 8. Virgilio,Aeneis XII, 869-884. 9- lvi, 88s-886. IO. lvi, 887-893. 11. lvi, 894·918: «Non me tuaftrvida terrenil dicta,ftrox. Di me terrent et luppiter hostis.» l Nec plura efJàtus, saxum circumspicitingem, l saxum antiquum ingens, campo quodforte iacebat, l limes agro positus litem ut discernerei arvis: l vix illudlecti bis sex cervice subirent, l qualia nunc hominum produ- cit corpora tellus: l ille manu raptum trepida torquebat in hostem l altior insurgens et cursu concitus heros. l Sed neque currentem se nec cognoscit euntem, l tollentemque manu saxumve immane mo· ventem; l genua labant, gelidus concrevitjrigore sanguis. l Tum lapis ipse viri vacuum perinane volutus l 2.1
  • 23. LA LOGICA DEL CONFINE Si direbbe che Turno sia in preda ad un vero e proprio attacco di panico, che ne ottunde le capacità fisiche e mentali. Enea ne approfitta, scaglia il suo telum, e lo colpisce al femore; Turno allora piomba sulla ginocchia, quasi costretto nella posa del supplice12 • Gli ultimi versi del poema lo ritraggono infatti mentre implora pietà, in un atteggiamento assolutamente inedito, che risulta fortemente in contrasto con il carattere superbo e violento esibito fino a quel momento (Ille humilis supplex oculos dextramque precantem l protendens)'3; e solo la vista del balteo di Pallante distoglie Enea dal proposito di risparmiargli la vita'4 . Questo episodio è stato oggetto di molte interpretazioni, che hanno riguar- dato non soltanto il significato e la struttura del XII libro, ma più in generale il senso dell'intero poema e l'ideologia dell'autore. Non è possibile ripercorrere in questa sede, neppure sommariamente, le fasi salienti di questo interminabile di- battito filologico-letterario'1• Quello che qui più ci interessa invece è stabilire da cosa sia determinata questa fine. Non c'è dubbio che, nell'ottica di Virgilio, il vero responsabile della morte di Turno sia Giove. Ma qual è lo strumento che Giove avrebbe scelto per eseguire la sentenza? La Dira,lo stesso Enea o qualcos' al- tro ancora? Per rispondere a questa domanda converrà riesaminare, testo alla ma- no,le diverse sequenze narrative che compongono l'episodio del duello. Il primo scontro fra i due contendenti si interrompe quando improvvisamen- te la spada di Turno (peifìdus ensis), non quella di suo padre Dauno, ma quella presa per errore all'auriga Metisco, si spezza ifrangitur) contro le armi vulcanie di Enea (697-741). Egli allora fugge per la piana inseguito dal figlio di Anchise in un confuso intrigo di giri, stretto da ogni parte dai T roiani, chiuso da un lato da una vasta palude, dall'altro dalle alte mura della città; e fuggendo grida, chiama per nec spatium evasit totum, neque pertulit ictum. l A c velut in somnis, oculos ubi languida pressit l nocte quies, nequiquam avidos extendere cursus l velle videmur et in mediis conatibus aegri l succidimus; non lingua valet, non corpore notae l sujficiunt vires nec vox aut verba sequuntur: l sic Turno, quacumque viam virtutepetivit, l successum dea dira negat. Tum pectore sensusl vertuntur varii; Rutulos aspectat et urbem l cunctaturque metu letumque instare tremescit, l necquo se eripiat, nec qua vi tendat in hostem, l nec currus usquam videt aurigamve sororem. 12.. lvi, 92.1·92.7. Su questo punto, Burnell (1987, pp. 186-wo). 13· Virgilio,Aeneis XII, 930-931. Sulla condizione di supplicc di Turno c l'ambivalenLa scmanri- ca (fisica c psichica) di supplex, cfr. Traina (1981, pp. 113 ss.). 14. Virgilio, Aeneis XII, 941-951. Sulla reazione di Enea alla vista delle spoglie di Pallante, cfr. Galinsky (1988); Negri (1999, pp. 2.40 ss.); Mosr (2.003). Sul mito dell"impius Aeneas cfr. Bcrrini, Lcntano (2.013, pp. 190-2.2.1). Più in generale sulla supplica di Turno e i modelli omcrici, Barchiesi (1984, pp. 114 ss.). 15. La bibliografia sulla marre di Turno e il finale dell'Eneide, è ampissima; per un tentativo di sintesi e discussione cfr. Traina (1990, pp. 332.-3). Per il rema che qui più ci interessa si veda in partico- lare Thornton (1953); Quinn (1964); Wesr (1974); Gagliardi (1985); Burnell (1987); Srhal (1990); Porz (1991); Gaskin (1992.); Nicoll (2.001); Ceccarelli (2.012.). 22
  • 24. I. UN «DIO OGGETTO» nome i suoi compagni, chiede che gli sia restituita la spada paterna (742.-765). Giuturna, prese le sembianze di Metisco, finalmente riarma il fratello. Enea dal canto suo, grazie all'aiuto di Venere, riesce ad estrarre la sua lancia dal tronco te- nace di un vecchio olivo sacro a Fauno, dove si era conficcata (766-787). A questo punto i due combattenti sono di nuovo alla pari (788-790). L'apparizione della Dira, sotto forma di uccello ominoso, sembra determinare invece un nuovo squilibrio di forze. Turno è letteralmente assalito da quell'omen, che vola e rivola stridendo contro il suo viso e con le ali sferza ripetutamente lo scudo: hanc versa in fociem Turni se pestis ob ora l ftrtque refertque sonans cli- peumque everberat alis'6 • Allora, egli prende improvvisamente coscienza del pro- prio destino e, quasi fosse un imputato che sente pronunciare su di sé la sentenza che lo condanna a morte, sbigottisce: illi membra novus soluitJormidine torpor, l arrectaeque horrore comae et voxfoucibus haesit'7• Ma siamo ancora in una dimen- sione puramente psicologica. Il novus torporche «scioglie le membra» di Turno è, infatti, un prodotto dellaJormido, dello sgomento derivante da questa improvvisa presa di coscienza. Alle provocazioni di Enea egli risponde, infatti, in modo sprez- zante di non temere il combattimento corpo a corpo (comminus), ma gli dèi e in particolare Giove nemico (Di me terrent et Iuppiter hostis)'8 • Di tutt'altra natura sembra essere invece l'imprevista e apparentemente inspiegabile astenia che lo col- pisce subito dopo lo sradicamento del grande masso. Soltanto allora, mentre tenta di sollevare il macigno e scagliarlo contro Enea, Turno si accorge di non essere più lo stesso: i movimenti sono impacciati, le braccia non sostengono il peso, le ginoc- chia tremano. Il colpo neppure si avvicina al bersaglio'9. Braccato da ogni parte da forze oscure che ne limitano i pensieri e le azioni, Turno è solo, atterito, impoten- te e ovunque egli cerchi una via di scampo, la Dira è lì, pronta a sbarrargli la stra- da"0. Si direbbe, insomma, che in seguito alla «litobolia», lo spaesamento di Tur- no, invece di ridursi, si sia amplificato. Se questa nostra lettura del testo è corretta, converrà allora distinguere l' ango- scia e il turbamento provocati dalla comparsa dell'omen-Dira dalla misteriosa de- bolezza che si manifesta concretamente al momento del lancio del masso. In altre parole, se il novus torpor (866-867) rientra nel novero delle emozioni- Turno vede l'uccello ominoso, si rende conto di essere stato abbandonato dagli dèi, intuisce il 16. Virgilio,Aeneis XII, 86s-866. 17. lvi, 867-868. Sulla consapevolezza di Turno, cfr. soprattutto Di Benedetto (199s) e Huskey (1999, P· 79). 18. Traina (1990, p. 333) nota in proposito che è rarissima la predicazione di hostis ad una divi- nità. 19. Virgilio,Aeneis XII, 903-907. 20. lvi, 911-914. 2.3
  • 25. LA LOGICA DEL CONFINE proprio destino di morte e ha paura (jòrmido/horror) -,l'improvviso esaurimento di forze che segue allo sradicamento del saxum (903-91s) sembra piuttosto un fe- nomeno di altra natura, determinato da una fonte esterna al soggetto,1 • Tuttavia, forse neppure in questo caso è necessario dare la responsabilità alla D ira. Essa, in- fatti, come abbiamo appena visto, si limita a negare una via di fuga alla sua vittima, un successum, probabilmente continuando a tormentarlo come ha fatto sin dall'i- nizio, volandogli intorno, sul capo, o colpendolo con le ali, impedendogli, insom- ma, di sottrarsi al colpo di Enea. Tra questi due momenti, la presa di coscienza e l'improvvisa astenia, si colloca l'episodio della «litobolia», un episodio che sembra tutto sommato poco armoni- co rispetto alla logica del racconto. Turno, infatti, avrebbe potuto affrontare Enea comminus, battendosi con la spada di Dauno che gli era stata appana restituita da Giuturna. Invece preferisce seguire l'esempio di Diomede e di altri eroi omerici e avventurarsi nel lancio di un grosso masso. Si dirà che qui Virgilio aveva presente il modello iliadico. Servio, infatti, si limita a chiosare: Homeri totus hic locus est». Tuttavia, nei quattro passi iliadici in cui compare il medesimo schema, il lancio della pietra da parte dell'eroe o del dio, il tiratore non mostra alcuna difficoltà a maneggiare il proiettile e riesce sempre a centrare il bersaglio. In Iliade v (302-310), Diomede colpisce Enea con un xepfUiotov, ferendolo all'anca. In XII (44S-4S3), Ettore sfonda i battenti della porta del campo acheo lanciadogli contro unÀtictv che Zeus ha reso leggero (èÀct~p6v). In xx (28s-291) Enea viene sottratto alla battaglia dall'intervento di Poseidone poco prima di scagliare un xepf.ttXO!OV contro Achille. Infine, e questo è senza dubbio il parallelo più interessante, in Iliade XXI (403- 406), Atena scaglia contro Ares un macigno scabro, nero ed enorme, colpendolo al collo. In effetti, a differenza degli altri massi iliadici, meri elementi esornativi del paesaggio omerico, la cui grandezza serve a dare un'idea dell'eccezionalità dell'e- 2.1. La maggior parre degli interpreti moderni non ritiene che vi sia una discontinuità fra i due momenti, ossia che la scomparsa di forze manifestatasi al momento della «litobolia» sia in realtà una conseguenza del tutto naturale del fatto che Turno ha preso consapevolezza dell'ineluttabili- tà del proprio destino. Così ad esempio Fowler (1919, p. 153): «What paralyzes him is the discovery that che great deity offldes, iustitia, pietas, is his enemy. To have Jupiter as your enemy was far a Roman inconceivable: it would mean that you are an outcast from civilization, from sociallife and virtue. lt was nor far these rhat Turnus fought, but individuai passion, far che pride of youth and beauty, far che lave of fighting. When rhat messenger from Jupiter has warned him that such things are not to be avail. and that the course of this world is not to be ordered by them, that they have no value in the eyes ofthe king ofgods and men, then his hand trembles as he graps the stone; and vir and heros rhough he be (902., 906), his strength fails, his brain gives away». Altri ritengo- no invece che la «détresse>> che colpisce Turno sia provocata dalla stessa Dira; cfr. Paratore (1978, p. LII). 2.2.. Servio, AdAeneidem XII, 896. Sul motivo della «litobolia>>, cfr. Monrenz (2.002.).
  • 26. 1. UN «DIO OGGETTO>> roe, il masso lanciato da Atena, è un oggetto linguisticamente più complesso - gli aggettivi fLE'Àctç, TPYJxUç, fLEyaç lo differenziano nettamente rispetto dagli altri -, e soprattutto investito di una precisa funzione culturale. Si tratta infatti, come il macigno divelto da Turno nell'Eneide, di un antico segno di confine (T6v p' &vopeç np6TEpot 9eCTav EfLfLEVctL oùpov tipovpYjç). Va detto però che qui a compiere un simile gesto non è un uomo, ma un dio. Se, dunque, vogliamo valorizzare il piano interte- stuale, dobbiamo riconoscere che Turno fa qualcosa che nell'Iliade fa soltanto una divinità. Èper questo che la sua "fatica" (il f!Eya epyov di Diomede, Ettore ed Enea) si risolve in un completo disastro? Del resto, mentre i macigni innalzati dagli eroi omerici sono tali che neppure due uomini fra i migliori della generazione presente riuscirebbero a sollevare (o où ovo y' &vope ~epotev, l oIotvuv ~poTo{ eiCT' ), quello di Turno è ancora più grande e straordinario, poiché neppure dodici uomini lecti sa- rebbero sufficienti (vix illud lecti bis sex cervice subirent, l qualia nunc hominum producit corpora tellus)1 l. Evidentemente questo saxum non è comparabile in quan- to agrandezza e significato ai xepfLctOLct sollevati degli eroi omerici; è qualcosa di ben più straordinario, qualcosa che un uomo farebbe bene a lasciar stare, che potrebbe sollevare soltanto un dio. Èevidente, insomma, che qui la traccia america, più che spiegare, altera la co- erenza del testo virgiliano. La struttura del racconto presenta in effetti le anomalie tipiche del!'episodio omerico riscritto e risemantizzato da Virgilio secondo un'ot- tica romana. Tra i diversi elementi che il poeta ha collocato sulla scena (gli dèi, le schiere, i due eroi, le loro armi), il grande masso sradicato da Turno è il più disor- ganico, «come un'asperità ben mimetizzata eppure avvertibile al tatto>>14 • Oltre ad essere antiquum, questo masso è, soprattutto, straordinariamente grande, smi- surato. Gli aggettivi che lo qualificano, ingens (ripetuto due volte) e immane, indi- cano qualcosa che è fuori dali'ordinario, che non (in-) appartiene al mondo delle gentes, che eccede la misura, insomma, qualcosa che si pone «al di fuori della cultura»1 1. Una simile grandezza impone attenzione, o meglio "circospezione". Prima di sradicarlo, infatti, Turno lo osserva bene, gli gira intorno con lo sguardo (circumspicit). Ma soprattutto, su questo masso sembrano concentrarsi due diverse forme di soggettività: quella dell'eroe (empatheia), e quella dell'autore-narratore 2.3. Virgilio, Aeneis XII, 899-900. 2.4. Riprendiamo quest'immagine da Conte (2.002., p. 51), che la usa per spiegare l'effetto di estraniamento che producono sul lettore le sollecitazioni espressive tipiche del linguaggio virgiliano. Interessante è poi l'invito che Conte rivolge al lettore di Virgilio poco dopo (p. 61): «ogni lettore dell'Eneide si armi di un ideale sismografo, e si tenga pronto a registrare tutte le vibrazioni del testo e della sua crosta linguistica. Gli apparirà visibile un tracciato che non è affatto lineare, bensì desulto- rio, con vari picchi di intensità>>. 2.5. Sul significato di ingens e immanis cfr. Bettini (1978, pp. 144-9).
  • 27. LA LOGICA DEL CONFINE (sympatheia), due coefficienti stilistici che, come ha mostrato bene Gian Biagio Conte, servono a deformare la fissità dell'oggetto e a render!o, per così dire, bidi- mensionale, contraddittorio, incertol6 • Attraverso questo meccanismo Virgilio descrive la stessa scena secondo angolazioni diverse e complementari: in un primo momento (896-897) riferisce il modo in cui il suo personaggio percepisce l'ogget- to, nel secondo (898) suggerisce al lettore che cosa l'oggetto significa realmente. In altre parole, la prima parte della descrizione (896-897) appartiene all'orizzonte visivo e percettivo di Turno, è il suo punto di vista: saxum circumspicit ingens, l saxumantiquum ingens, campo quodforte iacebat. L'avverbioforte, contrariamente al suo significato, non è affatto casuale, tutt'altro; è un indizio importante, soprat- tutto se messo in relazione con quanto si dice nel verso successivo, ossia che il masso era in realtà un antico limes agro positus litem ut discernere! arvis. Ciò vuoi dire che questo macigno si trovava per caso (/orte) nel campo solo per Turno, che evidentemente non lo riconosce in quanto limes e lo giudica una presenza acciden- tale. Il verso 898, costituisce invece una notazione extradiegetica dell'autore. Qui Virgilio interviene direttamente nella narrazione per spiegare al lettore la reale natura dell'oggetto in questione: il masso è un'antica pietra di confine, e in quan- to tale si trova in quel luogo nonforte, ma per una ragione ben precisa, dirimere le liti fra gli agri. Quello che, dunque, per Turno è un semplice oggetto di scena, un dato naturale e marginale del paesaggio, è, nel!'ottica di Virgilio, un «confine» in funzionel7• Del resto, considerando l'esito del duello, la presenza di questo ogget- to non è affatto casuale, ma piuttosto causale, poiché sembra in qualche modo determinare la fine dell'intero poemal8• C'è da chiedersi se sia davvero Enea o non piuttosto questo strano macigno, con le sue capacità stordenti ed estranianti, a sconfiggere Turno. 2.6. Sull'empatheia e la sympatheia come livelli differenti di rappresentazione e deformazione dell'oggettività epica, cfr. Come (wo2., pp. 91-12.4, in pare. pp. II7 ss.). 2.7. La relazione fra Turno e lo sradicamemo dell'ingem saxum è stata notata solo di sfuggita dagli interpreti moderni. Piccaluga (1974a, p. u3, n. 46): «Il facto che chi sposta i termini si trovi automaticamente "in balia" di luppicer può forse aiutarci a comprendere meglio un episodio del xn libro dell'Eneide»; ma anche Montanari (1990, p. 133) e Carandini (2.ooob, p. q8); da ultimo, più diffusamente, Huskey (1999); Tilly (1969, p. 2.2.0, n. 897), pur riconoscendo che il macigno di Turno è un terminus, riteneva che esso avesse perso il suo valore sacrale. 2.8. Interessanti in proposito le osservazioni di Thaniel (1971), che definisce la pietra «an inscru- ment of fate» e la considera l'espressione culminante del «theme of desecracion>>, sviluppato da Virgilio lungo cucco il poema.
  • 28. I. UN «DIO OGGETTO» 1.2 Immobile saxum Per capire la specificità di questo oggetto, dovremo partire dai pochi elementi che il testo ci mette a disposizione: innazitutto le caratteristiche fisiche, l'essere ingens e immane, la vetustà (antiquum), e infine la funzione (limes agro positus litem ut discerneret arvis), che evidentemente deve avere a che fare con il motivo per cui esso si trova sulla scena. Si tratta di studiare questi indizi in relazione al sistema culturale di riferimento, perché soltanto in questo modo, recuperando l'orizzonte antropologico di Virgilio, essi potranno dirci qualcosa sul ruolo che l'autore ha attribuito a questo misterioso saxum. Tanto per cominciare, va detto che esiste un altro luogo del poema virgiliano in cui il termine saxum è accompagnato da un aggettivo che rinvia, come ingens e immane, all'idea di grandezza e di straordinarietà: si tratta dell'attributo immobile, che compare in Eneide IX, 449, dove Virgilio, che ha appena finito di raccontare la tragica storia di Eurialo e Niso, si ripromette di sottrarre all'oblio la memoria dei due giovani amici attraverso la grandezza dei suoi versi: Fortunati entrambi! Se possono qualcosa i miei versi, mai nessun giorno vi sottrarrà al ricordo futuro, finché la casa di Enea [domus Aeneae] abiterà l'immobile sasso [immobile saxum] del Campidoglio e il padre Romano avra il comando!'9 Se è evidente che la domus Aeneae fa riferimento allagens Iulia, o forse all'intero popolo romano, e l'espressione pater Romanus allude al senato di Roma oppure, come hanno sostenuto altri (Binder, 1971, p. 126), allo stesso Giove Ottimo Massi- mo, il sintagma immobilesaxum si presta invece ad una pluralità di interpretazioni. La maggior parte dei commentatori ritiene che si tratti di una semplice metonimia per indicare il Campidoglio, poiché a Roma il saxum per eccellenza è appunto il monte Tarpeo30 • Èanche possibile però che, come suggerisce il commentoadlocum di Servio, con l'aggettivo immobile Virgilio intendesse riferirsi ad un elemento spe- cifico del complesso capitolino: «abiterà l'immobile sasso del Campidoglio». Nella città di Roma non c'era il tempio di Giove. Quando Tarquinio il Superbo volle edificare questo tempio, già promesso in voto 29. Virgilio, Aeneù IX, 447-4so: Fortunati ambo! Si quid mea carmina possunt, l nulla dies umquam memori vos eximet aevo, l dum domus Aeneae Capitoli inmobile saxum l accolet imperiumque pater Romanus habebit. 30. Cicerone, AdAtticum I4, I6, I; Orazio, Saturae I, 6, 39; Properzio, Elegiae Ili, II, 4S·
  • 29. LA LOGICA DEL CONFINE da Tarquinia Prisco, cominciò acercare attraverso gli augùri quale monte fosse il più adatto per questa realizzazione. E poiché inconfondibilmente venne riconosciuto il Tarpeo, sul quale stavano molti altari di divinità diverse, si provvide affinché questi dèi fossero evocati arrraverso sacrifici per essere trasferiti da quel luogo presso altri templi [ut exinde ad alia tempia numina evocarentursacrificiis]; e questo per poter costruire il tempio di Giove libe- ramente e senza commettere alcuna azione sacrilega [libere et sinepiaculo]. E mentre tutti gli dèi migrarono felicemente, solo Terminus, il dio dei confini [limitum deus], non volle abbandonare la sua sede e lì rimase. Allora in ragione di questo evento si offrì un sacrificio e si comprese che il rimanere di Terminus accanto a Giove preannunciava per la città un imperium senza fine fondato sul culto degli dèi [Terminus cum Iove remanens aeternum urbi imperium cum religione significaret]. Perciò sul Campidoglio, la parre bassa del retto, quella che guarda la pietra di Terminus, è lasciata aperta; infarti, a Terminus non si sacrifi- cava se non a cielo aperto. Per questo motivo il poeta ora disse: «abiterà l'immobile sasso del Campidoglio», perché Terminus non fu spostato dalla sua sedel'. Secondo Servio, dunque, Virgilio con l'espressione immobilesaxum alludeva al dio Terminus "in persona", o meglio al suo santuario, installato sul Campidoglio ben prima della costruzione del tempio di Giove Ottimo Massimol'. D'altra parte, se l'immobilità di Terminus costituiva effettivamente nell'ottica dei Romani una sor- ta di pignus imperii, non sarebbe affatto strano che l'autore dell'Eneide sia ricorso proprio al mito di Terminus per celebrare l'eternità del dominio di Roma e, impli- citamente, della sua poesia. L'episodio a cui fa riferimento Servio, così come la sua interpretazione, è ben documentata dalla tradizione relativa ai primordia del tem- pio di Giove Ottimo Massimo. Livio, in cui la storia è raccontata nei particolari, riferisce che la resistenza di Terminus venne subito interpretata come un segno divino (numen) della futura grandezza della città: Si narra che al principio della costruzione di quest'opera gli dèi abbiano dato un segno che lasciava presagire la grandezza di un così vasto impero [numen adindicandam tanti imperii 31. Servio, AdAeneidem IX, 446: «Capito/ii inmobile saxum accolet». In urbe Roma Iovis tem- plum nonJuit. ~od cum iam devotum a Prisco Tarquinia vellet Superbus Tarquinius aedificare, coepit auguriis captare qui mons huic tempio esset aptissimus. Et cum in omnibus Tarpeius esset inventus, in quo erant multa diversorum numinum sacella, actum est, ut exinde adalia tempia numina evocarentur sacriflciis, quo posset libere et sine piaculo templum lovis exaedificare. Cumque omnes dii libenter mi- grassent, Terminus solus, hoc est limitum deus, discedere noluit, sedillic remansit. Tunc de hoc ipso sacri- ficatum est et deprehensum, quod Terminus cum love remanens aeternum urbi imperium cum religione significare!; unde in Capito/io prona pars tectipatet, quae lapidem ipsum Termini spectat; nam Termino non nisi sub divo sacrificabatur. Hinc ergo nune dixit «Capito/ii inmobile saxum accolet», quia Termi- nus non est revulsus de loco. 32.. L'interpretazione serviana è accolta sia da Lattanzio, Divinae institutiones 1, 2.0, 37, che da Agostino, Decivitate Dei IV, 2.3 e 2.9; tra i moderni cfr. Piccaluga (1974a, pp. 12.3 ss.) e Montanari (1990, pp. 132.·3). 2.8
  • 30. 1. UN «DIO OGGETTO» molem]. Infatti, se gli auspici si erano dimostrati favorevoli alla sconsacrazione di tutti i santuari, non permisero quella del tempietto di Terminus; ora il fatto che la sede di Termi- nus non fosse stata spostata e che questo solo fra gli dèi non fosse stato scacciato dai luoghi a lui consacrati fu interpretato come segno augurale che prometteva stabile e ferma ogni cosa [finna stabiliaque cuncta]. Accolto questo come un auspicio d'eternità, si verificò un altro prodigio che preannunciava la grandezza deli' impero: si dice che quelli che scavavano le fondamenta del tempio trovarono un teschio umano dal volto ancora intatto. Questa apparizione indicava senza dubbio che quella sarebbe stata la rocca del!' impero e il capo del mondo [arcem eam imperii caputque rerum]; così si espressero i vati che erano in città e quelli che erano giunti dall'Etruria per dare il proprio responso su questo fenomeno3l. L'interpretazione dell'inamovibilità di Terminus è qui rafforzata dal ritrovamento della testa umana: l 'imperium di Roma non solo sarebbe stato immobile e saldo, ma avrebbe avuto proprio sull'antico monte Tarpeo il suo caput, che sarebbe dive- nuto così il "centro del mondo"34• Ma andiamo con ordine. Perché il dio dei confini non accetta di lasciare come gli altri il posto a Giove? Evidentemente per garantire con la sua inamovibilità la solidità e la fermezza dello Stato (firma stabiliaque cuncta); o, come direbbero gli antropologi, per fondare l'inamovibilità delle pietre di confine (termini) e assicu- rare così, attraverso il peso vincolante di un racconto mitico, un principio fonda- mentale dell'ordinamento spaziale romano. Vi è tuttavia un elemento che rende la storia di T erminus leggermente più complessa. Il carattere peculiare di questa divinità, il suo differenziale, l' inamovi- bilità appunto, sembra essere, infatti, qualcosa di organico e originario. Lattanzio, nel 1 libro delle Divinae institutiones, ci ha conservato uno splendido ritratto di questa curiosa divinità dei confini: E che cosa dovrei dire di coloro che venerano una pietra informe e grezza [lapidem infor- mem ac rudem] di nome Terminus? Si dice che questo sia quello che Saturno divorò al posto di Giove e a buon diritto è onorato. Infatti, poiché Tarquinia voleva costruire il tempio sul Campidoglio, ma in quel luogo sorgevano molti tempietti di divinità, chiese 33· Livio, Ab Urbe condita libri 1, ss. 3-7. In altre versioni dello stesso racconto (Floro, Epitome de T. Livio bellorum omnium annorum DCC libri duo l, 7 e Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Ro- manae III, 69), sarebbe rimasta insieme a Terminus anche luventas; Agostino, De civitate Dei lV, 2.3, IO e 2.9, I, inserisce ne1 novero degli "dèi ribelli" anche Marre. Ad ogni modo, che la resistenza di Terminus fosse divenuta proverbiale in età tardo repubblicana, lo dimostra un aenigma trovato da Gellio nel De sermone Latino ad Marcellum di Varrone (Noctes Attit"ae XII, 6), la cui soluzione è co- stituita, come dimostrò Angelo Poliziano, proprio dal dio Terminus: seme! minusne an bis minus sit nescio, l an utrumque eorum; ut quondam audivi dicier, l lovi ipsi regi noluit concedere; cfr. Monda (2.012.). 34· Sulprodigium del caput, rinvenuto nello scavo delle fondamenta del nuovo tempio, si veda la documentazione raccolta da Piccaluga (I974a, p. 2.03, n. 168); per una sua discussione ivi (pp. 2.01 ss.). 29
  • 31. LA LOGICA DEL CONFINE loro attraverso il linguaggio augurale se erano disposti a cedere il loro posto a Giove; ebbe- ne, mentre tutti gli altri si ritirarono, Terminus fu l'unico a rimanere [cedentibus ceterissolus Terminus mansit]. Per questo il poeta lo chiama «immobile sasso del Campidoglio». E da questo episodio si capisce quanto sia grande Giove, al quale una pietra non ha voluro lascia- re il posto, forse in virtù di quell'antica confidenza, perché lo aveva sottratto alle fauci pa- terne. Quando fu ultimato il tempio, sopra lo stesso Terminus fu lasciato aperto uno spira- glio, perché, dal momento che non si era mosso, continuasse a nutrirsi della volta celeste. Ma del cielo non si nurre questa gente che pure crede che se ne debba nutrire una pietra. E viene pubblicamente adorata come divinità protettrice dei confini, non soltanto sotto for- ma di sasso, ma anche quando a volte prende le sembianze di un ceppo. E cosa dovrei dire di questi individui che venerano tali cose, se non che loro stessi sono delle pietre e dei ciocchi di legno?li L'incomprensione che dimostra qui l'apologeta cristiano nei confronti del dio Ter- minus ricorda quella provata da molti missionari - ma anche da alcuni etnografi - di fronte alla scoperta dei culti litici diffusi presso le religioni africane: stessa incre- dula meraviglia, stessa inquietudine. In effetti, la descrizione di Lattanzio corri- sponde, per usare la terminologia coniata da Mare Augé, a quella di un «dio ogget- to», ossia una divinità che si identifica, o si confonde, con il suo simulacro natura- le o artificiale; nel caso di Terminus, una pietra informe e grezza (infomtis ac rudis), radicata al suolo così profondamente da non poter essere smossa36 • Ecco perché Virgilio lo definisce immobile saxum: non solo per la tenace resistenza dimostrata in occasione dell'instaurazione del nuovo culto capitolino, perché non volle rece- dere, come i suoi vicini, dal luogo in cui si era insediato per fare spazio a Giove; ma 35· Larranzio, Divinae institutiones I, 20, 37-41: f!?id qui lapidem colunt informem ac rudem cui nomen est Terminus? Hic est quem pro Iove Saturnus dicitur devorasse nec immerito illi honos tribuitur. Nam cum Tarquinius CapitoliumJacere vellet atque in eo loco multorum deorum sacella essent, consu- luit eos per auguria utrum Iovi cederent, et cedentibus ceteris solus Terminus mansit. Unde illum poeta «Capitoli inmobile saxum» vocat. lam ex hoc ipso quam magnus luppiter invenitur, cui non cessit lapis, ea fortasse fiducia, quod illum de paternibusJaucibus liberaverat. Facto itaque Capito/io supra ipsum Terminumforamen est in tecto relictum, ut quia non cesserai, libero coelofrueretur: quo ne ipsi quidem fruebantur qui lapidemfrui putaverunt. Et huic ergo publice supplicatur quasi custodi.flnium deo, qui non tantum lapis, sed etiam stipes interdum est. Quid de iis dicas qui colunt talia, nisi ipsos potissimum lapides ac stipites esse? 36. L'espressione è stata coniata da Augé (1988) per indicare gli dèi vudu della religione africana, e in particolare il dio Legba, la cui effige è composta di argilla impastata e vari materiali organici, tra cui resti di sacrifici. Non sono mancare interpretazioni di tipo feticistico anche nei confronti del dio romano; così ad esempio Fowler (1899, p. 326); Wissowa (1902, p. 136); Rose (1926, p. 52); ma soprar- rurro Frazer (1929, p. 481, vedi infra); sulle diverse interpretazioni che sono stare formulare sul signi- ficato originario del culto del terminus capitolino, Piccaluga (1974a, pp. 123-8). Fowler (1899, p. 327), ad esempio, credeva che questa pietra fosse effettivamente un amico segno di confine, e più precisa- mente uno dei termini che doveva segnare la frontiera fra la città di Romolo sul Palarino e quella di Tiro Tazio sul Quirinale.
  • 32. I. UN «DIO OGGETTO>> anche perché, in fin dei conti, Terminus è una pietra, un grosso masso piantato nel terreno, qualcosa insomma che esprime l'immobilitas in modo strutturale, median- te la materia di cui è fatto, attraverso il suo essere saxum. 1.3 Tra Saturno e Giove Secondo una parte della tradizione, il dio dei confini si era installato sull'antico mons Tarpeius quasi all'inizio della storia della città. Prima dell'arrivo di Giove, quel luogo, scrive Dionigi di Alicarnasso, era disseminato di «altari di dèi e divini- tà gli uni accanto agli altri, che era necessario trasferire altrove perché tutta l'area fosse dedicata al santuario che stava per essere innalzato» 37• Si tratta senza dubbio di queiJana e sacel/a che, stando al racconto liviano, vennero offerti in voto da Tito Tazio al tempo della guerra romano-sabina, prima dello scontro risolutivo nella piana del foro, e che poi furono inaugurati e consacrati in seguito alla pacifi- cazione con i Romanil8 • Varrone ci ha conservato una lista completa delle divinità sabine importate a Roma in quell'occasione: Con qualche piccola modifica provengono dai Sabini anche i seguenti nomi: Pale, Vesta, Salute, Fortuna, Fonte, Fede. E di Sabino hanno il sapore anche le are che furono innalzare a Roma per voto di Tiro Tazio. Negli Annali, si legge, infatti, che egli dedicò are a Opi, a Flora, a Vediove e Sarurno, al Sole e alla Luna, a Vulcano e a Summano, e a Larunda, a Ter- minus, a Quirino, a Verrumno, ai Lari, a Diana e a Lucina. Alcuni di questi nomi hanno radici in entrambe le lingue, come gli alberi che sorti in un campo spingono le loro radici in quello vicinol9. Il culto di Terminus sarebbe stato, dunque, importato, insieme ad altri, dalla Sabina al tempo della guerra con i Romani, nell'ambito di un evento mitico che, come è stato più volte sottolineato, riveste un'importanza fondamentale nella costruzione dell'identità romana (Dumézil. 1941, pp. 161 ss.). La lista varroniana ci permette 37· Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae III, 69, 4· Per questo genere di «bonifiche sacre>>, cfr. Glinister (2.ooo) c Giardina (2.012., pp. 301-2.). 38. Livio,Ab Urbe condita libri l, 55, 1-2.. 39· Varronc, De lingua Latina v, 74: Pau/o a/iter ab eisdem dicimus h<a>ec: Palem, Vestam, Sa- futem, Fortunam, Fontem, Fidem. e<t> ar<a>e Sabinum linguam olent, quae Tati regis voto sunt Ro- mae dedicatae: nam, ut anna/es dicunt, vovit Opi, Flor<a>e, Vedio[io}vi Saturnoque, Soli, Lunae, Vol- cano et Summano, itemque Larundae, Termino, Quirino, Vortumno, Laribus, Dianae Lucinaeque; e quis nonnulla nomina in utraque lingua habent radices, ut arbores quae in con.flnio natae in utroque agro serpunt. Su questo documento, i nomi e le funzioni delle divinità che vi compaiono, cfr. Terrosi Zanco (1961). 31
  • 33. LA LOGICA DEL CONFINE però di fare un ulteriore passo avanti nella nostra indagine su Terminus. Qui, infat- ti, tra gli altri teonimi compare anche quello di Saturno, il padre di Giove, conside- rato dai Romani come il dio "anteriore all'ordine". Visto il rapporto parentale e funzionale tra le due divinità non può essere privo di significato il fatto che il san- tuario di Saturno venga spostato alle pendici del colle capitolino, proprio quando sulla sua sommità viene innalzato il tempio di Giove Ottimo Massimo40 • Si tratta invece di un trasferimento particolarmente indicativo dal punto di vista ideologi- co: «Ora», come ha sottolineato a suo tempo Angelo Brelich (1955, p. 12.0), «se il dio garante dell'ordine è in cima- e sul colle capitolino lo era anche prima della fondazione dell'aedes lovis O. M. (Iuppiter Feretrius) - difficilmente sarà senza significato il fatto che al dio calendarialmente e ritualmente contraddistinto quale rappresentante di uno stato "anteriore all'ordine" sia stato assegnato un posto ai piedi del colle da cui Iuppiter era destinato a dominare il mondo». All'arrivo di Giove, insommà, Saturno e Terminus si separano: mentre il primo scende ai piedi del Campidoglio, ad occupare una posizione che esprime anche topograficamente l'avvenuta sottomissione a Giove, l'altro resta invece al suo posto, sulla cima del colle, finendo addirittura per essere inglobato nel nuovo tempio. Questa dissociazione diventa ancor più significativa, se teniamo conto del fat- to che nelle rappresentazioni dell'Età dell'oro, ossia di quel tempo mitico in cui il regno di Saturno precede quello di Giove4 ', il segno di confine, il temJinus appun- to, non esiste. Scrive Virgilio nel primo libro delle Georgiche: Il padre stesso [Giove] volle che non fosse facile l'arte della coltivazione, e per primo fece smuovere con arte i campi pungolando i cuori dei mortali con le preoccupazioni, poiché non sopportava che il suo regno restasse nell'antico grave torpore. Prima di Giove nessun colono lavorava la terra, segnare o dividere i campi con un confine non era lecito: i beni erano nel mezzo e la terra stessa offriva tutto generosamente senza che nessuno lo chiedesse4 >. 40. Varrone, De lingua Latina v, 42.; Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae VI, 1; Feste, De verborum significatu, s.v. Saturnia, p. 430 Lindsay; Servio, AdAeneidem Il, 116 e vm, 319. 41. Su Crono/Saturno, signore dell'Età dell'oro, in opposizione a Zeus/Giove, signore del pre- sente, con riferimento alle oscillazioni di giudizio negli autori classici, cfr. Guastella (1992.); sulle rappresentazioni latine dell'Età dell'oro, Pianezzola (1979). 42.. Virgilio, Georgicon libri 1, ILI-8: Pater ipse colendi l baudfocilem esse viam voluit, primusque per artem l movit agros, curis acuens mortalia corda l nec torperegravi passus sua regna veterno. l Ante lovem nulli subigebant arva coloni: l nesignare quidem autpartiri limite campum l jàs erat; in medium quaerebant, ipsaque tel!us l omnia liberius nulloposcentejèrebat. Il mito deli' Età del! 'oro viene ripreso
  • 34. 1. UN «DIO OGGETTO» A differenza di Lucrezio, che da buon epicureo riteneva che gli dèi non avessero avuto alcuna responsabilità nel liberare l'uomo dalla sua condizione ferina, Virgilio crede invece nella teodicea del lavoro, per cui la fatica e l'operosità sono considera- te positivamente, in quanto stimoli all'intelligenza e all'intraprendenza dell'uo- mo4l. In altre parole, per Virgilio l'aurea aetas non costituisce affatto un modello culturale, come lo sarà per altri poeti dell'età augustea: prima dell'arrivo di Giove tutto era in comune e indiviso, non esiteva né l'agricoltura, né la proprietà privata, poiché la terra offriva tutto a tutti senza alcuna fatica (liberius nullo poscente); ma questo stato rendeva insipida la vita stessa degli uomini: non costretti ad agire, a sudare, a soffrire per procurarsi da vivere, essi vivevano in una sorta di torpida in- dolenza, afflitti da una specie di «malattia dello spirito» (Barchiesi, 1980, p. 144). È chiaro che in un mondo in cui non è necessario coltivare la terra per procurarsi da vivere, è inutile misurarla, dividerla o proteggerla contro l'invidia degli altri. Anzi, a pensarci bene, neppure l'invidia ha motivo di esistere in un mondo in cui non esistono differenze; per questo motivo era giudicato addirittura nefas segnare o dividere i campi con dei segni di confine. Di tutt'altro tenore è l'immagine dell'Età del!'oro che affiora nei versi di Ti- bullo: Quanto bene vivevano quando regnava Saturno, prima che la terra fosse aperta in lunghe strade! Non ancora il pino sapeva sfidare le onde cerulee, né sapeva offrire ai venti le vele spiegate, né il mercante errante, desideroso di guadagno in terre ignote, aveva riempito la stiva con merci straniere. Allora il toro possente non si sottometteva al giogo, né il cavallo mordeva con la bocca domata i freni; le case non avevano porte, né fissa nei campi stava la pietra per reggere i terreni con confini sicuri. Le querce stillavano miele e spontaneamente le pecore offrivano sicure le mammelle colme di latte agli uomini. Non esistevano eserciti, né ira, né guerre, né il fabbro crudele aveva appreso con l'arte severa a forgiare la spada. Ora sotto il regno di Giove sempre massacri e dolori, ora i pericoli del mare e vie infinite e improvvise alla morte44• da Virgilio anche inAeneis VI, 791-794 e Bucolica 4, 6-10, come modello di rappresemazione dell'età augustea. 43· Lucrezio, De rerum natura v, 9lS-IOIO; per un confromo fra Virgilio e Lucrezio sul tema dell'Età dell'oro, cfr. Barchiesi (1980, pp. 144-s); sul comrasto tra la lettura virgiliana di questo mito c quella degli altri poeti di età augustea, Viglietti (2011, pp. 99-ws). 44· Tibullo, Carmina 1, 3, 3s-48: Quam bene Saturno vivebant rege, priusquam l tellus in longas 33
  • 35. LA LOGICA DEL CONFINE Siamo, evidentemente, agli antipodi della celebrazione virgiliana. Ma i tratti carat- teristici di questa specie di paradiso terrestre restano immutati. L'umanità primor- diale, priva delle grandi conquiste culturali, che vive senza strade e senza navi, che ignora la fatica e l'arte di piegare la natura ai propri scopi, che non conosce l'agri- coltura, l'allevamento o la metallurgia, è necessariamente anche preservata dai grandi mali della storia (acies, ira, bella). In questo mondo contrassegnato dalla pace tra gli uomini e dalla prosperità delle risorse, in cui non hanno posto né desi- deri, né violenze, neppure la divisione dei campi e l'idea della proprietà privata sono concepibili. Èvero, la successione di Giove a Saturno ha sostituito l'ordine al caos; ma l'ordine è divisione e la divisione comporta per sua natura la differenza, la sproporzione. Ecco allora che il segno di confine, personificazione dell'ordine e al tempo stesso della disuguaglianza, può essere assunto asimbolo di civiltà, ma anche dei mali che essa comporta. Non è un caso che, nel rievocare l'aetas in cui gli uomi- ni vivevano mixti deis, l' Ippolito di Seneca ricordi, accanto ali'assenza dell'auri caecus cupido, proprio quella della «pietra sacra posta nel campo a dividere i terri- tori fra i popoli» 41; o che Ovidio, nella sua nostalgica celebrazione dei regna Sa- turni, metta in relazione l'innocenza dell'uomo primitivo e il suo disinteresse per il guadagno e il possesso privato con l'assenza di limites, di confini tra i campi46. Vengono in mente le famose parole con cuiJean-Jacques Rousseau apre la seconda parte del suo Discours sur l'origine desjòndements de l'inégalitéparmi les homes: Le premier qui, ayant enclos un terrain, s'avisa de dire: Ceci est à moi, et trouva des gens assez simples pour le croire, fut le vrai fondateur de la société civile. Que de crimes, de guerres, de meurtres, que de misères et d'horreurs n'eCu point épargnés au genre humain celui qui, arrachant les pieux ou comblant le fossé, eut crié à ses semblables: Gardez-vous d'écouter cet imposteur; vous etes perdus, si vous oubliez que les fruits sont à tous, et que la terre n'est à personne47. est patejacta vias! l Nondum caeruleas pinus contempserat undas, l ejfusum ventù praebueratque si- num, l nec vagus ignotù repetem conpendia terrù l presserai externa navita merce ratem. l !Ilo non va- lidus subiit iuga tempore taurus, l non domitoftenos ore momordit equus, l non domus ullafores habuit, nonjìxus in agrù, l qui regeret certùjìnibus arva, lapis. l Ipsae mella dabant quercus, ultroqueferebant l obvia securù ubera lactù oves. l Non acies, non iraJuit, non bella, nec emem l inmiti saevm duxerat arte fober. l Nunc /ove sub domino caedes et vulnera semper, l nunc mare, nunc feti mille repente viae. 4S· Seneca, Phaedra Sl7·Sl9: Nullus hù aurifuit l caecus cupido, nullus in campo sacer l diviJit agros arbiter populiJ lapis. Sulle rappresentazioni poetiche delle antiche frequentazioni fra uomini e dèi nell'Età dell'oro, cfr. Feeney (1998, pp. ISO ss.). 46. Ovidio, A mores III, 8, 41-42: Nec valido quisquam terram scindebat aratro, l signabat nullo limite memor humum. Ovidio descriva ancora l'Età dell'oro in Metamorphoseon libri l, 89-112, ma senza far riferimento questa volta all'assenza del segno di confine. 47.].-J. Rousseau, Dùcournur l'origine desfondements de l'inégalitéparmi /es homes, I7SS. Partie Il. 34
  • 36. 1. UN «DIO OGGETTO>> Probabilmente Tibullo, Ovidio e Seneca avrebbero sottoscritto queste parole. È evidente, dunque, che il segno di confine, il terminus, non ha sempre goduto di una buona reputazione. Esso appartiene al regno di Giove, all'aetas dell'ordine, della divisione, delle disuguaglianze, e in quanto tale non può che essere assunto a sim- bolo di progresso, o di civilizzazione. Ma proprio per questo motivo, almeno nel pensiero dei poeti che rievocano con nostalgia il ricordo di una lontana e ormai perduta condizione edenica primordiale, il suo statuto, come quello di ogni altra invenzione umana, risulta essere quanto meno ambiguo. Non dimentichiamo però che il mito dell'Età dell'oro ha, per dirla con Jan Assmann (1992, p. 51), una funzione "contrappresentistica": evoca cioè un "prima" migliore, l'Età dell'oro appunto, che, contrapposto all'"ora",l'età contemporanea in cui scrive l'autore, ha lo scopo di rilevare ciò di cui il presente è manchevole, di rendere consapevole la frattura qualitativa tra i due tempi, quello favoloso rievoca- to dal mito e quello reale e contestuale di chi racconta. Ben diversa è l'idea del se- gno di confine che affiora in testi di tutt'altra natura, meno ideologizzati e svinco- lati dalla preoccupazione di opporre ad un presente degradato un passato mitico fortemente idealizzato. 35
  • 37. 2 Il culto 2.1 I Terminalia Nei Fasti Ovidio dedica ben 46 versi all'elogio del dio Terminus. L'occasione è la descrizione dei Terminalia, la festa in suo onore, celebrata dai Romani il2.3 febbra- io. Dal momento che il brano in questione è centrale ai fini del nostro discorso, sarà bene riportarlo per intero: Quando è trascorsa la notte, si celebra con il consueto onore il dio che con il proprio segno delimita i campi [separai indicioqui deus arva suo]. O Terminus, sia che tu sia una pietra, oppure un legno piantato nel campo, sin dai tempi antichi tu hai un numen. Due proprietari provenienti da parti opposte ti coronano e ti portano due ghirlande e due focacce. Si erige un altare: qui la rozza contadina porta in un piccolo vaso del fuoco che lei stessa ha preso dalle tiepide braci. Un vecchio spacca i legni e li accatasta spezzati con arte e combatte per piantare i rami nella solida terra; allora suscita con la secca corteccia le prime scintille; un ragazzo sta a guardare e tiene fra le mani un grande cesto. Quindi, dopo che ha gettato per tre volte grani nel fuoco, una bambina vi getta piccole fave a pezzetti. Altri tengono il vino: una parte di ciascuna offerta è libata nelle fiamme. La gente vestita di bianco osserva e tace. Il terminus comune viene cosparso del sangue di un agnello sacrificale, né si lamenta se gli si offre una scrofa da latte. Il vicinato si riunisce e frugale celebra il banchetto e cantano le tue lodi, santo Terminus: «Tu sei confine per i popoli, le città e i grandi regni; senza di te ogni campo sarebbe conteso. Nessun tipo di corruzione può agire su di te, né sei piegaro dall'oro, conservi i terreni a te affidati con la fedeltà che deriva dal diritto. Se tu avessi marcato un tempo i confini del paese di Tire,
  • 38. l.. IL CULTO trecento corpi non sarebbero stati inviati alla morte e il nome di Otriade non starebbe su un trofeo di armi». O quanto sangue questo guerriero ha donato alla patria! E cosa accadde quando fu costruito il nuovo Campidoglio? Tutta la folla di divinità cedette e lasciò il posto a Giove; Terminus, come ricordano gli antichi, trovato nel luogo, vi rimase [restitit] e dimora insieme con il grande Giove nel tempio. Anche oggi, perché non veda al di sopra di sé nient'altro che le stelle, il tetto del tempio conserva un piccolo foro. O Terminus, da quel giorno non hai più la libertà di muoverti: rimani di guardia, lì dove sei stato posto. Al vìcino che ti chiede non cedere nulla, affinché tu non sembri aver anteposto un uomo a Giove. E se ti capita di essere colpito da un vomere o da un rastrello, proclama: «Questo campo è tuo e quest'altro è tuo!». C 'è una strada che porta il popolo ai campi Laurenti, regno inseguito un tempo dal condottiero dardanio. Su quella via, la sesta pietra a partire dalla città, ti vede offrire in sacrificio una pecora lanosa. A tutte le altre genti è stata concessa una terra con limiti; per quella romana lo spazio della città e quello del mondo coincidono'. Come altre festività romane, i Tenninalia, dunque, prevedevano un doppio binario cerimoniale: uno pubblico, di cui sappiamo molto poco, e uno privato, sul quale 1. Ovidio, Fasti II, 639-684: Nox ubi transierit, solito celebretur honore l separat indicio qui deus arva suo. l Termine, sive lapis sive es defossus in agro l stipes, ab antiquis tu quoque numen habes. l Te duo diversa domini de parte coronant, l binaque serta tibi binaque libaJèrunt. l Ara fit: huc ignem mrtoJert rustica testo l sumptum de tepidis ipsa colonaJocis. l Ligna senex minuit concisaque construit arte, l et solida ramos figere pugnat humo; l tum sicco primas inritat corticejlammas; l stat puer et manibus lata canistra tenet. lInde ubi ter.fruges medios immisit in ignes, l porrigit incisosfilia parva jàvos. l Vina tenent a/ii: libantur singulajlammis; l spectant, et linguis candida turbaJavet. l Spargitur et caesocommunis Terminus agno, l necqueriturlactans cum sibiporca datur. l Conveniunt celebrantque dapes vicinia simplexl et cantant laudes, Termine sancte, tuas: l «tu populos urbesque et regna ingentia jìnis: l omnis erit sine te litigiosus ager. l Nulla tibi ambitio est, nullo corrumperis auro, l legitima servas eredita rurafide. l Si tu signasses olim Thyreatida terram, l corpora non feto missa trecentaJorent, l nec Jòret Othryades congestis lectus in armis». l O quantum patriae sanguinis il/e dedit! l Quid, nova cum jìerent Capitolia?Nempe deorum l cuncta lovi cessit turba locumque dedit;l Terminus, ut veteres memo- rant, inventus in aede l restitit et magno cum love tempia tenet. l Nunc quoque, se supra ne quid nisi si- dera cernat, l exiguum templi tectaJoramen habent. l Termine, post illudlevitas tibi libera non est: l qua positusJueris in statione, mane; l nec tu vicino quicquam concede roganti, l ne videare hominem praepo- suisse lovi. l Et seu vomeribus seu tu pulsabere rastris, l e/amato «tuus est hic ager, il/e tuus». l Est via quae populum Laurentes ducit in agros l quondam Dardanio regna petita duci: l il/a lanigeri pecoris tibi, Termine, fibris l sacra videtfieri sextus ab Urbe lapis. l Gentibus est aliis tellus data limite certo: l Romanaespatium est Urbis et orbis idem. Per un commento puntuale al testo, si veda Frazer (192.9, pp. 481-99), e più recentemente Troucier (2.009, pp. 6o8-13). 37
  • 39. LA LOGICA DEL CONFINE Ovidio offre maggiori dettagli•. Per quel che riguarda la sfera privata sono i pro- prietari dei terreni confinanti, assistiti dalle rispettive famiglie, ad agire direttamen- te sul terminus communis. Non tutti i termini, infatti, erano oggetto di culto, ma solo i termini sacrifica/es che sorgevano lungo iperimetri delle proprietà, o anche al loro interno, e sui quali, come su degli altari, veniva compiuto il sacrificio3• Questo terminus viene coronato con due ghirlande, che dobbiamo presumere siano state confezionate separatemente dai due gruppi familiari, così come pure le due focacce che gli vengono portate in offerta4 • Poi, dopo che è stato acceso un fuoco sacrifica- le, la pietra viene cosparsa con il sangue di una scrofa o di un agnello da latte: è il momento più solenne della celebrazione1. A questo punto i vicini si uniscono (con- veniunt) per celebrare il banchetto e intonano al dio un canto di lode (cantant laudes). Quello che colpisce in questo testo, certamente «troppo raffinato e dotto per essere declamato da un coro di campagnoli» (Barchiesi, 1994, p. 204)6 , è il fatto che non venga fatta alcuna distinzione tra l'oggetto terminus e il dio Termi- nus. In realtà Ovidio sembra considerare sia l'immobile saxum del Campidoglio, sia un qualunque altro segno di confine come manifestazioni, tra loro perfettamen- te omogenee, della stessa divinità. Mentre infatti i versi 673-674 fanno riferimento al grande terminus capitolino, che resistendo (restitit!) a Giove si è per così dire fossilizzato nella sua posizione originaria (Termine, post illud levitas tibi libera non 2.. Sulla celebrazione pubblica che si teneva presso il sesto miglio della Laurentina, si vedano le osservazioni di Zi6lkowski (2009, pp. 119-2.1). Colonna (1991, p. 2.12.), identifica questo santuario di Terminus con l'enigmatico <I>~O'TOL di cui parla Strabone, Geographica v, 3, 2., dove ogni anno gli lEpOf.LV~f.LOV€ç celebravano l'altrettanto misteriosa festa chiamata hf.L~!Xpou[IX (gli Ambravalia?). 3· Frontino, De controversiis agrorum 2., in Gromatici Veteres, p. 43 Lachmann; cfr. in proposito Piccaluga (1974a, pp. 12.0-1); secondo Woodard (2.oo6, pp. 59-96), il modello cultuale e funzionale del terminus sarebbe da rintracciare nelloyupa vedico. 4· Si potrebbe forse supporre, anche se ce ne mancano le prove, che questo cippo, come le im- magini di Giano, avesse due facce: trovandosi all'incrocio di due proprietà e segnalando, dunque, contemporaneamente la fine dell'una e l'inizio dell'altra, esso si configura, da un punto di vista semi- otico, come un "segno bifronte", che veicola lo stesso significato da visuali opposte. s. Sui sacrifici offerti ai termini, Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae n, 74 e Plutarco, Numa 16 e Quaestiones Romanae 15, parlano di offerte incruente; e così anche gli autori latini: Giove- nale, Saturae 16, 39; Tibullo, Carmina I, 1, 11-12.; Apuleio, FLorida 1, 1; Minucio Felice, Octavius 3, 1; Arnobio, Adversus nationes II, 2.4. Offerte cruente sono invece testimoniate oltre che dai Fasti di Ovi- dio, da Prudenzio, Contra Symmachum n, 1008, e da un passo di Siculo Fiacco, De condicioneagrorum, in Gromatici Veteres, p. 141 Lachmann, incentrato però sul rituale di fondazione dei termini. Non è il caso di tornare su questa divergenza, per cui si rinvia a Piccaluga (1974a, soprattutto pp. 17 ss.), la cui indagine sui segni di confine nella religione romana nasce dal tentativo di risolvere la "contraddizione". 6. Già Frazer (192.9, p. 490): «We are apparently intended to understand che following outburst ofpsalmody as a hymn to Terminus chanted by a tuneful choir ofcountry bumpkins. Bue ir needs no Bentley to perceive that che psalmist is Ovid himself. The poet could not attune his sweet notes to rhe gruffvoices of che groundlings».
  • 40. l.. IL CULTO est: l qua positusJueris in statione, mane), il referente dei due versi successivi è inve- ce un terminus qualsiasi, al quale si chiede di non cedere alle richieste, evidente- mente disoneste, di un vicino, poiché, sostiene il poeta, sarebbe disdicevole conce- dere qualcosa ad un uomo, quando non si è concesso nulla neppure a Giove (nec tu vicino quicquam concede roganti, l ne videare hominem praeposuisse lovi). Evidente- mente, dal punto di vista del pensiero religioso, i due termini non sono distingui- bili, e non lo sono neppure rispetto al dio Terminus che infatti si confonde, o si nasconde, sia nell'uno che nell'altro. Abbiamo ache fare in sostanza con un sistema di "identità multiple", in cui la divinità coincide con il suo simulacro, il simulacro con il segno di confine e quest'ultimo con la divinità. l Terminus dio l /~ terminus ~,, - - - - - , terminus capitolino Del resto, i Romani, non distinguendo tra lettere maiuscole e lettere minuscole, non erano portati a istituire confini troppo rigidi tra parole, concetti ed eventuali ipostasi divine7• La differenza fra il terminus inteso come oggetto e Terminus inte- so come divinità è, insomma, il prodotto di una lettura etica della religione romana, un problema, dunque, sostanzialmente dei moderni. Per Ovidio - e probabilmen- te per il suo pubblico -l'uno e l'altro erano semplicemente la stessa cosa. 2.2. Terminus, indice e icona Del resto, Ovidio afferma chiaramente che qualunque pietra (o legno) utilizzata come segno di confine possiede un numen (ab antiquis tu quoque numen ha- 7. Feeney (1998, p. 12.8): «Da un punto di vista moderno, il problema degli ascracci sembra ero· vare una composizione nel fano che i Romani non facevano distinzioni era leccere maiuscole e minu- scole. Pensare alla differenza era Pax epax non è facile, ma è certamente più agevole che farlo craPAX e PAX. La chiarezza che si esprime attraverso le moderne regole tipografiche può tuttavia oscurare i vantaggi collegaci ad una mentalità che non imponeva demarcazioni rigide era parole, qualità e ipo- scasi e che poteva servirsi utilmente dell'indeterminatezza in uno spirito di improvvisazione>>. 39
  • 41. LA LOGICA DEL CONFINE bes)8• Come sanno bene gli storici della religione romana, il significato di questo termine oscilla a seconda delle epoche e dei contesti in cui viene utilizzato: «vo- lontà divina», «potenza divina», «divinità». Le teorie animistiche in voga nella prima metà del secolo scorso si erano spinte, con HerbertJenkins Rose (192.6, pp. 44-5; 1951) e Hendrik Wagenvoort (1947), fino al punto di vedere nel numen dei Romani un corrispettivo del concetto melanesiano di mana9. Sulla base di questa presunta equipollenza, secondo i primitivisti della religione romana, Terminus do- veva essere annoverato fra gli esseri divini più antichi, risalenti ad una età preistori- ca. Valga per tutti la definizione che ne diedeJames George Frazer (192.9, p. 481) nel suo commento ai Fasti: Thus rhe worship ofTerminus was ferishism pure and simple: ir was never elevared by myrhology imo a higher sphere: rhe god never conrrived, if we may say so, ro exrricare himselffrom his srone or stock. His rires rhus rouched rhe lowesr leve! in Roman religion: rhey would nor be our ofpiace in Wesr Africa ar rhe presenr. In realtà il concetto di numen ha ben poco a che vedere con la nozione di mana (ammesso che si possa dare di mana una definizione univoca e precisa)'0 • Per quel che riguarda poi il nostro caso specifico, sarà opportuno osservare che il numen di cui parla Ovidio sembra albergare in qualunque cosa, lapis o stipes, che sia chiama- ta a svolgere la funzione di un terminus. È, dunque, la funzione dell'oggetto, non l'oggetto in sé, a determinare la presenza del numen". Una volta attivato attraverso il dispositivo rituale, infatti, il segno di confine agisce come un rappresentante di Terminus, diventa una sua estensione, un suo indicium (Fasti n, 840). Il termine utilizzato qui da Ovidio è molto interessante e vale la pena esaminarlo nel dettaglio. L'indicium è una sorta di "traccia", un segno che conserva e, dunque, rivela qua/co- 8. Ovidio, Fasti II, 642.. 9· Sulla nozione di mana nella religione romana arcaica, cfr. le osservazioni critiche di Boyancé (1948) e Dumézil (1974, pp. 33·44). Quale che sia la sua accezione originaria è molto probabile che il termine numen abbia significato «presenza divina» soltanto nella letteratura tarda; si veda in pro- posito Beard, North, Price (1998, vol. II, pp. 3-4). 10. Sulla vaghezza del concetto di mana e i relativi problemi interpretativi a partire dalla "sco- perta" di Codrington, Pignato (2.001, pp. 59-62.). l!. Un terminus non necessariamente deve essere una pietra; puo trattarsi anche di un pezzo di legno, di un semplice stipes dejòssus in agro; cfr. Ovidio, Fasti II, 641-642.: Termine, sive lapis sive es dejòssus in agro l stipes, ab antiquis tu quoque numen habes; Lattanzio, Divinae institutiones l, 2.0, 41: et huic ergo pubblice supplicatur quasi custodifinium deo, qui non tantum lapis, sed etiam stipes inter- dum est; Igino, Degeneribus controversiarum, in Gromatici Veteres, pp. 12.6-7 Lachmann, precisa che il materiale può essere estremamente vario: qua/es sint termini, considerandum est. Solent plerique la- pidei esse: at vide equo lapide, quoniam quique consuetudinesjere per regiones suas habet. A/ii ponunt siliceos, alii Tiburtinos, a/ii enchorios, alii peregrinos, alii autem politos et scribtos, alii aut robureos aut ex certa materia ligneos, quidam etiam hos quos sacrifica/es vocant.
  • 42. l.. IL CULTO sa dell'oggetto che lo ha prodotto. Se dovessimo collocarlo all'interno della tasso- nomia dei segni elaborata dal padre della semiotica, Charles Sanders Peirce (1903, pp. 291-2), diremmo che la nozione di indicium corrisponde, non soltanto da un punto di vista linguistico, a quella di "indice". «An Index», scrive Peirce, « is asign which refers to the Object that it denotes by virtue ofbeing really affected by the object [...].In so far as the Index is affected by the Object, it necessarily has some Quality in common with the Object, and it is in respect to these that it refers to rhe Object». In altre parole, ciò che distingue gli "indici" dalle altre tipologie di segno ("simboli" e "icone") è il fatto di essere in un rapporto di contiguità naturale con il loro oggetto, ragione per cui gli "indici" funzionano come spie, manifesta- zioni dell'oggetto denotato: il sintomo ad esempio è"indice" della malattia, il fumo è "indice" del fatto che qualcosa sta bruciando, il movimento della banderuola è "indice" della direzione del vento, e così via. Nel caso del terminus la questione però è più complessa. Il cippo di confine, infatti, non è realmente un prodotto o un effetto di Terminus, ma viene pensato come se lo fosse. La sua natura di oggetto culturale viene costantemente rimossa, o per meglio dire camuffata dalla sua iconicità, dal suo essere costruito ad immagine e somiglianza della divinità. Ancor prima di essere un "indice", il terminus è, infat- ti, un'"icona", una immagine che riproduce alcune caratteristiche dell'oggetto rappresentato, nel nostro caso l'effige del dio. Pertanto, un terminus è sempre an- che un ritratto, appunto un'"icona" di Terminus, una sua rappresentazione in miniatura. Vi èpoi l'idea, diffusa in molte culture e alla base di numerosi racconti, che una immagine possa in qualche modo riprodurre anche alcune qualità intrin- seche dell'oggetto raffigurato, che la similarità comporti la contiguità tra la copia e il modello (Bettini, 1992). Come dice la Laodamia di Ovidio, «una immagine è più di quello che sembra» n. Ci sono persino immagini che non si limitano a rim- piazzare il proprio referente assente, ma riescono, in virtù dell'uso che se ne fa, del modo in cui ci si comporta nei loro confronti, a sostituirsi compiutamente a lui: Non basta dire che le immagini stanno a "rappresentare" qualcosa, con le immagini "si fa" anche qualche cosa: l'essere rappresentazioni di oggetti fuori di loro non impedisce alle immagini di diventare, a loro volta, oggetto (o anche soggetto) di intenzioni o pratiche che le coinvolgono. Questo vale tanto per la persona che tiene in tasca la fotografia di qualcuno e non sa distaccarsene quanto per il denso apparato simbolico che accompagna il racconto di Admeto e del simulacro nell'Alcesti di Euripide (ivi, p. 6o). In altre parole, la pragmatica culturale è in grado di trasformare ciò che nasce come rappresentazione dell'oggetto nell'oggetto stesso della rappresentazione, ma per- n. Ovidio, Heroides 13, 153: crede mihi, plus est, quam quod videatur, imago.
  • 43. LA LOGICA DEL CONFINE ché questo avvenga è necessario innanzitutto che l'immagine sia "icona" dell'ogget- to rappresentato. Un alto grado di iconicità (si pensi ad un certo tipo di ritratti o, come suggeriva lo stesso Peirce, alle fotografie) genera naturalmente l'idea di un contatto, di una relazione fisica, organica fra il segno e il suo referente. In questo senso possiamo dire che alcune "icone" possiedono una "capacità indicale", la quale fa sì che esse possano diventare a tutti gli effetti "indici" della cosa rappresentata e aspirare, se così possiamo dire, ad assumerne l'identità. Tornando a noi, il terminus può essere pensato come un "indice", una proiezione di Terminus, innanzitutto perché è una "icona" di Terminus; una "icona" evidente- mente molto potente, che non si limita a riprodurre la forma del suo referente divino, ma ne ha in qualche modo ereditato anche il carattere, la personalità, la forza. Ma perché questa "icona" è così speciale in confronto alla altre? Cosa è che la rende così diversa rispetto ad una comune statua della divinità? Crediamo che la risposta sia da ricercare ancora una volta nella pragmatica culturale, nell'uso che si fa del terminus e nell'insieme delle relazioni che lo vedono coinvolto. Qui abbiamo infatti ache fare con un'immagine che, oltre a rappresentare qualcosa, fa anche qualcosa di molto concreto, o meglio viene impiegata per fare qualcosa di molto concreto, vale a dire il confine. Si tratta, dunque, di una "icona" che possiede un alto valore performativo. Se la funzione di una statua cultuale è quella di rappresentare la divinità che vi è stata effigiata, nel terminus rappresentazione e funzione coincidono. Ancor meglio diremo che il fermi- nus rappresenta esattamente la sua funzione. Ecco dove risiede il numen di cui parla Ovidio, non nell'oggetto - nel qual caso ricadremmo in una lettura animistica della religione romana - ma nella capacità dell'oggetto di "presentifìcare" Terminus attra- verso la sua performatività. Quel che intende dire il poeta è che qualunque tronco o pietra che sia stato chiamato asvolgere la funzione di segno di confine è, in quanto tale, una manifestazione del dio Terminus, un'espressione della sua potenza (numen ). Non dobbiamo dimenticare che gli dèi degli antichi non sono delle "persone", con una iden- tità precisa, quanto piuttosto delle "potenze" capaci di manifestarsi in una pluralità di forme e sotto una pluralità di segni, e che tuttavia non si identificano mai completa- mente con nessuna delle loro manifestazioni panicolari (Vernant, 196sb, pp. 369-72)'l. 2.3 Confini e passaggi I termini non sono, pertanto, delle mere copie morfologiche di Terminus'4• In quanto "indici" e al tempo stesso "icone" della divinità essi sono destinati a ripro- 13· Sul "linguaggio" del politeismo greco si veda l'ottima sintesi di Gabriella Pironti (201 1). 14. Come il dispositivo Legba-Fa-Kpoli, studiato da Augé (1988, p. 134).
  • 44. 2.. IL CULTO durne anche il comportamento. Come Terminus, o per meglio dire il suo simula- cro, era rimasto immobile, e dunque impassibile, di fronte all'avvento di Giove, così anche i singoli termini sarebbero dovuti rimanere fermi alloro posto e vegliare sul rispetto dei confini a loro assegnati. I Romani non solo credevano che l'immo- bilitas di Terminus si trasmettesse automaticamente ai suoi indicia, ma anche che essa fosse a sua volta segno di fermezza morale, imparzialità, e senso di giustizia. Èquesto, per altro, come già detto, un carattere fisiologico che il terminus espri- me direttamente attraverso la propria materialità. Una pietra o un pezzo di legno non possono per loro natura essere sensibili all'aurum, né all'ambitio, come lo sono invece gli esseri umani, dotati di sentimenti, passioni e desideri. La pietra in partico- lare rappresenta il massimo di inflessibilità che si possa trovare in natura, è l'inerte per eccellenza, èpura inorganicità'1; ma èproprio questa sua estrema alterità rispetto all'umano a farne il garante ideale dellafides tra i confinanti'6 • Chi, o cosa meglio di una pietra ruvida e inespressiva, imparziale persino nella sostanza, avrebbe potuto assicurare il diritto e il rispetto delle regole nelle relazioni tra i vicini? Come ha mo- strato Maurizio Bettini (1992, p. 161), tra i poteri che hanno le immagini, e in parti- colare le statue, vi è quello di far rispettare le leggi. L'inorganico milita dalla parte della giustizia: «Dove la giustizia umana non arriva - perché ignora, perché inade- guata o corrotta - una superiore giustizia si desta in ciò che è rigido e inanimato». Ma cosa ci si aspettava concretamente da un terminus? Come esercitava il suo mestiere di arbitro? In che modo esso riusciva a garantire il diritto e la lealtà tra i vicini? Saremmo sorpresi a questo punto di scoprire che da un punto di vista eti- mologico terminus sembra rimandare ad un'idea molto lontana da quella di immo- bilità. Esso deriva, infatti, come i suoi corrispondenti greci térmon e térma, dalla radice indoeuropea •ter- che rimanda all'area semantica dell'attraversamento, 15. Estremamente interessanti su questo punto le riflessioni di Augé (1988, pp. 2.7 ss.), riguardan- ti però le divinità feticce africane; cfr. ad esempio p. 2.8: «Ciò che fa problema è l'inerte, la materia bruca. Fa problema e oppone resistenza. Di qui le collere infantili (agli inizi l'organico non opponeva resistenza) e le metafore abituali ("volontà di ferro", "cuore di pietra", "restare di ghiaccio"). L'impen- sabile, e in un certo modo, la potenza sono dalla parte dell'inerzia bruta, della pura materialità. Il naturale è dunque la vita, e quesw lascia pensare che il soprannaturale sia dalla parte dell'inerte. Da questo punto di vista sono molto importanti le rappresentazioni dei "feticci" africani, tutte vicine alla materia bruta. Il loro antropomorfismo è appena abbozzato, come un'allusione alla necessità di comprendere qualcosa e, simultaneamente, all'impossibilità di riuscirei: come se si trattasse di anima· re "al punto giusw" per comprendere l'inanimaw,l'inflessibile, l'inesorabile, il già là. È proprio la materia bruta ad essere difficilmente pensabile». Sulla percezione e le rappresentazioni dei minerali nel mondo antico, cfr. il bel libro di Sonia Macrì (2.009). 16. Ovidio, Fasti Il, 661-662.. Il concetw difides, come si sa, è uno dei cardini portanti del pen- siero religioso-politico romano. Ed è particolarmente interessante il fatto che Terminus e Fides com- paiano insieme in un paragrafo di una vita plutarchea, su cui wrneremo fra breve, come culti coevi e ideologicamente connessi. 43