2. Arazzo di Bayeux (anni ’70-’80 dell’XI sec.)
Banchetto di Guglielmo il
Conquistatore
3. Luigi Firpo, Gastronomia del Rinascimento (1974)
Nell’attimo stesso in cui l’alimentazione umana
esce dall’incubo della fame primordiale,
subito diventa lusso, vizio, piacere.
4. Sabadino degli Arienti, Porretane (1495)
«Villano latrone che tu sei! Che te vegna mille
cacasangui!» grida messer Lippo Ghisilieri al
villano Zuco Padella, e prosegue «lascia stare le
fructe de li miei pari e mangia de le tue, che
sono le rape, gli agli, porri, cipolle e le scalogne
col pan di sorgo!»
Albero di pesche
(Historia Plantarum, fine XIV secolo)
7. Liber de Coquina (XIII sec.)
«Volendo qui trattare della cucina e dei diversi
cibi, per prima cosa cominceremo dalle cose più
facili e cioè dal genere delle verdure.»
Xilografia dal Kuchenmaistrey, il primo
libro di cucina in tedesco, 1485.
8. Sabadino degli Arienti
L'aglio «sempre è cibo rusticano», ma «alle
volte artificiosamente civile se fa, ponendose nel
corpo de li arostiti pavari»: quando l'aglio è
all’interno di un’anatra (papero) arrosto, la sua
natura contadina si modifica ad arte e può
entrare nella mensa dei signori (Sabadino degli
Arienti).
Grazie a ciò, l’agliata, la salsa a base di aglio
pestato nel mortaio, tipica della cucina
contadina, può comparire anche nei ricettari
delle classi alte, come accade in un libro
veneziano del Trecento, che la propone come
abbinamento «a ogni carne».
La raccolta degli agli
(Theatrum Sanitatis, fine XIV secolo)
9. Liber de Coquina (XIII sec.)
Allo stesso modo, la ricetta dei «cavoli delicati
ad uso dei signori» del Liber de coquina ne
precisa la destinazione: come contorno delle
carni, alimento nobile per eccellenza: «cum
omnibus carnibus».
La raccolta dei cavoli
(Theatrum Sanitatis, fine XIV secolo)
10. Anonimo toscano (XIV sec.)
«Togli raponcelli, bene bulliti in acqua, e poni a
soffriggere con oglio, cipolla e sale; e quando
sono cotti et apparecchiati, mettivi spezie in
scudelle»: una volta speziato, qualsiasi cibo è
degno della mensa signorile.
«… in ciascuna salsa, savore o brodo, si
possono ponere cose preziose, cioè oro, petre
preziose, spezie elette, ovvero cardamone, erbe
odorifere o comuni, cipolle, porri a tuo volere».
La raccolta delle rape
(Theatrum Sanitatis, fine XIV secolo)
11. Liber de Coquina (XIII sec.)
La raccolta delle fave
(Theatrum Sanitatis, fine XIV secolo)
«Prendi fave infrante e scelte bene e quando le
avrai bollite, tolta l'acqua, lava molto bene e
rimettile nello stesso vaso con poca acqua
tiepida e sale, in modo che siano ben coperte
dall'acqua, e gira spesso col cucchiaio; quando
saranno cotte, togli dal fuoco e schiaccia
fortemente con un cucchiaio, poi lascia riposare
un po' e quando scodellerai aggiungi del miele o
dell'olio soffritto con cipolle, e mangia».
13. Puls (polenta)
Inserviente alle prese con la puls
(molto probabilmente di farro) (Tomba Golini, Orvieto)
La puls del mondo etrusco e italico
(i Romani sono definiti scherzosamente pultifagi
da Plauto nell’Asinaria).
«grandes fumabant pulsibus ollae»
(Giovenale, XIV, 171)
Olla romana (ceramica da cucina)
14. Panico (Setaria italica)
(Tacuinum Sanitatis, XV secolo)
«Paniccia col latte» (panico ben lavato e pestato, bollito e mescolato con latte e
lardo): ricetta contadina che si “nobilita” se servita da contorno a qualcosa di più
sostanzioso: «questo cibo tu puoi mangiare col capretto arrosto».
Anonimo toscano (XIV sec.)
15. Maccheroni secondo la ricetta
medievale
I maccheroni, ossia i gnocchi, sono una
pietanza tipica della cucina contadina
(variante del pulmentum): si fanno
impastando la farina con gli albumi d’uovo e
l’aggiunta di tanta acqua quanta ne occorra a
ottenere un impasto sodo ed elastico.
Dopodiché, i maccheroni vanno confezionati:
«dapoi fanne pastoncelli longhi un palmo et
sottili quanto una pagliuca. Et togli un filo di
ferro longo un palmo, o più, et sottile quanto
un spagho, et ponilo sopra 'l ditto
pastoncello, et dagli una volta con tutte doi le
mani sopra una tavola; dapoi caccia fore il
ferro, et ristira il maccherone pertusato in
mezo» (Maestro Martino, Libro de Arte
Coquinaria, 1456-1467).
Maestro Martino (XV sec.)
16. A sinistra, alici in
scapece (dallo spagnolo
escabeche), sotto,
agoni in carpioneLe conserve nella cucina povera e in quella
dei ceti dominanti: lo scapece è un pesce
fritto e poi marinato in sale e aceto, per la
lunga conservazione e il trasporto: lo
troviamo sulla tavola dell'imperatore Federico
II, ma un ricettario del XIV secolo lo definisce
«schibezia a tavernaio».
Una sua variante è il carpione, preparato
con procedimento opposto: marinare il pesce
in una salamoia all'aceto e poi friggerlo: la
ricetta compare in questi termini nel testo
quattrocentesco di Maestro Martino,
destinato a palati ben più raffinati che a quelli
delle osterie!
Maestro Martino (XV sec.)
17. Martin Lutero, Conversazioni conviviali
Cerca degli amici, anche donne, balla,
gioca, canta. Mangia e bevi, anche se il
cibo non ti piace: in questi casi non c’è
di peggio che digiunare.
Lucas Cranach,
Martin Lutero (1528)
18. Sisto IV nomina il
Platina prefetto della
biblioteca Vaticana,
Melozzo da Forlì (1477)
Bartolomeo
Sacchi, detto Il
Platina, autore del
De honesta
voluptate et
valetudine
Lo SCALCO
19. Giovan Battista Rossetti, scalco alla corte Estense a Ferrara,
autore del trattato Lo scalco (1584).
Lo SCALCO
20. Bartolomeo Scappi, cuoco alla corte di papa Pio V,
autore del ricettario Epulario seu de re coquinaria (1570).
Il CUOCO
21. Bartolomeo Scappi, cuoco alla corte di papa Pio V,
autore del ricettario Epulario seu de re coquinaria (1570):
LA CUCINA PRINCIPALE, con i tavoli per preparare la pasta
fresca, il pasticcio, la carne e quello per i servizi di credenza e
di cucina.
Il CUOCO
33. Francesco e Raffaello Botticini, Il banchetto di Erode (1484-91)
Servizio all’italiana (ciascun
commensale ha davanti un
piatto, a differenza dei
servizi all’alemanna e alla
francese.
38. Ferrara, 24 gennaio 1529
Alfonso I d’Este (ritratto da Tiziano Vecellio) e il suo scalco,
Cristoforo da Messisburgo, autore del Libro Novo (1549)
39. Ferrara, 24 gennaio 1529
Al banchetto di Alfonso I d’Este:
la ceramica graffita estense
40. L’alzata (o “fontana”)
L’alzata, o “fontana”,
invenzione di Giovanni
Battista Rossetti
inaugurata nella cena
offerta dalla duchessa
Lucrezia al fratello, duca
Alfonso II d’Este
42. La cucina portatile
Sia Giovanni Battista
Rossetti che
Bartolomeo Scappi si
preoccupano di
quando il signore è
in guerra, dando
precise indicazioni su
quello che era
necessario per una
sontuosa “cucina da
campo” (da B.
Scappi, Epulario seu
de re coquinaria,
1570).
44. I “banchetti” degli artisti: MICHELANGELO
Daniele da Volterra, Ritratto di Michelangelo.
Dilombato, crepato, infranto e rotto
son già per le fatiche, e l’osteria
è morte, dov’io viv’ e mangio a scotto.
(Michelangelo Buonarroti, Rime, 267).
45. I “banchetti” degli artisti: PONTORMO
Dettaglio del ritratto del
Pontormo nella Trinità di
Alessandro Allori (Cappella
di San Luca, Basilica della
Santissima Annunziata,
Firenze).
46. I “banchetti” degli artisti: PONTORMO
… mercoledì [29 marzo 1555] feci quello resto del putto e ebi disagio a quello stare chinato
tucto dì, di modo che mi dolse giovedì le rene; e venerdì oltre al dolermi ebi mala dispositione
e non mi sentii bene e la sera non cenai e la mattina, che fumo adì 29 1555, feci la mano e
mezo el braccio di quella figura grande, el ginochio con uno pezo di gamba dove e’ posa la
mano, che fu el venerdì detto e la detta sera non cenai e stetti. Dpgiuno] insin al sabato sera e
mangiai 10 on[ce] di pane e dua huova e una insalata di fiori di borana.
[31] di marzo la domenica mattina desinai in casa Daniello pesce e castrone, e la sera non
cenai, e lunedì mattina mi si smosse el corpo con dolore : levami e poi per essere fredo e
vento ritomai nel leto e stettivi insino a hore 18, e in tucto dì poi non mi sentii bene; pure la
sera cenai un poco di gota lessa con delle bietole e burro, e sto così senza sapere quello che
a essere di me. penso che mi nocessi assai quello ritornare nel letto: pure ora che sono hore 4
mi pare stare asai bene.
(Pontormo, Il libro mio, 1554-56)
47. Banchetti “letterari”: Luigi PULCI
Rispose allor Margutte: - A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch’a l’azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
e molto più nell’aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;
e credo nella torta e nel tortello:
l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;
e ’l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
Il “Credo” alla rovescia, blasfemo e sacrilego, di Margutte.
Luigi Pulci, Morgante (XVIII, 112-142), 1478.
48. Banchetti “letterari”: Ludovico ARIOSTO
E il vin fumoso, a me vie più interdetto
che ’l tòsco, costì a inviti si tracanna,
e sacrilegio è non ber molto e schietto.
Tutti li cibi sono con pepe e canna
di amomo e d’altri aròmati, che tutti
come nocivi il medico mi danna.
Fra le argomentazioni che Ariosto
usa nella prima Satira per giustificare il suo rifiuto
a seguire in Ungheria il cardinale Ippolito d’Este,
ci sono, per esempio, anche ragioni di tipo dietetico
e alimentare.
Ludovico Ariosto, Satire, I, 1534.
49. Banchetti “letterari”: Ludovico ARIOSTO
In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco
e mondo, e spargo poi di acetto e sapa,
che all'altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre,
come di seta o d’oro, ben mi corco.
Per me (che sono intellettualmente libero)
una rapa e una rozza coperta sono come, per uno che
ha bisogno di essere circondato dal lusso e quindi è schiavo
delle ricchezze e di chi gliele può procurare, un cibo raffinato (la
cacciagione: tordo, starna o cinghiale) o un tessuto pregiato.
Ludovico Ariosto, Satire, III, 1534.
50. Banchetti “letterari”: Ludovico ARIOSTO
Ma lascian Bradamante, e non v’incresca
udir che cosi resti in quello incanto,
che quando sarà il tempo ch’ella n’esca
la farò uscire, e Ruggiero altretanto.
Come raccende il gusto il mutar esca
così mi par, che la mia istoria,
quanto or qua or la più variata sia
meno a chi l’udirà noiosa fia.
Come in tavola, anche in letteratura la varietà rende
le pietanze più gradevoli e il pasto meno noioso.
Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, 1516.
51. Decameron, VIII novella, V giornata
La vicenda di Nastagio degli Onesti
Il giovane Nastagio degli Onesti si innamora della figlia di una ricca famiglia ravennate, ma lei, fiera della
propria bellezza e nobiltà, rifiuta il suo amore. Deciso a suicidarsi, un giorno si reca nella pineta di Classe,
quando assiste a una scena tremenda: vede una giovane donna inseguita da due mastini e dal fantasma
di un cavaliere, che, raggiuntala, la uccide e ne dà da mangiare il cuore e le interiora ai cani. Poi,
improvvisamente, il corpo della donna si ricompone e la scena si ripete. Il cavaliere spiega a Nastagio che
l’avvenimento si ripete in quel luogo ogni venerdì, in quanto lui, innamorato della donna e da lei rifiutato, si
era ucciso, meritando la condanna all'inferno, mentre la donna, dopo la sua morte, punita per non aver
ricambiato l'amore e per aver gioito della sua morte, doveva scontare quella pena per tanti anni quanti
erano stati i mesi della sua crudeltà verso di lui.
Nastagio pensa allora di organizzare in quello stesso luogo un banchetto, al quale invita anche la sua
amata, per il venerdì successivo: fa preparare un pranzo magnifico ma, arrivata l'ultima portata, appare la
macabra scena e la successiva spiegazione del cavaliere fantasma.
Il fatto impressiona tanto le donne presenti che la bella di Nastagio acconsente immediatamente a
sposarlo, e tutte le altre donne di Ravenna diventano, da quel momento in poi, molto più accondiscendenti
e arrendevoli nei confronti dei loro spasimanti.