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Piacere e dolore
nell’esistenza umana
Riflessioni sulla nostra condizione
L. S. Ruhl, Arthur Schopenhauer
Lezione 1
Introduzione
• Fin dalla nascita l’essere umano deve misurarsi con la fatica
dell’esistere, con il peso pressante dei bisogni fisici e psicologici, con
la scontentezza provocata dalle carenze e dai desideri irrealizzati, con
la tristezza del dolore, della malattia e della morte.
• Ma, allo stesso tempo, una delle tendenze spontanee dell’esistenza
umana è quella di cercare situazioni capaci di donare allegria, gioia e
piacere.
• Ben sapeva tutto questo lo stesso Omero il quale, in un passaggio
dell’Odissea, fa dire ad Ulisse parole amare di dolore e, al tempo
stesso, di gioia.
• Ma è lo stesso Ulisse che poco prima aveva riconosciuto quanto la
gioia possa colmare l’animo umano nelle occasioni che gli uomini
stessi allestiscono affinché essa si manifesti.
Molte angosce mi diedero gli dèi celesti
• Ulisse è malinconicamente consapevole delle
sue «tristi sventure» e delle sofferenze che,
assieme ai singhiozzi, accompagnano la sua
vita.
Ritratto ideale di Omero (copia romana, II sec.)
________________________
1 Per le parafrasi e le citazioni, cfr. Omero, Odissea, prefazione di F. Codino, versione di R. Calzecchi Onesti , Torino, Einaudi 1982; Libro Nono,
1-15, p. 229.
[…] non esiste momento più amabile
di quando la gioia (εὐφροσύνη) regna tra il popolo tutto,
e i convitati in palazzo stanno a sentire il cantore,
seduti in fila; vicino son tavole piene
di pani e di carni, e vino al cratere attingendo,
il coppiere lo porta e lo versa nei calici:
questa in cuore mi sembra la cosa più bella. 1
Pittore dei Niobidi, “Cratere a Calice” (Louvre)
• Così sembra la vita umana: un alternarsi
continuo di dolore e piacere.
• Ma questa constatazione non ci esime dal chiederci quale dei due
stati sembri caratterizzarla maggiormente: il dolore o il piacere?
• E siamo poi sicuri che tali stati siano solo due? Perché non allargarci
all’angoscia e alla disperazione? O forse anche alla dissolutezza più
sfrenata?
• Insomma, cosa caratterizza maggiormente la vita umana? e, di
conseguenza, qual è il suo fine e cosa essa deve perseguire?
• Per esplorare la tematica prenderemo in esame alcune riflessioni
proposte dalla storia della cultura che, tra le molte possibili, ci paiono
particolarmente significative e utili per accompagnarci in questo
percorso.
*
• .
 Epicuro di Samo
• Epicuro, nativo di Samo (342 a.C.), nel
306 a.C. si stabilì ad Atene, città da cui
proveniva la sua famiglia e della quale,
per questo motivo, era cittadino a pieno
diritto, e acquistò nella periferia della
città una casa che divenne la sede della
sua scuola filosofica.
• La casa era dotata di un giardino (κῆπος)
Epicuro di Samo
ed è per questo motivo che si parlò di scuola del giardino e di filosofi del
giardino.
.
• La scuola di Epicuro era aperta
a tutti: liberi e schiavi,
aristocratici o comuni cittadini,
uomini e donne.
• I suoi insegnamenti dovevano
essere accolti in quanto tali e
nessuno era autorizzato a
modificarli. La scuola costituiva
una comunità organizzata quasi religiosamente e la fedeltà a Epicuro era
più importante di ogni personale ricerca ed elaborazione teorica.
• Epicuro morì ad Atene nel 270 a.C. a causa di calcoli renali. I suoi
ultimi momenti sono così descritti da Diogene Laerzio (180 – 240
d.C.):
Morì di calcoli renali dopo quattordici giorni di malattia, come scrive Ermarco nelle lettere.
Ermippo riferisce che Epicuro in punto di morte, entrato in una tinozza di bronzo piena di
acqua calda, chiese del vino puro e lo bevve d'un fiato. Dopo aver raccomandato agli amici di
non dimenticare il suo pensiero, spirò. Noi abbiamo scritto per lui questo epigramma: «"Siate
felici e memori del mio pensiero", furono le ultime parole di Epicuro agli amici. Entrato nel
calore della tinozza, con uno stesso sorso bevve vino puro e il freddo della morte. Tale fu la
sua vita e tale la sua fine.»
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, Vita di Epicuro.
Canonica: ricerca la regola (κανών) che consente di distinguere il
vero dal falso, guidando l’uomo nel campo della conoscenza
Fisica: mostra il vero funzionamento della natura al fine di liberare
l’uomo dalla paura di forze misteriose e spaventevoli.
Etica: si occupa di condurre l’uomo alla felicità, il vero scopo della
vita umana.
La filosofia di Epicuro si articola
su tre piani
Il sistema filosofico di Epicuro
Lezione 2
• In questa sede, ci soffermeremo in particolare sull’etica1, perché è
questa branca della conoscenza che si occupa di indirizzare l’essere
umano verso il vero scopo della propria esistenza, quello che i greci
chiamavano ἀρετή (eccellenza, perfezione), e che nel caso della vita
umana indica il bene più alto al quale essa può tendere.
• Ora, questo sommo bene, verso il quale la riflessione etica ha il
compito di guidarci, è per Epicuro la felicità.
________________________
1 τὰ ἠϑικά (ciò che riguarda l’ ἦϑος, ossia il modo di comportarsi, di agire, il carattere, soprattutto in senso morale) indica lo studio dei valori
morali e dei comportamenti ad essi relativi.
• Ebbene, secondo Epicuro, la felicità si identifica con il piacere (ἡδονή)
perché quest’ultimo è direttamente connesso con il bene, mentre il
dolore lo è con il male.
• La filosofia è la via per raggiungere la felicità, ma per conseguire
questo scopo essa deve riuscire a liberare l’uomo dalle passioni, dai
turbamenti e dalle opinioni errate su se stesso e sul mondo.
• Il vero fine della filosofia non è tanto teoretico, bensì pratico, nel
senso etico/morale, in quanto deve riuscire a orientare l’uomo verso
quel piacere che si identifica col bene e la felicità.
• Questa capacità orientante della filosofia è espressa da Epicuro con la
parola φρόνησις, saggezza o prudenza, quell’accortezza sobriamente
ragionata che consente di fare le scelte giuste in vista del vivere
piacevole e felice. Tale prudenza può essere più importante della
stessa filosofia intesa come sapere astratto a se stante.
il principio e il più grande bene è la prudenza , la quale risulta perfino più preziosa della filosofia,
poiché da essa nascono tutte le altre virtù, in quanto insegna che non è possibile vivere piacevolmente
senza vivere anche in modo saggio, onorevole e giusto, e, viceversa, non è neppure possibile vivere in
modo saggio, onorevole e giusto senza anche vivere piacevolmente. Infatti, le virtù hanno un legame
naturale con il vivere piacevolmente, e il vivere piacevolmente è inseparabile dalle virtù.
Epicuro, Lettera a Meneceo
• Tra i consigli che Epicuro dispensa per realizzare una vita felice,
quattro appaiono preliminari e di decisiva importanza. Sono
comunemente denominati quadrifarmaco, perché il loro scopo è
quello di costituire un quadruplice rimedio alle paure umane più
comuni.
• I precetti del quadrifarmaco corrispondono alle prime quattro delle
quaranta Massime capitali (Κύριαι Δόξαι) che condensavano i
principali insegnamenti di Epicuro (cfr. Diogene Laerzio, Vite, X, 139-
154). Il quadrifarmaco fa poi da sfondo alle riflessioni contenute nella
Lettera a Meneceo, uno tra i più importanti scritti di Epicuro
pervenutici.
________________________
1 La parola quadrifarmaco deriva dal greco τό τετραφάρμακον/ἡ τετραφάρμακος(τετρα-, quattro; φάρμακον, medicina, rimedio) e, in origine
indicava un impiastro molto utilizzato composto da cera, sego, pece e resina.
Il quadrifarmaco
1. Paura degli dèi
non bisogna avere paura degli dèi perché essi sono esseri perfetti
che vivono nella loro beatitudine senza mai occuparsi delle
vicende umane.
2. Paura della morte
non bisogna temere la morte, perché essa non ha una vera realtà.
Infatti quando noi ci siamo la morte non c’è, e quando essa
sopravviene noi non ci siamo più .
3. Paura di non poter
accedere al piacere
Il piacere è intimamente connesso alla natura umana, e perciò è
facilmente raggiungibile.
4. Paura del male
Non bisogna aver paura del male, ovvero del dolore, dato che se
lieve sarà sopportabile, se acuto sarà di breve durata, se
acutissimo condurrà alla morte, che è uno stato di insensibilità
dove scomparirà ogni dolore.
• L’uomo che impara ad applicare il τετραφάρμακον troverà la calma
interiore e conseguirà la felicità, per quanto la vita possa essere
tormentosa.
• Sappiamo già che per Epicuro il bene e la felicità si identificano col
piacere, ma di quale piacere si tratta? Il piacere è espressione della
vita, intesa nella sua naturale fisicità, perciò è sempre un bene. Il
problema è che alcuni piaceri comportano il dolore, perciò bisogna
distinguere tra due tipi di piacere, quello dinamico e quello stabile.
.
Piacere
dinamico (o in movimento): accompagnato dal dolore
stabile (o catastematico): caratterizzato dall’assenza di
dolore
Lezione 3
• Secondo Epicuro la vera felicità può essere intesa solo in senso
negativo, nel senso che è uno stato di piacevolissima assenza: non c’è
dolore nel corpo (ἀπονία, assenza di dolore; ἀ- priv. + πόνος, dolore)
e non c’è turbamento nell’anima (ἀταραξία, imperturbabilità; ἀ- priv.
+ tema di ταράσσω, sono agitato, sono turbato).
• Ora, la ricerca della felicità intesa come un sereno stato d’animo
determinato dall’atarassia e dall’aponia, implica una attenta
valutazione dei bisogni umani e dei piaceri ad essi connessi.
• Vi sono vari tipi di bisogni:
• I bisogni naturali e necessari devono essere soddisfatti, gli altri vanno
abbandonati.
Naturali e necessari Sono i normali bisogni della natura umana; in certi casi, se
non soddisfatti, possono anche provocare la morte (fame,
sete, sonno, etc.).
Naturali e non necessari Mangiare è un bisogno naturale e necessario; non è
necessario, invece, mangiare molto.
Non naturali e non
necessari
Sono bisogni indotti dai desideri tipici della vanità umana,
come la ricerca degli onori, del potere o della ricchezza.
• L’uomo davanti a ogni bisogno deve chiedersi quali saranno le
conseguenze e gli effetti di un suo eventuale appagamento.
• È perciò necessario un calcolo razionale dei piaceri per trovare di
volta in volta, attraverso una condotta saggia ed equilibrata, quelli più
stabili e vantaggiosi per l’esistenza umana.
• Questo calcolo razionale dei vantaggi e degli svantaggi implica scelte
e decisioni pratiche capaci di indirizzare nel modo migliore il
comportamento umano. Esso è la via per la più elevata delle virtù.
• Il tipo di piacere che Epicuro ritiene sia da preferirsi è dunque in
armonia con le vere necessità della natura umana. Nella sua
delicatezza e stabilità è lontano da ogni forma di edonismo estremo,
sfrenato e senza limiti. È un piacere sottile originato da un profondo
equilibrio interiore che consente di godere la vita assaporando la
tranquillità che proviene dall’assenza di dolore (ἀπονία) e di
turbamento (ἀταραξία).
Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei
goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo
interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno. Perché
non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto
quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame
delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per
l'animo causa di immensa sofferenza.
Epicuro, Lettera a Meneceo
• Va precisato che il piacere è sempre di tipo corporeo, infatti Epicuro
riteneva che tutto ciò che esiste è fatto di atomi materiali. Anche la
mente è costituita da atomi, sebbene sottili e rotondi, e perciò
particolarmente mobili e adatti alle funzioni che debbono svolgere.
• Di conseguenza c’è uno stretto legame tra i sensi e il piacere:.
Per mio conto io non so concepire che cosa è il bene, se prescindo dai piaceri del gusto, dai
piaceri d'amore, dai piaceri dell'udito, da quelli che derivano dalle belle immagini percepite dagli
occhi e in generale da tutti i piaceri che gli uomini hanno dai sensi. Non è vero che solo la
gioia della mente è un bene; giacché la mente si rallegra nella speranza dei piaceri sensibili,
nel cui godimento la natura umana può liberarsi al dolore.
Epicuro, Sul fine
• La scuola di Epicuro era aperta a tutti, uomini, donne e schiavi, e in
essa si praticavano rapporti improntati all’amicizia. Infatti, nella
visione di Epicuro, l’amicizia è una delle fonti privilegiate del piacere
di vivere.
• Inizialmente i legami tra gli individui nascono avendo di mira l’utile e
il vantaggio personale, ma una volta che emergono sentimenti più
profondi tali legami diventano un bene in sé, dando luogo all’amicizia
vera e propria, quella sincera e disinteressata, in cui è più piacevole
dare che ricevere.
.
Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l'acquisto
dell'amicizia.
Epicuro, Massime Capitali, XXVII
• .
 Arthur Schopenhauer
• Schopenhauer (Danzica, 1788 – Francoforte,
1860), pur essendo autore di vari lavori di
rilievo, dedicò molti dei suoi sforzi di
scrittore a un’opera intitolata Il mondo come
volontà e rappresentazione (Die Welt als
Wille und Vorstellung), della quale curò ben
tre edizioni: la prima del 1818, la seconda
del 1844, ampliata con i Supplementi, e la
terza del 1859.
Arthur Schopenhauer
.
• Neanche la seconda edizione fu
particolarmente fortunata, ma solo
fino al 1851, anno della pubblicazione
di Parerga e paralipomena1, un’opera
di taglio più divulgativo, a cui invece
arrise un notevole successo che finì
per coinvolgere anche Il mondo, le cui
copie risulteranno esaurite nel 1858 e
sarà perciò necessario approntare
l’edizione del 1859.
________________________
1 Il titolo ha il significato di "Cose secondarie e tralasciate".
Frontespizio di Die Welt als Wille und Vorstellung,
seconda edizione ampliata, 1844
• .
Frontespizio di Parerga und Paralipomena, 1851
• Sebbene già dagli anni quaranta si fosse
costituita attorno a Schopenhauer una
cerchia di fedeli ammiratori del suo
pensiero, egli conobbe solo negli ultimi
nove anni della sua vita il successo di
pubblico, che fu sì tardivo ma anche
durevole, dato che continua fino ai giorni
nostri.
• Schopenhauer – proponendo una personale rielaborazione della
gnoseologia kantiana – ritiene che possiamo conoscere il mondo dei
fenomeni solo attraverso la mediazione di tre grandi quadri
intellettuali, ossia le forme a priori di spazio, tempo e causalità
(relazione causa-effetto).
Schopenhauer:
le forme a priori
SPAZIO
TEMPO
CAUSALITÀ
 Excursus: le forme a priori in Kant e Schopenhauer
• Nella Critica della Ragione Pura (1781; 1787), Kant sostiene che la conoscenza della realtà è
data non solo dagli stimoli che il mondo esterno invia al soggetto conoscente, ma anche
dalle strutture mentali che rendono possibile ricevere tali stimoli ed elaborarli, dando loro
ordine e coerenza.
• Tali strutture sono delle vere e proprie condizioni necessarie del conoscere, senza le quali
non sarebbe possibile nessun atto conoscitivo. Kant denomina tali condizioni con il termine
generale di Forme a priori, distinguendo le Forme a priori dell’intuizione – che consentono la
conoscenza sensibile – e le Categorie, o Forme a priori dell’intelletto, che operano sul piano
della conoscenza intellettuale.
• Per Kant le forme a priori dell’intuizione sono due, Spazio e Tempo, mentre quelle
dell’intelletto (o Categorie) sono dodici. Schopenhauer conserva le prime due, ma riduce le
dodici categorie a una, la Causalità, peraltro compresa nell’elenco delle categorie da Kant
stesso, ritenendo che essa sussuma in sé tutte le altre.
Fine dell’excursus
Le Forme a priori secondo Schopenhauer
Spazio Tempo Causalità
Kant: le Forme a priori dell’intelletto o Categorie
Quantità Qualità Relazione Modalità
Unità Realtà
Dell’inerenza e sussistenza
(Sostanza e Accidente) Possibilità-Impossibilità
Pluralità Negazione
Della causalità e dipendenza
(Causa ed Effetto)
Esistenza-Inesistenza
Totalità Limitazione Della comunanza
(Azione reciproca tra agente e paziente)
Necessità-Contingenza
Kant: le Forme a priori dell’intuizione (condizioni della conoscenza sensibile)
Spazio
(forma del senso esterno)
Tempo
(forma del senso interno)
• Relativamente allo studio dei fenomeni, il sapere scientifico è la
forma di conoscenza più evoluta in nostro possesso. Ma proprio
perché tale conoscenza è il risultato dei quadri mentali del soggetto
conoscente, essa non è in grado di cogliere le cose come sono in se
stesse, ma solo come appaiono a noi, così come ce le
rappresentiamo.
Il mondo è una mia rappresentazione.
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 1
• .
• La nostra conoscenza del mondo
materiale, ossia la rappresentazione che
di esso otteniamo attraverso le nostre
facoltà conoscitive, può essere paragonata
ad una visione, sfocata e alterata, prodotta
da vetri deformanti. Tale conoscenza,
sostiene Schopenhauer, influenzato da
Platone e dalla sapienza indiana, è al
fondo illusoria.
• Riprendendo un’immagine presente nei
Veda e nelle Upaniṣad, Schopenhauer
afferma che i fenomeni, ovvero il mondo
come ci appare, altro non sono che l’esito
M. C. Escher, Mano con sfera riflettente (1935)
• I sensi, l’intelletto e la ragione, non riuscendo a squarciare il velo
della māyā e non potendo quindi andare oltre la dimensione spazio-
temporale del fenomeno, non saranno mai in grado di comprendere
la cosa in sé, ossia la vera realtà delle cose.
dell’azione della māyā, la potenza illusionante e ingannatrice che ha
originato il mondo materiale.
È māyā, il velo dell’illusione, che ottenebra le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo
di cui non si può dire né che esista né che non esista; il mondo infatti è simile al sogno, allo
scintillio della luce solare sulla sabbia, che il viaggiatore scambia da lontano per acqua,
oppure ad una corda buttata per terra ch’egli prende per un serpente.
Ivi, I, 3
• Ma noi non siamo fatti solo di pensieri, di riflessioni e ragionamenti
astratti: abbiamo anche un corpo, che è ciò che ci radica nel mondo e
ci costituisce come individui.
• Il corpo è un fenomeno tra i vari fenomeni, ma è anche il nostro
corpo, e in base a ciò abbiamo la possibilità di auscultarlo dal di
dentro, di viverlo direttamente e immediatamente.
In realtà sarebbe impossibile trovare il significato di questo mondo che ci sta dinanzi come
rappresentazione […] se colui che ricerca non fosse nient’altro che un puro soggetto conoscente
(una testa d’angelo alata, senza corpo). Ma il ricercatore ha la sua radice nel mondo; ci si trova
come i n d i v i d u o, e cioè la sua conoscenza […] è necessariamente condizionata dal corpo […]
Ivi, II, 18
• Vissuto dal di dentro, il nostro corpo si rivela a noi come
un’incessante groviglio di impulsi, un continuo desiderare, una
infinita e multiforme rete di bisogni. Il bisogno è inestinguibile:
quando accade che riusciamo a soddisfarne uno, eccone subito
pronto un altro a richiamare la nostra attenzione e a richiedere con
urgenza di essere appagato. E così via. Sembra che la nostra esistenza
sia caratterizzata da un inesausto volere che ha radici nel pulsare
stesso della vita che anima il nostro corpo.
• L’esito generale di questo indomabile impulso a volere è il dolore.
Non si tratta solamente di un’emozione provocata in noi da vicende
avverse, bensì di uno stato che costantemente caratterizza l’esistenza
umana: la vita è dolore.
• Quindi, il bisogno pressante e continuo che accompagna l’uomo, lo
porta a volere senza posa, e di conseguenza a soffrire.
• Ma è l’uomo il diretto responsabile di questo inesausto volere?
• In realtà è il mondo stesso nella sua totalità che è affetto da questa
continua tensione a essere, da questo divenire caotico e senza posa.
L’intero universo è il prodotto di una forza cosmica che lo ha originato
e lo determina. Questo principio cosmico non a caso è chiamato da
Schopenhauer Volontà di vivere o, semplicemente, Volontà.
• Diamo uno sguardo d’insieme al percorso compiuto fin qui. Il mondo
è il prodotto delle più immediate facoltà conoscitive di cui uomini e
animali sono dotati: quella spazializzante (spazio), quella
temporalizzante (tempo) e quella intellettiva, capace di stabilire
rapporti di causa ed effetto (causalità).1 All’interno di queste
coordinate il mondo appare al soggetto conoscente come un insieme
di fenomeni: il mondo come rappresentazione.
• Schopenhauer ritiene però, in linea con Platone e con la sapienza
indiana, che il mondo fenomenico sia illusorio e paragonabile a un
velo che nasconde la vera realtà.
________________________
1 L’essere umano è dotato anche di ragione, facoltà superiore che permette il pensiero concettuale. In questa sede tralasciamo tale aspetto.
• Auscultando il nostro corpo abbiamo però scoperto che una fitta
trama di bisogni lo agita e lo porta continuamente e dolorosamente
a volere: la vita è dolore.
• Riflettendo su questi aspetti e comprendendo che questa tensione a
volere non è solo un problema umano ma che è insita nella totalità
dell’essere, abbiamo così potuto scostare il velo della māyā e divenire
consapevoli della cosa in sé, ossia della vera realtà delle cose: il
mondo come Volontà.
.
• La Volontà è una forza inconscia e cieca (II, 27) che nel suo impulso
ad essere ha prodotto ogni cosa, e in ogni cosa manifesta
l’irrazionalità e il dissidio interno che la caratterizza. Ecco perché in
ogni aspetto dell’universo vi è lotta e contesa, come appare chiaro
anche dall’osservazione della natura a noi prossima.
Soltanto con la riflessione è possibile oltrepassare il fenomeno e pervenire alla c o s a i n s é.
Fenomeno è rappresentazione, e nulla più; e ogni rappresentazione, ogni o g g e t t o di qualsiasi
specie, è f e n o m e n o. C o s a i n s é è soltanto la v o l o n t à, che a tal titolo non è affatto
rappresentazione, l’oggetto, anzi ne differisce toto genere: la rappresentazione, l’oggetto, non ne
sono che il fenomeno, la visibilità, l’o g g e t t i t à. La volontà è la sostanza intima, il nocciolo di ogni
cosa particolare e del tutto: è la volontà quella che appare nella forza naturale cieca, ed è ancora
volontà quella che si manifesta nella condotta ragionata dell’uomo; l’enorme differenza che separa i
due casi concerne solo il grado della manifestazione, non l’essere di ciò che si manifesta.
Ivi, II, 21
• .
• La lotta, il dissidio e il conflitto presenti in ogni aspetto dell’universo
producono una sofferenza universale: il dolore è cosmico.
Nella natura vediamo dunque dappertutto lotta, conflitto e alternarsi di vittorie. […] Questa
lotta si può constatare in tutta la scala della natura: ed anzi, la natura stessa non è che una
lotta […] ora questa lotta non è che la manifestazione del contrasto che lacera internamente
la Volontà. Questo conflitto universale si rivela nel modo più eloquente nel mondo degli
animali, […] infatti un essere vivente non può mantenersi in vita se non a spese di un altro.
[…] L’esempio più soprendente [scil. della sopraffazione che mette un essere contro un altro]
del genere ci è dato dalla formica-mastino (bulldog-ant) che si trova in Australia; se la si
taglia in due, si impegna subito una lotta tra la testa e la coda; la prima afferra con le sue
mandibole la seconda, e questa si difende bravamente col suo pungiglione: la lotta di solito
dura una mezz’ora, fino a che i due litiganti non muoiono o non vengono trascinati via da
altre formiche.
Ivi, II, 27
• Ma tale dolore cosmico si manifesta nella sua espressione più acuta
nell’uomo, perché solo esso, a vario livello, è consapevole della
propria sofferenza e della morte finale che, prima o poi, lo attende.
• Schopenhauer non nega che un qualche grado di consapevolezza del
soffrire sia presente anche negli animali (forma di vita che egli guarda
sempre con considerazione e rispetto), ma la coscienza di cui è dotato
espone l’uomo a un dolore più intenso. E gli uomini più intelligenti e
dotati di maggiore capacità di riflessione sono quelli destinati a
soffrire maggiormente.
• Schopenhauer non nega che l’uomo possa provare piacere, ma esso è
solo una momentanea cessazione del dolore. Il dolore è la condizione
stabile dell’essere umano; esso si calma brevemente solo quando
riusciamo ad appagare un desiderio: il piacere che ne nasce è però
temporaneo e si perde nell’apparire di nuovi bisogni. .aspiri
[…] ciò che nella natura incosciente possiamo scoprire soltanto con acume e fatica, ci appare
chiaramente nella natura consapevole, nella vita degli animali, di cui è facile dimostrare il
soffrire continuo. Ma senza indugiarci su questo gradino intermedio, veniamo alla vita umana,
dove tutto appare con la massima chiarezza, nella luce della coscienza più distinta. Infatti,
quanto più perfetto è il fenomeno della Volontà, tanto più manifesto è il soffrire. Dunque:
mano che la conoscenza diviene più distinta e che la coscienza si eleva, cresce anche il
tormento, che nell’uomo raggiunge quindi il grado più alto, e tanto più alto, quanto più l’uomo
è intelligente; l’uomo di genio è quello che soffre di più.
Ivi, IV, 56
• Il piacevole appagamento momentaneo di un bisogno può anche
trasformarsi in noia, stato temibile in cui si avverte l’assenza di
motivazione e di uno scopo a cui tendere. La noia dura fino a quando
non appare un nuovo bisogno, che fa ripartire da capo questa
sconcertante oscillazione della vita umana.
• La questione può essere vista anche da un punto di vista più
generale: se pure potessimo liberarci dai bisogni e dal dolore che essi
comportano, altro non resterebbe che il grande vuoto della noia.
La sua vita [scil. dell’individuo umano] oscilla dunque, come un pendolo, fra dolore e noia, che
sono infatti i suoi due costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo aver
ricacciato nell’inferno dolori e supplizi non trovarono che restasse, per il cielo, niente all’infuori
della noia.
Ivi, IV, 57
.
«La vita umana è oscillare perpetuo fra il dolore
e la noia.» (ibid.)
La vita di ogni uomo scorre tra il desiderio e la
soddisfazione. Il desiderio è per sua natura dolore: la
soddisfazione si traduce presto in sazietà. Il fine, in
sostanza, è illusorio: col possesso svanisce ogni attrattiva; il
desiderio rinasce in forma nuova e, con esso, il bisogno;
altrimenti, ecco la monotonia, il vuoto, la noia, nemici
altrettanto terribili quanto il bisogno. Quando il desiderio e
la soddisfazione si seguono a intervalli non troppo lunghi né
troppo brevi, la sofferenza che deriva da entrambi è ridotta
al suo minimum e si ha la vita più felice.
Ibid.
• Il passo citato conferma la possibilità del piacere e quella, nei casi più
fortunati, di una relativa felicità. Ma il dolore resta comunque la
dimensione più stabile di ogni esistenza.
• L’indagine di Schopenhauer ha rivelato la presenza costante del
dolore come dimensione costitutiva non solo della realtà umana, ma
di tutto l’essere. Tale sofferenza è universale ed ineliminabile e
conduce Schopenhauer ad assumere una posizione di radicale
pessimismo, che non va inteso solo in senso psicologico, ma
metafisico, rivolto com’è all’essere nella sua totalità.
Ma nonostante quel che la natura e la fortuna abbiano potuto fare per l’uomo, chiunque sia e
qualunque cosa possieda, il dolore, essenza stessa della vita, non si potrà mai estirpare.
[…] Se infine riusciremo a scongiurare anche la noia, sarà ben difficile che il dolore non si
ripresenti sotto una delle altre forme: così la danza ricomincerà daccapo, perché, ripetiamo, la vita
umana è un oscillare perpetuo fra il dolore e la noia.
Ibid.
.
• Potrebbe sembrare, a questo punto, che il suicidio sia una possibilità
estrema per sottrarsi a tale stato di cose. Schopenhauer è, invece,
nettamente contrario a questa soluzione, perché togliersi la vita
equivarrebbe a un’ultima e finale forma di volere (il volere darsi la
morte), costituendo quindi una definitiva affermazione della Volontà.
E questa impossibilità di salvezza è lo specchio dell’indomabilità del volere, di cui la nostra
persona è l’oggettivazione. Se non c’è potenza esteriore capace di modificare la Volontà o di
sopprimerla, tanto meno ci sarà una forza estranea che possa liberala dai suoi tormenti, la
sorgente dei quali è nella vita, che è manifestazione della stessa Volontà.
[…] Aggiungerò solo che l’ o t t i m i s m o, quando non sia chiacchiera vuota in bocca di
persone il cui stupido cervello sia capace soltanto di parole, mi sembra un’opinione, non
soltanto assurda, ma veramente e m p i a; un odioso dileggio di fronte alle inesprimibili
sofferenze dell’umanità.
Ivi, IV, 59
Ben lungi dall’essere negazione della Volontà, il suicidio è il fenomeno di una sua più energica
affermazione. La negazione, infatti, non consiste in un orrore dei mali della vita, ma nell’odio
dei suoi piaceri. Il suicida vuole la vita: soltanto non è soddisfatto delle condizioni in cui gli si
offre. Distruggendo il singolo fenomeno, il suicida non rinuncia dunque alla volontà di vivere,
ma unicamente al vivere.
Ivi, IV, 69
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato
• Anche l’amore, atteso e ricercato dagli esseri umani per i piaceri che
esso comporta, è per Schopenhauer un fenomeno illusorio, dietro il
quale si nasconde il più sottile tranello teso dalla Volontà. Questa,
infatti, come forza che tende inesausta all’affermazione della vita,
usa l’attrazione che si genera tra gli individui al fine della
riproduzione e perpetuazione della specie.
• Allora, se scostiamo l’ingannevole velo della māyā, anche l’amore più
etereo è al fondo il prodotto dell’istinto sessuale.
.
Appendice
• Se così stanno le cose, potrà mai l’uomo liberarsi dalle spire della Volontà e
dal dolore che essa determina?
Ogni innamoramento infatti, per quanto etereo possa apparire, è radicato esclusivamente
nell’istinto sessuale, anzi non è nient’altro che istinto sessuale più determinato, più
specializzato, meglio individuato, nel senso più rigoroso del termine.
[…] In definitiva, ciò che attira con tanta esclusività e con tanta forza due individui di sesso
diverso l’uno verso l’altro, è la volontà di vivere dell’intera specie, la quale anticipa un
oggettivazione della sua essenza, corrispondente ai suoi fini, nell’individuo che la coppia può
generare.
Ivi, Supplementi al IV libro, 44
• Nonostante il pessimismo metafisico che lo anima, la risposta di
Schopenhauer è sorprendentemente positiva, sebbene le soluzioni che egli
propone non siano facili a praticarsi.
• In primo luogo, potremmo provare a lenire i mali che ci affliggono
affrontandoli con un atteggiamento di rassegnazione e di stoica
indifferenza. Non si può lottare contro l’ordine delle cose, perciò sarebbe
buona cosa accettare che vivere significa fare l’esperienza del dolore e non
dare a tutto ciò più peso di quello che merita (cfr. IV, 57).
• In secondo luogo, possiamo tentare di liberarci dalla stessa Volontà, causa
prima del dolore, mediante l’arte (che ci apre alla bellezza, opposta agli
orrori del mondo comune), o praticando l’amore disinteressato (differente
da quello erotico sentimentale, perché capace di vincere l’egoismo e
spingere a fare del bene al nostro prossimo), fino ad arrivare a forme di
ascesi che solo i santi e i saggi dell’Oriente hanno saputo attuare: il dominio
dei bisogni del corpo e la castità perfetta. La vita ascetica intende
contrastare la Volontà sul suo stesso piano: rinunciando ai bisogni del
corpo, si estingue ogni volere e si impedisce l’azione della Volontà.
• Ognuno di questi punti meriterebbe un adeguato approfondimento,
considerati però i limiti della presente trattazione, ci fermiamo solamente a
questi brevi cenni, rimandando ad altra sede un esame più approfondito
dell’argomento.
.
 Søren Aabye Kierkegaard
• Kierkegaard (Copenaghen, 1813 - 1855) ha
posto al centro della sua riflessione il tema
dell’esistenza singola, quella del concreto
individuo colto nella sua problematica
dimensione vitale.
• L’esistenza singola è un fascio di possibilità
che contiene in sé il piacere, il dolore, ma
anche l’angoscia e la disperazione, insieme a
una grande esigenza di salvezza e
liberazione.
N. C. Kierkegaard: ritratto di S. Kierkegaard
• Nella nostra analisi prenderemo in considerazione alcuni aspetti del
pensiero di Kierkegaard che si ritrovano in una delle sue opere più
note, Aut-Aut (Enten-Eller), pubblicata nel 1843 sotto lo pseudonimo
di Victor Eremita.
• Enten-Eller significa "o…o" e indica quindi una disgiunzione, ma di
tipo esclusivo: o una cosa o un’altra, ma non tutte e due. Questa
disgiunzione esclusiva è espressa in latino con aut, ecco perché il
traduttore italiano ha intitolato in tal modo l’opera.1
________________________
1 La disgiunzione inclusiva è invece espressa in latino con vel : o una cosa, o l’altra o, anche, tutt’e due.
• Il titolo dell’opera trova la sua
motivazione nel fatto che l’autore
intende presentarci due forme di
esistenza opposte e inconciliabili:
quella dell’esteta-seduttore (Enten) e
quella del marito fedele (Eller). Con
maggiore precisione possiamo dire
che l’opposizione è tra la vita estetica
e la vita etica. Noi ci concentreremo
sulla prima forma di vita perché offre
una serie di spunti utili ad
approfondire il tema che ci siamo dati.
Frontespizio della prima edizione di Enten-Eller
• In termini generali, l’esteta è attratto dal piacere e dalla bellezza, che
ricerca continuamente, senza mai impegnarsi con niente e nessuno,
evitando qualsiasi scelta che possa fermare il flusso delle occasioni.
• Kierkegaard tratteggia la figura dell’esteta proponendo tre esistenze
singole impersonate da Don Juan, Johann Georg Faust e Johannes.
Due Giovanni (o forse tre, dato che il nome di Faust è incerto) sono
quindi scelti da Kierkegaard, certamente non a caso, per delineare
questa forma di esistenza. È forse un segno di come ognuno di questi
personaggi offra una differente interpretazione della medesima vita
estetica, mostrandone le varie sfaccettature e possibilità.
• Don Juan è una figura le cui origini si
perdono nella leggenda. Nei documenti
scritti fa la sua comparsa in un dramma
attribuito allo spagnolo Tirso de Molina
(pseudonimo di Gabriel Téllez, 1579-
1648), El burlador de Sevilla y convidado
de piedra (1616). Il personaggio è stato
poi ripreso da Molière (Dom Juan ou Le
Festin de pierre, 1665) e da molti altri
Don Juan raffigurato con una delle sue conquiste in un
disegno di I. R. Cruikshank (1789-1856)
autori di rilievo, ma il suo nome resta soprattutto legato all’opera di
W. A. Mozart, Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, K 527(1787),
su libretto di Lorenzo da Ponte. A questo lavoro fa particolare
riferimento Kierkegaard.
• Don Giovanni incarna la ricerca del piacere così come esso si dà
nell’attimo della conquista e del godimento erotico. È un attimo la cui
bellezza egli vuole ripetere all’infinito e sempre uguale, pur nelle
diverse e innumerevoli donne che seduce.
• Secondo Kierkegaard, Don Giovanni non ha interesse per la singola
donna, nella quale cerca la femminilità in se stessa, che è ciò che
veramente l’attrae.
Don Giovanni è […] fondamentalmente un seduttore. Il suo amore non è psichico ma sensuale, e
l’amore sensuale secondo il suo concetto non è fedele, ma assolutamente privo di fede, non ama
una ma tutte, vale a dire seduce tutte. Esso è infatti soltanto nel momento, ma il momento è
concettualmente pensato come la somma dei momenti, e così abbiamo il seduttore.
S. Kierkegaard, Enten-Eller , I, Gli stati erotici immediati
• La musica riesce a rappresentare perfettamente il carattere di Don
Giovanni, perché come lui esprime un contenuto universale, non
questo o quel sentimento, ma il sentimento in generale.
• Possiamo vedere e ascoltare quest’incontro tra musica e Don
Giovanni nell’omonima opera di Mozart, dove l’essere macchina da
conquista e quasi «forza della natura»(ibid.) del protagonista emerge
in passaggi come il seguente.
La musica è adattissima a far questo perché è di gran lunga più astratta del linguaggio, e quindi
non dice il singolare ma l’universale in tutta la sua universalità, e tuttavia dice quest’universalità
non nell’astrazione della riflessione ma nella concrezione dell’immediatezza.
Ibid.
• .
• Nel giudizio di Kierkegaard, la vita di Don Giovanni, frazionata negli
attimi delle sue conquiste erotiche, è priva di una vera continuità.
Egli può affermare il proprio io solo in questa incessante ripetizione,
alla continua ricerca di conferme del suo potere seduttivo. Questo
fluire incessante manca della stabilità necessaria al costituirsi di una
vera soggettività e non riesce a creare una autentica personalità.
Madamina, il catalogo è questo
delle belle che amò il padron mio […]
Osservate, leggete con me.
In Italia seicento e quaranta;
In Almagna duecento e trentuna;
Cento in Francia, in Turchia novantuna;
ma in Spagna son già mille e tre.
W.A. Mozart, Don Giovanni (libretto di L. Da Ponte), aria di Leporello, atto I, scena 5
• .
S. Dalla Rosa, W. A. Mozart, 1770
Questo ritratto di Mozart quattordicenne fu fatto
nella tappa veronese del suo primo viaggio in Italia.
In alto: locandina della prima rappresentazione
del Don Giovanni, Praga, 29 ottobre 1787.
A sinistra: L. Da Ponte in una incisione di M.
Pekenino (da un ritratto di N. Rogers)
• Ma forse Don Giovanni, succubo com’è della potenza dell’eros, non è
il vero seduttore.
• Don Giovanni è puro istinto erotico. Non sa elaborare prima un piano
che anticipi l’azione e non è in grado poi di riflettere sugli esiti che
l’azione stessa ha prodotto.
Preferirei quindi definirlo un impostore […] Per essere seduttore occorre sempre una certa
riflessione e una certa coscienza, ed è solo quando queste sono presenti che può essere
appropriato parlare di scaltrezza, di mosse e di abili assalti. Questa coscienza manca a Don
Giovanni. Egli perciò non seduce. Egli desidera, ed è questo desiderio ad avere un effetto
seducente, in tal senso egli seduce. Egli gode dell’appagamento del desiderio; appena ne ha
goduto cerca un nuovo oggetto, e così all’infinito. Egli perciò inganna, certo, ma senza
organizzare il suo inganno in precedenza; è la potenza propria della sensualità a ingannare le
sedotte.
S. Kierkegaard, Enten-Eller , I, Gli stati erotici immediati
.
• A Don Giovanni manca la riflessione e l’uso
sapiente della potenza della parola,
elementi che devono caratterizzare il vero
seduttore. Questi aspetti si ritrovano invece
nelle figure di Faust e di Johannes.
• Il mito del dr. Faust ha origini remote e
forse si è originato a partire da un reale
personaggio storico. Abbiamo notizie di un
certo Magister Georg Sabellicus alias Faust
il giovane, in una lettera dell’abate
Johannes Trithemius (1462-1516), umanista
A. Kaulbach, Faust e Mepistofele
• C’è poi una Storia del Dr. Johan Fausten, pubblicata da Johann Spies (ca.
1540-1623) nel 1587, il cosiddetto Faustbuch, che fu in seguito tradotto in
inglese. Ed è proprio uno scrittore inglese a far entrare la figura di Faust
nella grande letteratura. Si tratta del poeta e drammaturgo Christopher
Marlowe (1564-1593) che, ispirandosi a The English Faust Book, diede vita a
The Tragical History of the Life and Death of Doctor Faustus (1589-92),
opera teatrale dove il dr. Faust appare con tutte le sue caratteristiche di
occultista avido di arcane conoscenze capaci di conferire grandi poteri e
disposto a vendere la sua anima al demonio pur di ottenerli.
________________________
1 La lettera dell’abate Trithemius (Johann Heidenberg), indirizzata all’astrologo e matematico Johann Wirdung (20 agosto 1507), menziona un certo Magister Georg Sabellicus, Faust der
Jüngere. Trithemius conobbe Sabellicus , ricevendone un‘impressione molto negativa e mette in guardia Wirdung dall‘incontrarlo, come era suo desiderio.
e grande esperto di arti occulte.1
• .
• Questo personaggio otterrà in seguito la sua
più grande consacrazione nel dramma in versi
di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832),
Faust, uno dei massimi capolavori della
letteratura mondiale, al quale l’autore lavorò,
a più riprese, dal 1772 al 1832.
• Goethe delinea la figura di Faust come quella
di un uomo di grande erudizione animato da
un inarrestabile desiderio di ricerca dei più J.K. Stieler, J.W. Goethe (1828)
nascosti segreti della realtà e dell’esistenza. È quest’ansia di conoscere
che lo porta a fare il patto con il demonio e ad esplorare i recessi
dell’animo umano.
.
• Ma il Faust di Goethe è assetato anche di
piacere e Mefistofele gliene promette in
misura incontenibile.
• In questa prospettiva vedremo Faust,
trasformato magicamente in giovane
cavaliere, che invoca l’aiuto di Mefistofele
per conquistare una fanciulla di nome
Margherita, candida e timorata di Dio, di
cui si è invaghito.
A. Scheffer, Faust e Margherita nel giardino, 1846
• Faust riuscirà nell’impresa, ma l’epilogo sarà tragico per la povera
Margherita. Non approfondiremo però la storia, perché ci interessa
tornare al pensiero di Kierkegaard e vedere le sue considerazioni sulla
figura di Faust come seduttore.
• Kierkegaard vede in Faust la sete di conoscenza, ma ritrova nel suo
atteggiamento anche il dubbio su ogni aspetto della realtà che gli
impedisce di trovare sicurezza e stabilità. Soprattutto però riconosce
in Faust l’aspetto della seduzione. Anche Faust è un seduttore e lo è
nel senso psichico, cerebrale. È seduttore di una sola donna,1
________________________
1 Va precisato che nell’opera di Goethe, Faust avrà in seguito una relazione con Elena di Troia, Atto III
.
• Tormentato dal suo patto col diavolo e dai dubbi che esso fa crescere
a dismisura fino alla disperazione, Faust
• La ricerca del rapporto erotico con Margherita è l’esito di una
riflessione interiore, di un calcolo cerebrale, motivato anche dalla
disperazione di Faust, per cui in lui
Margherita, che conquista e inganna con le sue doti intellettuali.
nel sensuale non tanto cerca il godimento quanto una distrazione […] dalla nullità del dubbio.
S. Kierkegaard, Enten-Eller, II, Silhouettes
l’erotico è già riflesso, qualcosa a cui egli si abbandona spinto dalla disperazione.
Ivi, III, Il diario del seduttore
• Faust riesce nella sua impresa di seduttore grazie, come abbiamo
detto, ai suoi mezzi intellettuali, ma questi si esprimono per mezzo
della parola, con la quale egli illude e inganna.
• Questo aspetto di pianificazione della strategia di conquista, tipico
del vero seduttore, il seduttore psichico, si ritrova, forse amplificato,
nella terza figura che Kierkegaard esamina, quella di Johannes, autore
della parte di Enten-Eller intitolata Diario del seduttore. È evidente
che qui la seduzione si fa anche scrittura.
• Johannes è pure lui alle prese con una sola donna, Cordelia, che
conquista e, infine, abbandona.
• Lo scopo di Johannes non è il possesso fisico dell’oggetto del
desiderio. Il piacere che egli cerca è sottile: si basa sull’immaginare,
sul godere nell’anticipare gli eventi così come prendono vita nella
fantasia o, anche, nel ricordare dopo le cose che il suo piano
seduttivo ha fatto accadere. La seduzione si trasforma in un opera
d’arte e il piacere che da essa scaturisce è un piacere estetico.
• Johannes è uno spettatore che si gode la bellezza di quell’opera d’arte
che è la sua seduzione. Non vuole impegnarsi, non vuole scegliere,
vuole lasciarsi aperte tutte le possibilità. Assapora l’istante.
• L’esteta non vuole scegliere mai, non intende assumere un ruolo e
un’identità precisa, rifugge da responsabilità sociali. È interessato
solo alla seduzione (fisica o fantasticata) e al piacere che da essa può
ricavare, esperienza che vuole ripetere sempre nuova e senza mai
fermarsi.
• Manca di ogni stabilità, ed è questo che alla fine costituisce il suo
dramma esistenziale: non riesce a costituirsi come io e come
persona. La sua esistenza si rivela essere senza sostanza e il piacere
lascia spazio a un’emozione che è ancora più forte del dolore: la
disperazione.
Appendice
• In realtà ogni vita, per Kierkegaard, combatte con due emozioni
ineludibili: l’angoscia e la disperazione.
• L’angoscia è legata al vivere stesso. Vivere infatti significa misurarsi
con un insieme di possibilità: possibilità che sì e possibilità che non.
Ed è proprio il non sapere che cosa ci riserva il futuro con le sue
possibilità che determina in noi la paura dell’ignoto, dell’indefinito,
dell’imponderabile.
• È una paura senza oggetto preciso, vuota e vaga, che proprio per
questo può atterrire l’individuo e sconcertarlo: l’angoscia è il
sentimento della pura possibilità.
• L’angoscia, pur con tutta la sua negatività e per quanto possa atterrire
e paralizzare, significa anche che si è vivi e che ci si misura le
occasioni e le circostanze della vita.
• Ben più temibile è la disperazione, perché essa rivela che non ci sono
più possibilità e che quindi non ci sono alternative alla situazione
senza uscita che si è determinata. La reazione del disperato è, infatti,
quella di chiedere se non vi sia un’altra possibilità. Se c’è possibilità,
la vita riprende.
.
Le emozioni fondamentali dell’uomo: Angoscia e Disperazione
UOMO
ANGOSCIA: il rapporto dell’uomo col Mondo
DISPERAZIONE: il rapporto dell’uomo con Se Stesso (la dimensione dell’IO)
• Giunto alla disperazione, l’esteta potrà avere un’altra possibilità? Una
forma di vita totalmente differente, capace di dare storia e continuità
all’individuo?
• Ebbene, nel corso di Enten-Eller, questa possibilità esiste ed è
rappresentata dalla vita etica, dove l’amore è quello coniugale e
l’esistenza si svolge nei doveri della famiglia e nell’assunzione di un
ruolo preciso nella società. Questo ideale è incarnato dalla figura del
giudice Wilhelm, il marito.
.
Illustrazione che ritrae Kierkegaard
(1845 ca.)
• In questo nostro percorso non tratteremo la vita
etica. Ci limitiamo solo a dire che anch’essa, pur
con tutti i suoi pregi e vantaggi, non riuscirà a
dare risposte esaurienti al desiderio di infinito
che c’è nell’essere umano. La ricerca di
Kierkegaard proseguirà in altre opere,
delineando una terza possibilità, quella della
fede nel Dio cristiano.
• Fede che non annulla l’angoscia della scelta, e che richiede un
combattimento continuo con i limiti umani e con il peccato. Fede che
ricerca un autentico rapporto con Dio, al di là delle mistificazioni e
delle versioni riposanti fornite dalle chiese ufficiali.
• Ma, forse, in una vita vissuta in tal modo c’è una
flebile e sempre incerta soluzione alla
disperazione umana: l’uomo non può salvarsi da
sé ma può abbandonarsi al potere salvifico di un
Dio che resta, comunque, misterioso e nascosto,
spesso incomprensibile per la ragione umana.
L. Janssen, Kierkegaard allo scrittoio
• .
Nel 1840 Kierkegaard si fidanza con Regine Olsen. Lei ha diciotto anni, lui ventisette. La ragazza lo ama e ha intenzione di sposarlo, ma
Kierkegaard, dopo averla conquistata, fa di tutto per allontanarla e per apparire sgradevole ai suoi occhi, arrivando dopo solo un anno a
rompere il fidanzamento. Kierkegaard, forse perché aveva alle spalle una drammatica esperienza familiare, funestata dalla morte della madre
e di cinque fratelli, vista come l’esito di una maledizione divina per le colpe del padre, avvertì l’impossibilità per sé di una vita felice in
compagnia di Regine e di eventuali figli. Kierkegaard non smetterà mai di pensare a Regine, che in seguito si sposerà con un altro uomo,
dedicando a lei le sue opere. La incontrerà l’ultima volta nel maggio del 1855, prossima alla partenza per le Antille, dove il marito era stato
nominato governatore. Solo pochi mesi dopo, ad ottobre, il filosofo morirà a causa dei postumi di una caduta, rifiutando l’estrema unzione,
ma lasciando la sua eredità a Regine. Aveva quarantadue anni.
Echi biografici: le coincidenze tra
il vissuto di Kierkegaard e la
figura di Johannes
• .
• BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
N.B.: quando l’ho ritenuto opportuno, ho fatto alcune lievi modifiche di traduzione dei testi citati. Ogni evidenziazione in grassetto è mia.
EPICURO, Opere. Frammenti. Testimonianze sulla sua vita, a cura di E. Bignone, Laterza, Roma-Bari 2003.
ID. Opere, a cura di M. Isnardi Parente, UTET, Torino 1974.
KIERKEGAARD, S. A., Enten-Eller, trad. di A. Cortese, 5 voll., Adelphi, Milano, 1976-1989.
ID. Le grandi opere filosofiche e teologiche, testo originale a fronte, trad. di C. Fabro, Bompiani, Milano, 2013.
OMERO, Iliade, testo greco a fronte, prefazione di F. Codino, versione di R. C. Onesti, Einaudi, Torino 1950.
ID. Odissea, testo greco a fronte, prefazione di F. Codino, versione di R. C. Onesti, Einaudi, Torino 1963.
PLATONE, Tutte le Opere, a cura di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1974.
ID. Opere complete, a cura di G. Giannantoni, 9 voll., Laterza, Roma-Bari 1983.
SCHOPENAUER A, Ueber di vierfache Wurzel des Satz vom zureichenden Grunde (1813), a cura di A. Vigorelli, La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente,
Guerini e Associati, Milano 2018.
ID. Die Welt als Wille und Vorstellung (1818-59), trad. e cura di A. Vigliani, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989.
ID. Parerga und Paralipomena: kleine philophischen Schriften (1845-50), a cura di G. Colli, Parerga e Paralipomena. Scritti filosofici minori, 2 voll., Adelphi, Milamo 1981.
.
Ideato e realizzato da
Renato Curreli
Docente di Filosofia e Storia
Liceo Classico Statale G. M. Dettori – Cagliari
Visita il mio sito didattico:
https://sites.google.com/view/lo-studio-della-filosofia/home
Nota: Testi e schemi grafici sono produzioni originali dell’autore. Laddove si facciano citazioni, si riporta la fonte ed eventualmente si rimanda alla bibliografia.
L’origine delle immagini è invece Internet, a cui si rinvia per il reperimento di ulteriori informazioni. L’autore quindi non possiede alcun diritto relativo a tali immagini e
ne ha fatto uso per puri e soli scopi didattici.

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Piacere e Dolore nell'esistenza umana

  • 1. . Piacere e dolore nell’esistenza umana Riflessioni sulla nostra condizione L. S. Ruhl, Arthur Schopenhauer
  • 4. • Fin dalla nascita l’essere umano deve misurarsi con la fatica dell’esistere, con il peso pressante dei bisogni fisici e psicologici, con la scontentezza provocata dalle carenze e dai desideri irrealizzati, con la tristezza del dolore, della malattia e della morte. • Ma, allo stesso tempo, una delle tendenze spontanee dell’esistenza umana è quella di cercare situazioni capaci di donare allegria, gioia e piacere. • Ben sapeva tutto questo lo stesso Omero il quale, in un passaggio dell’Odissea, fa dire ad Ulisse parole amare di dolore e, al tempo stesso, di gioia.
  • 5. • Ma è lo stesso Ulisse che poco prima aveva riconosciuto quanto la gioia possa colmare l’animo umano nelle occasioni che gli uomini stessi allestiscono affinché essa si manifesti. Molte angosce mi diedero gli dèi celesti • Ulisse è malinconicamente consapevole delle sue «tristi sventure» e delle sofferenze che, assieme ai singhiozzi, accompagnano la sua vita. Ritratto ideale di Omero (copia romana, II sec.)
  • 6. ________________________ 1 Per le parafrasi e le citazioni, cfr. Omero, Odissea, prefazione di F. Codino, versione di R. Calzecchi Onesti , Torino, Einaudi 1982; Libro Nono, 1-15, p. 229. […] non esiste momento più amabile di quando la gioia (εὐφροσύνη) regna tra il popolo tutto, e i convitati in palazzo stanno a sentire il cantore, seduti in fila; vicino son tavole piene di pani e di carni, e vino al cratere attingendo, il coppiere lo porta e lo versa nei calici: questa in cuore mi sembra la cosa più bella. 1 Pittore dei Niobidi, “Cratere a Calice” (Louvre) • Così sembra la vita umana: un alternarsi continuo di dolore e piacere.
  • 7. • Ma questa constatazione non ci esime dal chiederci quale dei due stati sembri caratterizzarla maggiormente: il dolore o il piacere? • E siamo poi sicuri che tali stati siano solo due? Perché non allargarci all’angoscia e alla disperazione? O forse anche alla dissolutezza più sfrenata? • Insomma, cosa caratterizza maggiormente la vita umana? e, di conseguenza, qual è il suo fine e cosa essa deve perseguire?
  • 8. • Per esplorare la tematica prenderemo in esame alcune riflessioni proposte dalla storia della cultura che, tra le molte possibili, ci paiono particolarmente significative e utili per accompagnarci in questo percorso. *
  • 9. • .  Epicuro di Samo • Epicuro, nativo di Samo (342 a.C.), nel 306 a.C. si stabilì ad Atene, città da cui proveniva la sua famiglia e della quale, per questo motivo, era cittadino a pieno diritto, e acquistò nella periferia della città una casa che divenne la sede della sua scuola filosofica. • La casa era dotata di un giardino (κῆπος) Epicuro di Samo ed è per questo motivo che si parlò di scuola del giardino e di filosofi del giardino.
  • 10. . • La scuola di Epicuro era aperta a tutti: liberi e schiavi, aristocratici o comuni cittadini, uomini e donne. • I suoi insegnamenti dovevano essere accolti in quanto tali e nessuno era autorizzato a modificarli. La scuola costituiva una comunità organizzata quasi religiosamente e la fedeltà a Epicuro era più importante di ogni personale ricerca ed elaborazione teorica.
  • 11. • Epicuro morì ad Atene nel 270 a.C. a causa di calcoli renali. I suoi ultimi momenti sono così descritti da Diogene Laerzio (180 – 240 d.C.): Morì di calcoli renali dopo quattordici giorni di malattia, come scrive Ermarco nelle lettere. Ermippo riferisce che Epicuro in punto di morte, entrato in una tinozza di bronzo piena di acqua calda, chiese del vino puro e lo bevve d'un fiato. Dopo aver raccomandato agli amici di non dimenticare il suo pensiero, spirò. Noi abbiamo scritto per lui questo epigramma: «"Siate felici e memori del mio pensiero", furono le ultime parole di Epicuro agli amici. Entrato nel calore della tinozza, con uno stesso sorso bevve vino puro e il freddo della morte. Tale fu la sua vita e tale la sua fine.» Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, Vita di Epicuro.
  • 12. Canonica: ricerca la regola (κανών) che consente di distinguere il vero dal falso, guidando l’uomo nel campo della conoscenza Fisica: mostra il vero funzionamento della natura al fine di liberare l’uomo dalla paura di forze misteriose e spaventevoli. Etica: si occupa di condurre l’uomo alla felicità, il vero scopo della vita umana. La filosofia di Epicuro si articola su tre piani Il sistema filosofico di Epicuro
  • 14. • In questa sede, ci soffermeremo in particolare sull’etica1, perché è questa branca della conoscenza che si occupa di indirizzare l’essere umano verso il vero scopo della propria esistenza, quello che i greci chiamavano ἀρετή (eccellenza, perfezione), e che nel caso della vita umana indica il bene più alto al quale essa può tendere. • Ora, questo sommo bene, verso il quale la riflessione etica ha il compito di guidarci, è per Epicuro la felicità. ________________________ 1 τὰ ἠϑικά (ciò che riguarda l’ ἦϑος, ossia il modo di comportarsi, di agire, il carattere, soprattutto in senso morale) indica lo studio dei valori morali e dei comportamenti ad essi relativi.
  • 15. • Ebbene, secondo Epicuro, la felicità si identifica con il piacere (ἡδονή) perché quest’ultimo è direttamente connesso con il bene, mentre il dolore lo è con il male. • La filosofia è la via per raggiungere la felicità, ma per conseguire questo scopo essa deve riuscire a liberare l’uomo dalle passioni, dai turbamenti e dalle opinioni errate su se stesso e sul mondo. • Il vero fine della filosofia non è tanto teoretico, bensì pratico, nel senso etico/morale, in quanto deve riuscire a orientare l’uomo verso quel piacere che si identifica col bene e la felicità.
  • 16. • Questa capacità orientante della filosofia è espressa da Epicuro con la parola φρόνησις, saggezza o prudenza, quell’accortezza sobriamente ragionata che consente di fare le scelte giuste in vista del vivere piacevole e felice. Tale prudenza può essere più importante della stessa filosofia intesa come sapere astratto a se stante. il principio e il più grande bene è la prudenza , la quale risulta perfino più preziosa della filosofia, poiché da essa nascono tutte le altre virtù, in quanto insegna che non è possibile vivere piacevolmente senza vivere anche in modo saggio, onorevole e giusto, e, viceversa, non è neppure possibile vivere in modo saggio, onorevole e giusto senza anche vivere piacevolmente. Infatti, le virtù hanno un legame naturale con il vivere piacevolmente, e il vivere piacevolmente è inseparabile dalle virtù. Epicuro, Lettera a Meneceo
  • 17. • Tra i consigli che Epicuro dispensa per realizzare una vita felice, quattro appaiono preliminari e di decisiva importanza. Sono comunemente denominati quadrifarmaco, perché il loro scopo è quello di costituire un quadruplice rimedio alle paure umane più comuni. • I precetti del quadrifarmaco corrispondono alle prime quattro delle quaranta Massime capitali (Κύριαι Δόξαι) che condensavano i principali insegnamenti di Epicuro (cfr. Diogene Laerzio, Vite, X, 139- 154). Il quadrifarmaco fa poi da sfondo alle riflessioni contenute nella Lettera a Meneceo, uno tra i più importanti scritti di Epicuro pervenutici. ________________________ 1 La parola quadrifarmaco deriva dal greco τό τετραφάρμακον/ἡ τετραφάρμακος(τετρα-, quattro; φάρμακον, medicina, rimedio) e, in origine indicava un impiastro molto utilizzato composto da cera, sego, pece e resina.
  • 18. Il quadrifarmaco 1. Paura degli dèi non bisogna avere paura degli dèi perché essi sono esseri perfetti che vivono nella loro beatitudine senza mai occuparsi delle vicende umane. 2. Paura della morte non bisogna temere la morte, perché essa non ha una vera realtà. Infatti quando noi ci siamo la morte non c’è, e quando essa sopravviene noi non ci siamo più . 3. Paura di non poter accedere al piacere Il piacere è intimamente connesso alla natura umana, e perciò è facilmente raggiungibile. 4. Paura del male Non bisogna aver paura del male, ovvero del dolore, dato che se lieve sarà sopportabile, se acuto sarà di breve durata, se acutissimo condurrà alla morte, che è uno stato di insensibilità dove scomparirà ogni dolore.
  • 19. • L’uomo che impara ad applicare il τετραφάρμακον troverà la calma interiore e conseguirà la felicità, per quanto la vita possa essere tormentosa. • Sappiamo già che per Epicuro il bene e la felicità si identificano col piacere, ma di quale piacere si tratta? Il piacere è espressione della vita, intesa nella sua naturale fisicità, perciò è sempre un bene. Il problema è che alcuni piaceri comportano il dolore, perciò bisogna distinguere tra due tipi di piacere, quello dinamico e quello stabile.
  • 20. . Piacere dinamico (o in movimento): accompagnato dal dolore stabile (o catastematico): caratterizzato dall’assenza di dolore
  • 22. • Secondo Epicuro la vera felicità può essere intesa solo in senso negativo, nel senso che è uno stato di piacevolissima assenza: non c’è dolore nel corpo (ἀπονία, assenza di dolore; ἀ- priv. + πόνος, dolore) e non c’è turbamento nell’anima (ἀταραξία, imperturbabilità; ἀ- priv. + tema di ταράσσω, sono agitato, sono turbato). • Ora, la ricerca della felicità intesa come un sereno stato d’animo determinato dall’atarassia e dall’aponia, implica una attenta valutazione dei bisogni umani e dei piaceri ad essi connessi.
  • 23. • Vi sono vari tipi di bisogni: • I bisogni naturali e necessari devono essere soddisfatti, gli altri vanno abbandonati. Naturali e necessari Sono i normali bisogni della natura umana; in certi casi, se non soddisfatti, possono anche provocare la morte (fame, sete, sonno, etc.). Naturali e non necessari Mangiare è un bisogno naturale e necessario; non è necessario, invece, mangiare molto. Non naturali e non necessari Sono bisogni indotti dai desideri tipici della vanità umana, come la ricerca degli onori, del potere o della ricchezza.
  • 24. • L’uomo davanti a ogni bisogno deve chiedersi quali saranno le conseguenze e gli effetti di un suo eventuale appagamento. • È perciò necessario un calcolo razionale dei piaceri per trovare di volta in volta, attraverso una condotta saggia ed equilibrata, quelli più stabili e vantaggiosi per l’esistenza umana. • Questo calcolo razionale dei vantaggi e degli svantaggi implica scelte e decisioni pratiche capaci di indirizzare nel modo migliore il comportamento umano. Esso è la via per la più elevata delle virtù.
  • 25. • Il tipo di piacere che Epicuro ritiene sia da preferirsi è dunque in armonia con le vere necessità della natura umana. Nella sua delicatezza e stabilità è lontano da ogni forma di edonismo estremo, sfrenato e senza limiti. È un piacere sottile originato da un profondo equilibrio interiore che consente di godere la vita assaporando la tranquillità che proviene dall’assenza di dolore (ἀπονία) e di turbamento (ἀταραξία). Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno. Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l'animo causa di immensa sofferenza. Epicuro, Lettera a Meneceo
  • 26. • Va precisato che il piacere è sempre di tipo corporeo, infatti Epicuro riteneva che tutto ciò che esiste è fatto di atomi materiali. Anche la mente è costituita da atomi, sebbene sottili e rotondi, e perciò particolarmente mobili e adatti alle funzioni che debbono svolgere. • Di conseguenza c’è uno stretto legame tra i sensi e il piacere:. Per mio conto io non so concepire che cosa è il bene, se prescindo dai piaceri del gusto, dai piaceri d'amore, dai piaceri dell'udito, da quelli che derivano dalle belle immagini percepite dagli occhi e in generale da tutti i piaceri che gli uomini hanno dai sensi. Non è vero che solo la gioia della mente è un bene; giacché la mente si rallegra nella speranza dei piaceri sensibili, nel cui godimento la natura umana può liberarsi al dolore. Epicuro, Sul fine
  • 27. • La scuola di Epicuro era aperta a tutti, uomini, donne e schiavi, e in essa si praticavano rapporti improntati all’amicizia. Infatti, nella visione di Epicuro, l’amicizia è una delle fonti privilegiate del piacere di vivere. • Inizialmente i legami tra gli individui nascono avendo di mira l’utile e il vantaggio personale, ma una volta che emergono sentimenti più profondi tali legami diventano un bene in sé, dando luogo all’amicizia vera e propria, quella sincera e disinteressata, in cui è più piacevole dare che ricevere.
  • 28. . Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l'acquisto dell'amicizia. Epicuro, Massime Capitali, XXVII
  • 29. • .  Arthur Schopenhauer • Schopenhauer (Danzica, 1788 – Francoforte, 1860), pur essendo autore di vari lavori di rilievo, dedicò molti dei suoi sforzi di scrittore a un’opera intitolata Il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Vorstellung), della quale curò ben tre edizioni: la prima del 1818, la seconda del 1844, ampliata con i Supplementi, e la terza del 1859. Arthur Schopenhauer
  • 30. . • Neanche la seconda edizione fu particolarmente fortunata, ma solo fino al 1851, anno della pubblicazione di Parerga e paralipomena1, un’opera di taglio più divulgativo, a cui invece arrise un notevole successo che finì per coinvolgere anche Il mondo, le cui copie risulteranno esaurite nel 1858 e sarà perciò necessario approntare l’edizione del 1859. ________________________ 1 Il titolo ha il significato di "Cose secondarie e tralasciate". Frontespizio di Die Welt als Wille und Vorstellung, seconda edizione ampliata, 1844
  • 31. • . Frontespizio di Parerga und Paralipomena, 1851 • Sebbene già dagli anni quaranta si fosse costituita attorno a Schopenhauer una cerchia di fedeli ammiratori del suo pensiero, egli conobbe solo negli ultimi nove anni della sua vita il successo di pubblico, che fu sì tardivo ma anche durevole, dato che continua fino ai giorni nostri.
  • 32. • Schopenhauer – proponendo una personale rielaborazione della gnoseologia kantiana – ritiene che possiamo conoscere il mondo dei fenomeni solo attraverso la mediazione di tre grandi quadri intellettuali, ossia le forme a priori di spazio, tempo e causalità (relazione causa-effetto). Schopenhauer: le forme a priori SPAZIO TEMPO CAUSALITÀ
  • 33.  Excursus: le forme a priori in Kant e Schopenhauer • Nella Critica della Ragione Pura (1781; 1787), Kant sostiene che la conoscenza della realtà è data non solo dagli stimoli che il mondo esterno invia al soggetto conoscente, ma anche dalle strutture mentali che rendono possibile ricevere tali stimoli ed elaborarli, dando loro ordine e coerenza. • Tali strutture sono delle vere e proprie condizioni necessarie del conoscere, senza le quali non sarebbe possibile nessun atto conoscitivo. Kant denomina tali condizioni con il termine generale di Forme a priori, distinguendo le Forme a priori dell’intuizione – che consentono la conoscenza sensibile – e le Categorie, o Forme a priori dell’intelletto, che operano sul piano della conoscenza intellettuale. • Per Kant le forme a priori dell’intuizione sono due, Spazio e Tempo, mentre quelle dell’intelletto (o Categorie) sono dodici. Schopenhauer conserva le prime due, ma riduce le dodici categorie a una, la Causalità, peraltro compresa nell’elenco delle categorie da Kant stesso, ritenendo che essa sussuma in sé tutte le altre.
  • 34. Fine dell’excursus Le Forme a priori secondo Schopenhauer Spazio Tempo Causalità Kant: le Forme a priori dell’intelletto o Categorie Quantità Qualità Relazione Modalità Unità Realtà Dell’inerenza e sussistenza (Sostanza e Accidente) Possibilità-Impossibilità Pluralità Negazione Della causalità e dipendenza (Causa ed Effetto) Esistenza-Inesistenza Totalità Limitazione Della comunanza (Azione reciproca tra agente e paziente) Necessità-Contingenza Kant: le Forme a priori dell’intuizione (condizioni della conoscenza sensibile) Spazio (forma del senso esterno) Tempo (forma del senso interno)
  • 35. • Relativamente allo studio dei fenomeni, il sapere scientifico è la forma di conoscenza più evoluta in nostro possesso. Ma proprio perché tale conoscenza è il risultato dei quadri mentali del soggetto conoscente, essa non è in grado di cogliere le cose come sono in se stesse, ma solo come appaiono a noi, così come ce le rappresentiamo. Il mondo è una mia rappresentazione. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 1
  • 36. • . • La nostra conoscenza del mondo materiale, ossia la rappresentazione che di esso otteniamo attraverso le nostre facoltà conoscitive, può essere paragonata ad una visione, sfocata e alterata, prodotta da vetri deformanti. Tale conoscenza, sostiene Schopenhauer, influenzato da Platone e dalla sapienza indiana, è al fondo illusoria. • Riprendendo un’immagine presente nei Veda e nelle Upaniṣad, Schopenhauer afferma che i fenomeni, ovvero il mondo come ci appare, altro non sono che l’esito M. C. Escher, Mano con sfera riflettente (1935)
  • 37. • I sensi, l’intelletto e la ragione, non riuscendo a squarciare il velo della māyā e non potendo quindi andare oltre la dimensione spazio- temporale del fenomeno, non saranno mai in grado di comprendere la cosa in sé, ossia la vera realtà delle cose. dell’azione della māyā, la potenza illusionante e ingannatrice che ha originato il mondo materiale. È māyā, il velo dell’illusione, che ottenebra le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né che esista né che non esista; il mondo infatti è simile al sogno, allo scintillio della luce solare sulla sabbia, che il viaggiatore scambia da lontano per acqua, oppure ad una corda buttata per terra ch’egli prende per un serpente. Ivi, I, 3
  • 38. • Ma noi non siamo fatti solo di pensieri, di riflessioni e ragionamenti astratti: abbiamo anche un corpo, che è ciò che ci radica nel mondo e ci costituisce come individui. • Il corpo è un fenomeno tra i vari fenomeni, ma è anche il nostro corpo, e in base a ciò abbiamo la possibilità di auscultarlo dal di dentro, di viverlo direttamente e immediatamente. In realtà sarebbe impossibile trovare il significato di questo mondo che ci sta dinanzi come rappresentazione […] se colui che ricerca non fosse nient’altro che un puro soggetto conoscente (una testa d’angelo alata, senza corpo). Ma il ricercatore ha la sua radice nel mondo; ci si trova come i n d i v i d u o, e cioè la sua conoscenza […] è necessariamente condizionata dal corpo […] Ivi, II, 18
  • 39. • Vissuto dal di dentro, il nostro corpo si rivela a noi come un’incessante groviglio di impulsi, un continuo desiderare, una infinita e multiforme rete di bisogni. Il bisogno è inestinguibile: quando accade che riusciamo a soddisfarne uno, eccone subito pronto un altro a richiamare la nostra attenzione e a richiedere con urgenza di essere appagato. E così via. Sembra che la nostra esistenza sia caratterizzata da un inesausto volere che ha radici nel pulsare stesso della vita che anima il nostro corpo. • L’esito generale di questo indomabile impulso a volere è il dolore. Non si tratta solamente di un’emozione provocata in noi da vicende avverse, bensì di uno stato che costantemente caratterizza l’esistenza umana: la vita è dolore.
  • 40. • Quindi, il bisogno pressante e continuo che accompagna l’uomo, lo porta a volere senza posa, e di conseguenza a soffrire. • Ma è l’uomo il diretto responsabile di questo inesausto volere? • In realtà è il mondo stesso nella sua totalità che è affetto da questa continua tensione a essere, da questo divenire caotico e senza posa. L’intero universo è il prodotto di una forza cosmica che lo ha originato e lo determina. Questo principio cosmico non a caso è chiamato da Schopenhauer Volontà di vivere o, semplicemente, Volontà.
  • 41. • Diamo uno sguardo d’insieme al percorso compiuto fin qui. Il mondo è il prodotto delle più immediate facoltà conoscitive di cui uomini e animali sono dotati: quella spazializzante (spazio), quella temporalizzante (tempo) e quella intellettiva, capace di stabilire rapporti di causa ed effetto (causalità).1 All’interno di queste coordinate il mondo appare al soggetto conoscente come un insieme di fenomeni: il mondo come rappresentazione. • Schopenhauer ritiene però, in linea con Platone e con la sapienza indiana, che il mondo fenomenico sia illusorio e paragonabile a un velo che nasconde la vera realtà. ________________________ 1 L’essere umano è dotato anche di ragione, facoltà superiore che permette il pensiero concettuale. In questa sede tralasciamo tale aspetto.
  • 42. • Auscultando il nostro corpo abbiamo però scoperto che una fitta trama di bisogni lo agita e lo porta continuamente e dolorosamente a volere: la vita è dolore. • Riflettendo su questi aspetti e comprendendo che questa tensione a volere non è solo un problema umano ma che è insita nella totalità dell’essere, abbiamo così potuto scostare il velo della māyā e divenire consapevoli della cosa in sé, ossia della vera realtà delle cose: il mondo come Volontà.
  • 43. . • La Volontà è una forza inconscia e cieca (II, 27) che nel suo impulso ad essere ha prodotto ogni cosa, e in ogni cosa manifesta l’irrazionalità e il dissidio interno che la caratterizza. Ecco perché in ogni aspetto dell’universo vi è lotta e contesa, come appare chiaro anche dall’osservazione della natura a noi prossima. Soltanto con la riflessione è possibile oltrepassare il fenomeno e pervenire alla c o s a i n s é. Fenomeno è rappresentazione, e nulla più; e ogni rappresentazione, ogni o g g e t t o di qualsiasi specie, è f e n o m e n o. C o s a i n s é è soltanto la v o l o n t à, che a tal titolo non è affatto rappresentazione, l’oggetto, anzi ne differisce toto genere: la rappresentazione, l’oggetto, non ne sono che il fenomeno, la visibilità, l’o g g e t t i t à. La volontà è la sostanza intima, il nocciolo di ogni cosa particolare e del tutto: è la volontà quella che appare nella forza naturale cieca, ed è ancora volontà quella che si manifesta nella condotta ragionata dell’uomo; l’enorme differenza che separa i due casi concerne solo il grado della manifestazione, non l’essere di ciò che si manifesta. Ivi, II, 21
  • 44. • . • La lotta, il dissidio e il conflitto presenti in ogni aspetto dell’universo producono una sofferenza universale: il dolore è cosmico. Nella natura vediamo dunque dappertutto lotta, conflitto e alternarsi di vittorie. […] Questa lotta si può constatare in tutta la scala della natura: ed anzi, la natura stessa non è che una lotta […] ora questa lotta non è che la manifestazione del contrasto che lacera internamente la Volontà. Questo conflitto universale si rivela nel modo più eloquente nel mondo degli animali, […] infatti un essere vivente non può mantenersi in vita se non a spese di un altro. […] L’esempio più soprendente [scil. della sopraffazione che mette un essere contro un altro] del genere ci è dato dalla formica-mastino (bulldog-ant) che si trova in Australia; se la si taglia in due, si impegna subito una lotta tra la testa e la coda; la prima afferra con le sue mandibole la seconda, e questa si difende bravamente col suo pungiglione: la lotta di solito dura una mezz’ora, fino a che i due litiganti non muoiono o non vengono trascinati via da altre formiche. Ivi, II, 27
  • 45. • Ma tale dolore cosmico si manifesta nella sua espressione più acuta nell’uomo, perché solo esso, a vario livello, è consapevole della propria sofferenza e della morte finale che, prima o poi, lo attende. • Schopenhauer non nega che un qualche grado di consapevolezza del soffrire sia presente anche negli animali (forma di vita che egli guarda sempre con considerazione e rispetto), ma la coscienza di cui è dotato espone l’uomo a un dolore più intenso. E gli uomini più intelligenti e dotati di maggiore capacità di riflessione sono quelli destinati a soffrire maggiormente.
  • 46. • Schopenhauer non nega che l’uomo possa provare piacere, ma esso è solo una momentanea cessazione del dolore. Il dolore è la condizione stabile dell’essere umano; esso si calma brevemente solo quando riusciamo ad appagare un desiderio: il piacere che ne nasce è però temporaneo e si perde nell’apparire di nuovi bisogni. .aspiri […] ciò che nella natura incosciente possiamo scoprire soltanto con acume e fatica, ci appare chiaramente nella natura consapevole, nella vita degli animali, di cui è facile dimostrare il soffrire continuo. Ma senza indugiarci su questo gradino intermedio, veniamo alla vita umana, dove tutto appare con la massima chiarezza, nella luce della coscienza più distinta. Infatti, quanto più perfetto è il fenomeno della Volontà, tanto più manifesto è il soffrire. Dunque: mano che la conoscenza diviene più distinta e che la coscienza si eleva, cresce anche il tormento, che nell’uomo raggiunge quindi il grado più alto, e tanto più alto, quanto più l’uomo è intelligente; l’uomo di genio è quello che soffre di più. Ivi, IV, 56
  • 47. • Il piacevole appagamento momentaneo di un bisogno può anche trasformarsi in noia, stato temibile in cui si avverte l’assenza di motivazione e di uno scopo a cui tendere. La noia dura fino a quando non appare un nuovo bisogno, che fa ripartire da capo questa sconcertante oscillazione della vita umana. • La questione può essere vista anche da un punto di vista più generale: se pure potessimo liberarci dai bisogni e dal dolore che essi comportano, altro non resterebbe che il grande vuoto della noia. La sua vita [scil. dell’individuo umano] oscilla dunque, come un pendolo, fra dolore e noia, che sono infatti i suoi due costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo aver ricacciato nell’inferno dolori e supplizi non trovarono che restasse, per il cielo, niente all’infuori della noia. Ivi, IV, 57
  • 48. . «La vita umana è oscillare perpetuo fra il dolore e la noia.» (ibid.) La vita di ogni uomo scorre tra il desiderio e la soddisfazione. Il desiderio è per sua natura dolore: la soddisfazione si traduce presto in sazietà. Il fine, in sostanza, è illusorio: col possesso svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova e, con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la monotonia, il vuoto, la noia, nemici altrettanto terribili quanto il bisogno. Quando il desiderio e la soddisfazione si seguono a intervalli non troppo lunghi né troppo brevi, la sofferenza che deriva da entrambi è ridotta al suo minimum e si ha la vita più felice. Ibid. • Il passo citato conferma la possibilità del piacere e quella, nei casi più fortunati, di una relativa felicità. Ma il dolore resta comunque la dimensione più stabile di ogni esistenza.
  • 49. • L’indagine di Schopenhauer ha rivelato la presenza costante del dolore come dimensione costitutiva non solo della realtà umana, ma di tutto l’essere. Tale sofferenza è universale ed ineliminabile e conduce Schopenhauer ad assumere una posizione di radicale pessimismo, che non va inteso solo in senso psicologico, ma metafisico, rivolto com’è all’essere nella sua totalità. Ma nonostante quel che la natura e la fortuna abbiano potuto fare per l’uomo, chiunque sia e qualunque cosa possieda, il dolore, essenza stessa della vita, non si potrà mai estirpare. […] Se infine riusciremo a scongiurare anche la noia, sarà ben difficile che il dolore non si ripresenti sotto una delle altre forme: così la danza ricomincerà daccapo, perché, ripetiamo, la vita umana è un oscillare perpetuo fra il dolore e la noia. Ibid.
  • 50. . • Potrebbe sembrare, a questo punto, che il suicidio sia una possibilità estrema per sottrarsi a tale stato di cose. Schopenhauer è, invece, nettamente contrario a questa soluzione, perché togliersi la vita equivarrebbe a un’ultima e finale forma di volere (il volere darsi la morte), costituendo quindi una definitiva affermazione della Volontà. E questa impossibilità di salvezza è lo specchio dell’indomabilità del volere, di cui la nostra persona è l’oggettivazione. Se non c’è potenza esteriore capace di modificare la Volontà o di sopprimerla, tanto meno ci sarà una forza estranea che possa liberala dai suoi tormenti, la sorgente dei quali è nella vita, che è manifestazione della stessa Volontà. […] Aggiungerò solo che l’ o t t i m i s m o, quando non sia chiacchiera vuota in bocca di persone il cui stupido cervello sia capace soltanto di parole, mi sembra un’opinione, non soltanto assurda, ma veramente e m p i a; un odioso dileggio di fronte alle inesprimibili sofferenze dell’umanità. Ivi, IV, 59
  • 51. Ben lungi dall’essere negazione della Volontà, il suicidio è il fenomeno di una sua più energica affermazione. La negazione, infatti, non consiste in un orrore dei mali della vita, ma nell’odio dei suoi piaceri. Il suicida vuole la vita: soltanto non è soddisfatto delle condizioni in cui gli si offre. Distruggendo il singolo fenomeno, il suicida non rinuncia dunque alla volontà di vivere, ma unicamente al vivere. Ivi, IV, 69 Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l'incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato
  • 52. • Anche l’amore, atteso e ricercato dagli esseri umani per i piaceri che esso comporta, è per Schopenhauer un fenomeno illusorio, dietro il quale si nasconde il più sottile tranello teso dalla Volontà. Questa, infatti, come forza che tende inesausta all’affermazione della vita, usa l’attrazione che si genera tra gli individui al fine della riproduzione e perpetuazione della specie. • Allora, se scostiamo l’ingannevole velo della māyā, anche l’amore più etereo è al fondo il prodotto dell’istinto sessuale.
  • 53. . Appendice • Se così stanno le cose, potrà mai l’uomo liberarsi dalle spire della Volontà e dal dolore che essa determina? Ogni innamoramento infatti, per quanto etereo possa apparire, è radicato esclusivamente nell’istinto sessuale, anzi non è nient’altro che istinto sessuale più determinato, più specializzato, meglio individuato, nel senso più rigoroso del termine. […] In definitiva, ciò che attira con tanta esclusività e con tanta forza due individui di sesso diverso l’uno verso l’altro, è la volontà di vivere dell’intera specie, la quale anticipa un oggettivazione della sua essenza, corrispondente ai suoi fini, nell’individuo che la coppia può generare. Ivi, Supplementi al IV libro, 44
  • 54. • Nonostante il pessimismo metafisico che lo anima, la risposta di Schopenhauer è sorprendentemente positiva, sebbene le soluzioni che egli propone non siano facili a praticarsi. • In primo luogo, potremmo provare a lenire i mali che ci affliggono affrontandoli con un atteggiamento di rassegnazione e di stoica indifferenza. Non si può lottare contro l’ordine delle cose, perciò sarebbe buona cosa accettare che vivere significa fare l’esperienza del dolore e non dare a tutto ciò più peso di quello che merita (cfr. IV, 57).
  • 55. • In secondo luogo, possiamo tentare di liberarci dalla stessa Volontà, causa prima del dolore, mediante l’arte (che ci apre alla bellezza, opposta agli orrori del mondo comune), o praticando l’amore disinteressato (differente da quello erotico sentimentale, perché capace di vincere l’egoismo e spingere a fare del bene al nostro prossimo), fino ad arrivare a forme di ascesi che solo i santi e i saggi dell’Oriente hanno saputo attuare: il dominio dei bisogni del corpo e la castità perfetta. La vita ascetica intende contrastare la Volontà sul suo stesso piano: rinunciando ai bisogni del corpo, si estingue ogni volere e si impedisce l’azione della Volontà. • Ognuno di questi punti meriterebbe un adeguato approfondimento, considerati però i limiti della presente trattazione, ci fermiamo solamente a questi brevi cenni, rimandando ad altra sede un esame più approfondito dell’argomento.
  • 56. .  Søren Aabye Kierkegaard • Kierkegaard (Copenaghen, 1813 - 1855) ha posto al centro della sua riflessione il tema dell’esistenza singola, quella del concreto individuo colto nella sua problematica dimensione vitale. • L’esistenza singola è un fascio di possibilità che contiene in sé il piacere, il dolore, ma anche l’angoscia e la disperazione, insieme a una grande esigenza di salvezza e liberazione. N. C. Kierkegaard: ritratto di S. Kierkegaard
  • 57. • Nella nostra analisi prenderemo in considerazione alcuni aspetti del pensiero di Kierkegaard che si ritrovano in una delle sue opere più note, Aut-Aut (Enten-Eller), pubblicata nel 1843 sotto lo pseudonimo di Victor Eremita. • Enten-Eller significa "o…o" e indica quindi una disgiunzione, ma di tipo esclusivo: o una cosa o un’altra, ma non tutte e due. Questa disgiunzione esclusiva è espressa in latino con aut, ecco perché il traduttore italiano ha intitolato in tal modo l’opera.1 ________________________ 1 La disgiunzione inclusiva è invece espressa in latino con vel : o una cosa, o l’altra o, anche, tutt’e due.
  • 58. • Il titolo dell’opera trova la sua motivazione nel fatto che l’autore intende presentarci due forme di esistenza opposte e inconciliabili: quella dell’esteta-seduttore (Enten) e quella del marito fedele (Eller). Con maggiore precisione possiamo dire che l’opposizione è tra la vita estetica e la vita etica. Noi ci concentreremo sulla prima forma di vita perché offre una serie di spunti utili ad approfondire il tema che ci siamo dati. Frontespizio della prima edizione di Enten-Eller
  • 59. • In termini generali, l’esteta è attratto dal piacere e dalla bellezza, che ricerca continuamente, senza mai impegnarsi con niente e nessuno, evitando qualsiasi scelta che possa fermare il flusso delle occasioni. • Kierkegaard tratteggia la figura dell’esteta proponendo tre esistenze singole impersonate da Don Juan, Johann Georg Faust e Johannes. Due Giovanni (o forse tre, dato che il nome di Faust è incerto) sono quindi scelti da Kierkegaard, certamente non a caso, per delineare questa forma di esistenza. È forse un segno di come ognuno di questi personaggi offra una differente interpretazione della medesima vita estetica, mostrandone le varie sfaccettature e possibilità.
  • 60. • Don Juan è una figura le cui origini si perdono nella leggenda. Nei documenti scritti fa la sua comparsa in un dramma attribuito allo spagnolo Tirso de Molina (pseudonimo di Gabriel Téllez, 1579- 1648), El burlador de Sevilla y convidado de piedra (1616). Il personaggio è stato poi ripreso da Molière (Dom Juan ou Le Festin de pierre, 1665) e da molti altri Don Juan raffigurato con una delle sue conquiste in un disegno di I. R. Cruikshank (1789-1856) autori di rilievo, ma il suo nome resta soprattutto legato all’opera di W. A. Mozart, Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, K 527(1787), su libretto di Lorenzo da Ponte. A questo lavoro fa particolare riferimento Kierkegaard.
  • 61. • Don Giovanni incarna la ricerca del piacere così come esso si dà nell’attimo della conquista e del godimento erotico. È un attimo la cui bellezza egli vuole ripetere all’infinito e sempre uguale, pur nelle diverse e innumerevoli donne che seduce. • Secondo Kierkegaard, Don Giovanni non ha interesse per la singola donna, nella quale cerca la femminilità in se stessa, che è ciò che veramente l’attrae. Don Giovanni è […] fondamentalmente un seduttore. Il suo amore non è psichico ma sensuale, e l’amore sensuale secondo il suo concetto non è fedele, ma assolutamente privo di fede, non ama una ma tutte, vale a dire seduce tutte. Esso è infatti soltanto nel momento, ma il momento è concettualmente pensato come la somma dei momenti, e così abbiamo il seduttore. S. Kierkegaard, Enten-Eller , I, Gli stati erotici immediati
  • 62. • La musica riesce a rappresentare perfettamente il carattere di Don Giovanni, perché come lui esprime un contenuto universale, non questo o quel sentimento, ma il sentimento in generale. • Possiamo vedere e ascoltare quest’incontro tra musica e Don Giovanni nell’omonima opera di Mozart, dove l’essere macchina da conquista e quasi «forza della natura»(ibid.) del protagonista emerge in passaggi come il seguente. La musica è adattissima a far questo perché è di gran lunga più astratta del linguaggio, e quindi non dice il singolare ma l’universale in tutta la sua universalità, e tuttavia dice quest’universalità non nell’astrazione della riflessione ma nella concrezione dell’immediatezza. Ibid.
  • 63. • . • Nel giudizio di Kierkegaard, la vita di Don Giovanni, frazionata negli attimi delle sue conquiste erotiche, è priva di una vera continuità. Egli può affermare il proprio io solo in questa incessante ripetizione, alla continua ricerca di conferme del suo potere seduttivo. Questo fluire incessante manca della stabilità necessaria al costituirsi di una vera soggettività e non riesce a creare una autentica personalità. Madamina, il catalogo è questo delle belle che amò il padron mio […] Osservate, leggete con me. In Italia seicento e quaranta; In Almagna duecento e trentuna; Cento in Francia, in Turchia novantuna; ma in Spagna son già mille e tre. W.A. Mozart, Don Giovanni (libretto di L. Da Ponte), aria di Leporello, atto I, scena 5
  • 64. • . S. Dalla Rosa, W. A. Mozart, 1770 Questo ritratto di Mozart quattordicenne fu fatto nella tappa veronese del suo primo viaggio in Italia. In alto: locandina della prima rappresentazione del Don Giovanni, Praga, 29 ottobre 1787. A sinistra: L. Da Ponte in una incisione di M. Pekenino (da un ritratto di N. Rogers)
  • 65. • Ma forse Don Giovanni, succubo com’è della potenza dell’eros, non è il vero seduttore. • Don Giovanni è puro istinto erotico. Non sa elaborare prima un piano che anticipi l’azione e non è in grado poi di riflettere sugli esiti che l’azione stessa ha prodotto. Preferirei quindi definirlo un impostore […] Per essere seduttore occorre sempre una certa riflessione e una certa coscienza, ed è solo quando queste sono presenti che può essere appropriato parlare di scaltrezza, di mosse e di abili assalti. Questa coscienza manca a Don Giovanni. Egli perciò non seduce. Egli desidera, ed è questo desiderio ad avere un effetto seducente, in tal senso egli seduce. Egli gode dell’appagamento del desiderio; appena ne ha goduto cerca un nuovo oggetto, e così all’infinito. Egli perciò inganna, certo, ma senza organizzare il suo inganno in precedenza; è la potenza propria della sensualità a ingannare le sedotte. S. Kierkegaard, Enten-Eller , I, Gli stati erotici immediati
  • 66. . • A Don Giovanni manca la riflessione e l’uso sapiente della potenza della parola, elementi che devono caratterizzare il vero seduttore. Questi aspetti si ritrovano invece nelle figure di Faust e di Johannes. • Il mito del dr. Faust ha origini remote e forse si è originato a partire da un reale personaggio storico. Abbiamo notizie di un certo Magister Georg Sabellicus alias Faust il giovane, in una lettera dell’abate Johannes Trithemius (1462-1516), umanista A. Kaulbach, Faust e Mepistofele
  • 67. • C’è poi una Storia del Dr. Johan Fausten, pubblicata da Johann Spies (ca. 1540-1623) nel 1587, il cosiddetto Faustbuch, che fu in seguito tradotto in inglese. Ed è proprio uno scrittore inglese a far entrare la figura di Faust nella grande letteratura. Si tratta del poeta e drammaturgo Christopher Marlowe (1564-1593) che, ispirandosi a The English Faust Book, diede vita a The Tragical History of the Life and Death of Doctor Faustus (1589-92), opera teatrale dove il dr. Faust appare con tutte le sue caratteristiche di occultista avido di arcane conoscenze capaci di conferire grandi poteri e disposto a vendere la sua anima al demonio pur di ottenerli. ________________________ 1 La lettera dell’abate Trithemius (Johann Heidenberg), indirizzata all’astrologo e matematico Johann Wirdung (20 agosto 1507), menziona un certo Magister Georg Sabellicus, Faust der Jüngere. Trithemius conobbe Sabellicus , ricevendone un‘impressione molto negativa e mette in guardia Wirdung dall‘incontrarlo, come era suo desiderio. e grande esperto di arti occulte.1
  • 68. • . • Questo personaggio otterrà in seguito la sua più grande consacrazione nel dramma in versi di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), Faust, uno dei massimi capolavori della letteratura mondiale, al quale l’autore lavorò, a più riprese, dal 1772 al 1832. • Goethe delinea la figura di Faust come quella di un uomo di grande erudizione animato da un inarrestabile desiderio di ricerca dei più J.K. Stieler, J.W. Goethe (1828) nascosti segreti della realtà e dell’esistenza. È quest’ansia di conoscere che lo porta a fare il patto con il demonio e ad esplorare i recessi dell’animo umano.
  • 69. . • Ma il Faust di Goethe è assetato anche di piacere e Mefistofele gliene promette in misura incontenibile. • In questa prospettiva vedremo Faust, trasformato magicamente in giovane cavaliere, che invoca l’aiuto di Mefistofele per conquistare una fanciulla di nome Margherita, candida e timorata di Dio, di cui si è invaghito. A. Scheffer, Faust e Margherita nel giardino, 1846
  • 70. • Faust riuscirà nell’impresa, ma l’epilogo sarà tragico per la povera Margherita. Non approfondiremo però la storia, perché ci interessa tornare al pensiero di Kierkegaard e vedere le sue considerazioni sulla figura di Faust come seduttore. • Kierkegaard vede in Faust la sete di conoscenza, ma ritrova nel suo atteggiamento anche il dubbio su ogni aspetto della realtà che gli impedisce di trovare sicurezza e stabilità. Soprattutto però riconosce in Faust l’aspetto della seduzione. Anche Faust è un seduttore e lo è nel senso psichico, cerebrale. È seduttore di una sola donna,1 ________________________ 1 Va precisato che nell’opera di Goethe, Faust avrà in seguito una relazione con Elena di Troia, Atto III
  • 71. . • Tormentato dal suo patto col diavolo e dai dubbi che esso fa crescere a dismisura fino alla disperazione, Faust • La ricerca del rapporto erotico con Margherita è l’esito di una riflessione interiore, di un calcolo cerebrale, motivato anche dalla disperazione di Faust, per cui in lui Margherita, che conquista e inganna con le sue doti intellettuali. nel sensuale non tanto cerca il godimento quanto una distrazione […] dalla nullità del dubbio. S. Kierkegaard, Enten-Eller, II, Silhouettes l’erotico è già riflesso, qualcosa a cui egli si abbandona spinto dalla disperazione. Ivi, III, Il diario del seduttore
  • 72. • Faust riesce nella sua impresa di seduttore grazie, come abbiamo detto, ai suoi mezzi intellettuali, ma questi si esprimono per mezzo della parola, con la quale egli illude e inganna. • Questo aspetto di pianificazione della strategia di conquista, tipico del vero seduttore, il seduttore psichico, si ritrova, forse amplificato, nella terza figura che Kierkegaard esamina, quella di Johannes, autore della parte di Enten-Eller intitolata Diario del seduttore. È evidente che qui la seduzione si fa anche scrittura.
  • 73. • Johannes è pure lui alle prese con una sola donna, Cordelia, che conquista e, infine, abbandona. • Lo scopo di Johannes non è il possesso fisico dell’oggetto del desiderio. Il piacere che egli cerca è sottile: si basa sull’immaginare, sul godere nell’anticipare gli eventi così come prendono vita nella fantasia o, anche, nel ricordare dopo le cose che il suo piano seduttivo ha fatto accadere. La seduzione si trasforma in un opera d’arte e il piacere che da essa scaturisce è un piacere estetico.
  • 74. • Johannes è uno spettatore che si gode la bellezza di quell’opera d’arte che è la sua seduzione. Non vuole impegnarsi, non vuole scegliere, vuole lasciarsi aperte tutte le possibilità. Assapora l’istante. • L’esteta non vuole scegliere mai, non intende assumere un ruolo e un’identità precisa, rifugge da responsabilità sociali. È interessato solo alla seduzione (fisica o fantasticata) e al piacere che da essa può ricavare, esperienza che vuole ripetere sempre nuova e senza mai fermarsi. • Manca di ogni stabilità, ed è questo che alla fine costituisce il suo dramma esistenziale: non riesce a costituirsi come io e come persona. La sua esistenza si rivela essere senza sostanza e il piacere lascia spazio a un’emozione che è ancora più forte del dolore: la disperazione.
  • 75. Appendice • In realtà ogni vita, per Kierkegaard, combatte con due emozioni ineludibili: l’angoscia e la disperazione. • L’angoscia è legata al vivere stesso. Vivere infatti significa misurarsi con un insieme di possibilità: possibilità che sì e possibilità che non. Ed è proprio il non sapere che cosa ci riserva il futuro con le sue possibilità che determina in noi la paura dell’ignoto, dell’indefinito, dell’imponderabile. • È una paura senza oggetto preciso, vuota e vaga, che proprio per questo può atterrire l’individuo e sconcertarlo: l’angoscia è il sentimento della pura possibilità.
  • 76. • L’angoscia, pur con tutta la sua negatività e per quanto possa atterrire e paralizzare, significa anche che si è vivi e che ci si misura le occasioni e le circostanze della vita. • Ben più temibile è la disperazione, perché essa rivela che non ci sono più possibilità e che quindi non ci sono alternative alla situazione senza uscita che si è determinata. La reazione del disperato è, infatti, quella di chiedere se non vi sia un’altra possibilità. Se c’è possibilità, la vita riprende.
  • 77. . Le emozioni fondamentali dell’uomo: Angoscia e Disperazione UOMO ANGOSCIA: il rapporto dell’uomo col Mondo DISPERAZIONE: il rapporto dell’uomo con Se Stesso (la dimensione dell’IO)
  • 78. • Giunto alla disperazione, l’esteta potrà avere un’altra possibilità? Una forma di vita totalmente differente, capace di dare storia e continuità all’individuo? • Ebbene, nel corso di Enten-Eller, questa possibilità esiste ed è rappresentata dalla vita etica, dove l’amore è quello coniugale e l’esistenza si svolge nei doveri della famiglia e nell’assunzione di un ruolo preciso nella società. Questo ideale è incarnato dalla figura del giudice Wilhelm, il marito.
  • 79. . Illustrazione che ritrae Kierkegaard (1845 ca.) • In questo nostro percorso non tratteremo la vita etica. Ci limitiamo solo a dire che anch’essa, pur con tutti i suoi pregi e vantaggi, non riuscirà a dare risposte esaurienti al desiderio di infinito che c’è nell’essere umano. La ricerca di Kierkegaard proseguirà in altre opere, delineando una terza possibilità, quella della fede nel Dio cristiano.
  • 80. • Fede che non annulla l’angoscia della scelta, e che richiede un combattimento continuo con i limiti umani e con il peccato. Fede che ricerca un autentico rapporto con Dio, al di là delle mistificazioni e delle versioni riposanti fornite dalle chiese ufficiali. • Ma, forse, in una vita vissuta in tal modo c’è una flebile e sempre incerta soluzione alla disperazione umana: l’uomo non può salvarsi da sé ma può abbandonarsi al potere salvifico di un Dio che resta, comunque, misterioso e nascosto, spesso incomprensibile per la ragione umana. L. Janssen, Kierkegaard allo scrittoio
  • 81. • . Nel 1840 Kierkegaard si fidanza con Regine Olsen. Lei ha diciotto anni, lui ventisette. La ragazza lo ama e ha intenzione di sposarlo, ma Kierkegaard, dopo averla conquistata, fa di tutto per allontanarla e per apparire sgradevole ai suoi occhi, arrivando dopo solo un anno a rompere il fidanzamento. Kierkegaard, forse perché aveva alle spalle una drammatica esperienza familiare, funestata dalla morte della madre e di cinque fratelli, vista come l’esito di una maledizione divina per le colpe del padre, avvertì l’impossibilità per sé di una vita felice in compagnia di Regine e di eventuali figli. Kierkegaard non smetterà mai di pensare a Regine, che in seguito si sposerà con un altro uomo, dedicando a lei le sue opere. La incontrerà l’ultima volta nel maggio del 1855, prossima alla partenza per le Antille, dove il marito era stato nominato governatore. Solo pochi mesi dopo, ad ottobre, il filosofo morirà a causa dei postumi di una caduta, rifiutando l’estrema unzione, ma lasciando la sua eredità a Regine. Aveva quarantadue anni. Echi biografici: le coincidenze tra il vissuto di Kierkegaard e la figura di Johannes
  • 82. • .
  • 83. • BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE N.B.: quando l’ho ritenuto opportuno, ho fatto alcune lievi modifiche di traduzione dei testi citati. Ogni evidenziazione in grassetto è mia. EPICURO, Opere. Frammenti. Testimonianze sulla sua vita, a cura di E. Bignone, Laterza, Roma-Bari 2003. ID. Opere, a cura di M. Isnardi Parente, UTET, Torino 1974. KIERKEGAARD, S. A., Enten-Eller, trad. di A. Cortese, 5 voll., Adelphi, Milano, 1976-1989. ID. Le grandi opere filosofiche e teologiche, testo originale a fronte, trad. di C. Fabro, Bompiani, Milano, 2013. OMERO, Iliade, testo greco a fronte, prefazione di F. Codino, versione di R. C. Onesti, Einaudi, Torino 1950. ID. Odissea, testo greco a fronte, prefazione di F. Codino, versione di R. C. Onesti, Einaudi, Torino 1963. PLATONE, Tutte le Opere, a cura di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1974. ID. Opere complete, a cura di G. Giannantoni, 9 voll., Laterza, Roma-Bari 1983. SCHOPENAUER A, Ueber di vierfache Wurzel des Satz vom zureichenden Grunde (1813), a cura di A. Vigorelli, La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, Guerini e Associati, Milano 2018. ID. Die Welt als Wille und Vorstellung (1818-59), trad. e cura di A. Vigliani, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989. ID. Parerga und Paralipomena: kleine philophischen Schriften (1845-50), a cura di G. Colli, Parerga e Paralipomena. Scritti filosofici minori, 2 voll., Adelphi, Milamo 1981.
  • 84. . Ideato e realizzato da Renato Curreli Docente di Filosofia e Storia Liceo Classico Statale G. M. Dettori – Cagliari Visita il mio sito didattico: https://sites.google.com/view/lo-studio-della-filosofia/home Nota: Testi e schemi grafici sono produzioni originali dell’autore. Laddove si facciano citazioni, si riporta la fonte ed eventualmente si rimanda alla bibliografia. L’origine delle immagini è invece Internet, a cui si rinvia per il reperimento di ulteriori informazioni. L’autore quindi non possiede alcun diritto relativo a tali immagini e ne ha fatto uso per puri e soli scopi didattici.