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Racconto Fantasy
Linea 14
Cosa divide la realtà dal sogno? E cosa invece li unisce?
E se esistesse un mezzo che ci permettesse di viaggiare
tra realtà e sogno, così da rendere i nostri desideri
raggiungibili?
Basterebbe mettersi in cammino, prendere un treno, un
autobus di linea.
La linea 14 forse? Lascio a voi scoprirlo.
Sono un lettore vorace di storie.
Certo, leggo un po' di tutto, ma le storie mi hanno
sempre attratto più di qualsiasi altra cosa.
Le storie a volte sono specchi in cui, se vuoi, puoi
cambiare l'immagine che ci vedi dentro.
Fu così che un giorno in uno di quegli specchi vidi
me stesso che scriveva...
Nico Spadoni
4
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Alice e Marco
lice era nel suo letto. Pioveva a dirotto. Il
rumore nella stanza era assordante. Le finestre,
percosse da folate di acqua e vento, urlavano
tutto il loro disappunto. I vetri erano grigi e informi
cataratte. La luce fioca che trapelava nella stanza rendeva
tutto indistinto come sagome di un vecchio teatro cinese.
La finestra al lato del letto proiettava una luce obliqua che
investiva una buona metà di un poster senza cornice. Vi si
scorgeva un'improbabile fermata di autobus nel bel
mezzo di un prato che si estendeva ininterrotto
all'orizzonte. Un cartello indicava che da lì passava la
linea 14.
Dal suo letto Alice non poteva leggerlo ma, chissà perché,
lo sapeva. Due amanti erano distesi nudi ai piedi del
cartello. L'erba alta celava solo in parte l'atto amoroso,
mostrando il capo della donna, affondato sul ventre
A
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glabro dell'uomo. Alice non rifletté sui dettagli, non aveva
mai visto quel poster, era osceno, di dubbio gusto, ne era
infastidita.
Mai si sarebbe sognata di esporlo in casa sua, men che
meno nella sua camera da letto. Si alzò con fatica. Non si
sentiva stanca ma i suoi movimenti gli costavano un
insolito sforzo, come accade quando ci si muove
nell’acqua.
Quando fu in piedi vide di fronte a lei un grande specchio
da camera che occupava l'angolo tra l'armadio e la porta.
Rifletteva una ragazza con indosso una t-shirt bianca di
almeno due misure più grande con il logo dell'Hard Rock
cafè di Dublino stampato al centro. La scritta che vide
nello specchio avrebbe dovuto essere al contrario ma lei
non ci fece caso. Non era mai stata all'Hard Rock di
Dublino. Non era nemmeno mai stata in Irlanda. E
comunque la t-shirt non era sua.
Sul pavimento, ai piedi dello specchio, c'erano due
Timberland da uomo. Era confusa, e poi non c'era mai
stato uno specchio lì. La stanza le appariva sempre più
aliena. La sua mente era attraversata da mille pensieri,
tutti incoerenti. Era la sua stanza eppure non lo era, non
proprio. Non riusciva a pensare, era spaventata, voleva
uscire. Raggiunse la porta quasi correndo e l'aprì.

7
A Marco piaceva stare lì, ci andava ogni volta che poteva,
gli dava un senso di pace. Era l'unico posto in cui
l'inquietudine di una vita, che non era andata come
avrebbe voluto, si dissolveva come fumo al vento. Il
lavoro da impiegato lo sviliva. Sognava di viaggiare tanto,
di incontrare gente, di scrivere, raccontando ciò che
vedeva. Parlava perfettamente tre lingue, aveva
conseguito un master in giornalismo internazionale ma il
lavoro da archivista presso la biblioteca pubblica fu
quanto di meglio riuscì a trovare.
Avrebbe voluto mollare tutto e ricominciare daccapo. Ma
non ne trovava il coraggio. Aveva una figlia a cui pensare,
l'amava moltissimo. Divenne padre che era poco più di
un ragazzino, la adorava e non sapeva starle lontano.
Aveva sposato la donna che l'aveva messa al mondo dopo
soli due mesi dal loro primo incontro, senza alcuna
esitazione. Ne era pazzamente innamorato. Ora non più,
credeva. Molte cose erano cambiate da allora.
Dal muretto di pietre su cui soleva sedere, ammirava un
panorama di eccezionale bellezza. Osservava una distesa
verde che si estendeva in ogni direzione a perdita
d'occhio. Una sensazione di deja vu lo colpì. Gli tornò
alla memoria quel suo unico viaggio, fu in Irlanda. Erano
trascorsi dieci anni, ma il ricordo di quelle atmosfere e
degli sconfinati pascoli verdi era nitido e presente come
immagini di un film sullo schermo di un cinema.
8
Una linea continua e ondulata segnava il finire della terra
e l'inizio del cielo più azzurro che avesse mai visto. Un
cielo stranamente privo di vita: non una nuvola, non un
uccello in volo. Questa considerazione lo allarmò. Si
guardò intorno e capì che quel luogo non era il posto in
cui credeva di essere, non esattamente.
Un silenzio irreale glielo confermò. I grilli, il cui frinire
era chiassoso come ovazioni in uno stadio gremito, erano
muti. Anche il suono sommesso dei veicoli in transito
proveniente dalla strada era scomparso.
Sarebbe rimasto lì ancora un po', ma aveva caldo. Decise
di ritornare a casa, e si avviò in direzione del sentiero che
costeggiava il muretto ma qualcosa lo disorientò. Si
guardò alle spalle. Era confuso, si voltò nuovamente
verso il sentiero e trasalì. Il sentiero non c'era più. Al suo
posto solo erba alta, verde e folta. L'ansia cominciava a
serpeggiare appena sotto la soglia della sua coscienza. Ma
il muretto c'era ancora, così puntò in direzione del luogo
dove prima finiva il sentiero e cominciò a correre.
9
10
11
La donna in bianco
a porta si chiuse alle sue spalle. Un prato
sconfinato, il più vasto che avesse mai ammirato,
le si balenò davanti. Non immaginava potessero
esistere così tante tonalità di verde. Alice, pur rapita da
quella visione, provava un senso di inquietudine. Provò a
convincersi che tornare indietro ad affrontare la
distorsione della realtà da cui era fuggita fosse più sensato
che avventurarsi nell’ignoto paesaggio che aveva davanti.
Incapace di distogliere lo sguardo da quella distesa senza
fine, tentò di afferrare la maniglia della porta alle sue
spalle ma le sue dita non trovarono nulla. Si girò e ciò che
vide le gelò il sangue. Nessuna traccia della porta da cui
era uscita, nessuna stanza, nessuna casa. Solo praterie
senza fine. Però qualcosa c’era. Non molto distante
scorse un cartello giallo sostenuto da un palo. Una
fermata di autobus dimenticata dal tempo. E accanto ad
essa un passeggero in attesa. Alice distingueva poco più di
un’ombra, una sagoma. Era una donna forse o una
bambina. Indossava un’ampia veste bianca. Lunghi capelli
scuri svolazzavano al vento celandone il volto. La
L
12
misteriosa figura bianca era immobile e sembrava la
scrutasse. Alice la osservava con apprensione, percepiva
un’inconscia minaccia. Poi le sovvenne l’immagine del
poster ed ebbe una sensazione di deja vu. La donna in
bianco sembrò accorgersene e sollevò una mano in un
gesto di saluto. Poi lentamente le andò incontro. Alice
non riusciva a muoversi. Guardava la donna avanzare con
passo leggero. L’incedere elegante e aggraziato di lei la
tranquillizzò. Quando la donna giunse a non più di tre
passi da Alice, si fermò. Era bellissima. I grandi occhi
smeraldo illuminavano il suo viso sottile da fanciulla. Il
velo che indossava lasciava trasparire un profilo sinuoso e
sensuale.
“Il mio cuore a te, Alcesti.” esordì sorridendo la donna
in bianco.
“Il mio nome è Alice” rispose perplessa.
“I nomi sono come i petali di un fiore, Alcesti.” glissò la
donna.
“Dove siamo? E chi sei tu?”
“Alcesti, non dovresti essere qui.”
“Non ho idea di come ci sia arrivata, ero nella mia
stanza. Ma non sembrava più la mia stanza. Ho avuto
paura. Sono fuggita. Mi sembra un incubo. Sono in un
incubo, vero? Dimmi che è così” ribatté quasi
giustificandosi.
13
“Non dovresti essere qui. Non è un posto sicuro.
Seguimi, ti aiuterò a trovare la tua dimora.”
La donna in bianco punto l’indice dietro di lei. Alice si
voltò e trasalì. Era nel suo corridoio. La porta della sua
camera era chiusa.
“Vai. Non indugiare.” La incalzò la donna in bianco.
“Chi sei tu?” replicò Alice
Scuotendo il capo la donna disse
“Quando sarai oltre quella porta dimenticherai questo
luogo desolato.”
“Dove siamo?” chiese nuovamente.
“E’ un luogo senza tempo. La fine delle angosce per le
anime perse. Ora và”
“E tu? Resti qui?” Insisté Alice.
La donna in bianco ebbe un fugace moto di impazienza.
“Non c’è tempo!”
un sommesso suono gutturale alterò la voce gentile e
suadente della donna.
“Mia cara, ti prego, muovi i tuoi passi. Non c’è più
tempo”, aggiunse la donna in bianco con malcelata
irritazione.
Alice considerò le parole della donna in bianco cercando
di scorgervi un significato nascosto. Ma poi l’ansia di
ritornare alla realtà di sempre ebbe la meglio sulla sua
irrazionale curiosità. Sotto lo sguardo insofferente della
14
donna in bianco, pose la mano sulla maniglia della porta.
Ma invece di aprirla si girò e chiese:
“Sei qui in attesa del tuo uomo?”
Il sorriso della donna in bianco si deformò come cera al
fuoco. In un smorfia di dolore e rabbia la donna in
bianco sibilò:
“TUUUUUUU! NON PROVARE AD AVVICINARTI
ANCORA A LUI! E’ MIO! LUI E’ MIOOOO!”
Alice, vide la donna in bianco mutare. Orbite nere e
senza vita avevano inghiottito gli splendidi occhi verdi.
Dalla bocca colavano sordidi rivoli di bava che le
rigavano il volto non più umano. Il velo bianco
insudiciato si andava sgretolando come una vecchia tela
sfibrata da fameliche tarme. Le mani contratte
sembravano artigli. E la sua voce non era più una voce
ma un latrato. Dell’incantevole figura di prima restò solo
un informe e orrendo ricordo.
Quando la donna-mostro si rannicchiò come una bestia
feroce in agguato, Alice immaginò la sua fine, assalita e
dilaniata a morsi. Ma, con suo sgomento, la donna-
mostro cominciò ad indietreggiare guaendo
incomprensibili imprecazioni. Ad Alice ricordò un
granchio spaventato che si rintana su uno scoglio. La
donna –granchio, giunta sotto il cartello da cui era partita,
arrestò quella che in altri momenti sarebbe stata una
15
comica corsa all’indietro. E poi, sotto gli occhi increduli
di Alice, svanì.
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17
Il dr. Freud
l cielo sbiadì in un grigio plumbeo. Il terreno sotto i
piedi perse consistenza. Le sue Timberland affonda-
vano sempre più nella fanghiglia rendendo la corsa
di Marco un’impresa titanica. Dalle crepe nel muro di sas-
si sbucavano viscide serpi che sembravano volergli sbar-
rare la strada. Marco inorridì. Voleva correre più forte e
sfuggire a quell’orda strisciante ma le gambe erano troppo
pesanti, la terra melmosa ingoiava i suoi piedi fino alle ca-
viglie. Nell’inerzia dello slancio Marco perse l’equilibrio.
Mentre cadeva in avanti un enorme serpente con le fauci
spalancate gli si avventò contro.
Incagliato nelle lenzuola madide di sudore, Marco urlò in-
frangendo il silenzio della sua camera da letto.
“Dio mio”, pensò. “Era un cazzo di sogno!”
Ancora scosso dal terribile incubo si mise seduto sul letto.
Prese l’orologio e guardò l’ora. Cinque minuti alle sette. Si
tirò su, ancora intontito. Gettò uno sguardo all’uomo ri-
flesso nello specchio accanto alla porta e non parve parti-
colarmente compiaciuto di ciò che vide. Aprì la porta, si
I
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passò la mano nei capelli scompigliati ed uscì dalla stan-
za.
“Pronto?”
“Marco, buongiorno! Sono Diego”
“Oh, buongiorno dr. Freud. A cosa devo questa gradita
sorpresa?”
“Sai, il mio paziente delle 11,30 si è suicidato stanotte,
perciò adesso c’è un buco nella mia agenda.”
“Molto divertente, dr Freud”
“Scherzi a parte, Marco. Se riesci ed essere qui per le
11:30, facciamo le nostre cosette e poi magari pranziamo
insieme. Che ne dici?”
“Ehm ...”, Marco esitò qualche istante.
“Ecco la giuria che si ritira per deliberare!” lo canzonò
Diego.
“Va bene, Diego”, concluse. “Ci sarò”
“Wunderbar”, chiosò il dr Freud.
Diego era quanto rimaneva della sua famiglia. Ed era an-
che la ragione per cui non si era ancora deciso di farla fi-
nita. Dopo l’incidente gli era stato addosso impedendogli
di compiere ciò che sembrava essere la cosa più giusta da
fare. E tuttora lo teneva, a suo dire, fuori dal tunnel delle
angosce.
Ma il rimorso era insopportabile. Nadia e Giada non
19
c’erano più. E, a dispetto degli sforzi di Diego, in cuor
suo sapeva di essere stato lui ad ucciderle.
Giunse allo studio del dr. Freud in ritardo. Da quando
aveva smesso di guidare si spostava in autobus. La puntu-
alità era una virtù che ormai sfuggiva al suo controllo.
“Venti minuti di ritardo!”, lo ammonì scherzosamente
Diego. “Il mio tempo è denaro, lo sa?”
“Allora il pranzo lo offri tu, dr Freud”, replicò Marco.
“Ok, ok”, disse ridacchiando Diego. “Accomodati che
cominciamo subito”
Marco si sedette sulla poltrona riservata ai pazienti, come
sempre un po’ a disagio. Diego invece si piazzò sul suo
sgabello accanto alla poltrona e invitò Marco a chiudere
gli occhi e rilassarsi.
“Marco”, esordì. “la domanda di apertura la conosci, no?”
“Si. La conosco.”, rispose Marco un po’ piccato. “A pro-
posito, quando deciderai di cambiare il repertorio?”.
Diego sorrise ma si era già calato nel suo ruolo.
“Ti ascolto”, tagliò in tono asciutto.
“Ho avuto un terribile incubo”, cominciò Marco. “Avevo
dimenticato l’incidente. Pensavo a loro come fossero an-
cora vive”, poi si interruppe, quasi a voler recuperare la
calma, “ricordi quel posto fuori città dove qualche volta
vado a rifugiarmi?”, aggiunse.
“Ricordo” annuì Diego
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E Marco iniziò il suo racconto.
Quando ebbe terminato, Diego disse: “I sogni sono spec-
chi, Marco. I bisogni, i desideri ma anche le sconfitte e le
angosce diventano, nei sogni, l’immagine riflessa di te. Ma
voglio svelarti un segreto. Se vuoi, puoi cambiare quello
che ci vedi dentro. Freud diceva che i sogni custodiscono
un messaggio nascosto. Ma a volte si manifestano come
censura di esso.”
“Ma che diavolo di messaggio può esserci in un serpente
che decide fare uno spuntino con la tua faccia?”
Diego sapeva che il restare ancorato al proprio passato,
l’incapacità di guardare avanti, erano il vero problema di
Marco. Spingerlo a cercare un nesso tra sogno e la realtà
era un azzardo. Tuttavia sperava che in quella ricerca
Marco trovasse la sua epifania. Doveva ritrovare una ra-
gione per vivere.
“Marco”, concluse. “Devi trovare da te la risposta. Posso
solo dirti che i nostri sogni sono bussole che impediscono
alla nostra anima di perdersi. Devi imparare ad usare la
tua bussola”
“Diego, io ... non credo di capire”
“E io che ci sto a fare? Il fatto che non ti faccia pagare la
parcella non vuol dire che le mie sedute non valgano nul-
la.”
“Touchè” concordò Marco.
“Per oggi può bastare. Andiamo a pranzo, mentecatto”
21
“Paghi tu, dr. Freud”
“Si, va bene, va bene, l’hai già detto!”
Marco si sentiva oppresso dai tentativi di Diego di spin-
gerlo all’azione. Non vedeva più nulla per cui valesse
davvero la pena vivere.
A pranzo Marco mangiava svogliatamente. Sembrava tur-
bato, assente. Diego, lo osservava in silenzio. Vedendolo
così diverso dall’irrequieto idealista che secoli prima aveva
sposato sua sorella, ebbe una fitta al cuore. In
quell’istante Marco posò la forchetta facendola tintinnare
nel piatto, guardò Diego negli occhi e disse:
“So cosa devo fare”.
22
23
Alice torna a casa
on le dita ancora serrate sul pomello della porta,
lo ruotò e tirò con foga. La maniglia si staccò
con uno schiocco secco. Alice perse l’equilibrio.
Cadendo batté la nuca ma l’erba ne attutì le dolorose
conseguenze. Riversa su un fianco, si guardò la mano
destra. Sul palmo aveva un taglio, forse causato da un
frammento del pomello spezzato. Nel silenzio tombale di
quel luogo, Alice rimase a fissare il punto in cui l’essere
mutante era vaporizzato. I’orgia di emozioni che l’aveva
assalita era collassata in una rassegnata abulia. Poi un
suono stentoreo e improvviso la fece trasalire. Musica.
Una chitarra dietro di lei accompagnava i versi di una
canzone.
“Meglio cominciare da quello che mi viene più semplice da poterti
raccontare ...”.
Conosceva quella canzone. I Modà. Li adorava. Ma in
quel frangente le sembrò sbagliata, ostile. Era intrappolata
in un mondo fatto di erba e cielo. Il cantante solista, quasi
a volerla beffeggiare, chiosava:
C
24
“La vita ci consegna le chiavi di una porta e prati verdi sopra i
quali camminare”.
Poi tutto cominciò a oscurarsi, la luce si attenuò, i colori
sbiadirono. Il mondo veniva pian piano avvolto in un
nero sudario e Alice con esso. I Modà, incuranti,
seguitavano a cantare.
“Puoi correre o fermarti, puoi scegliere tra i frutti”.
La musica risuonava più forte, mentre le tenebre
inghiottivano ogni cosa. Nell’oscurità in cui era piombata,
Alice si sentì, ad un tratto, risucchiare all’indietro e poi
respingere da una forza invisibile, come se fosse
precipitata nel vuoto e poi rimbalzata su una rete di
sicurezza. Atterrita e sul punto di perdere la ragione,
gridò con quanto fiato aveva nei polmoni. Infine cadde
distesa, con le palpebre serrate e le mani premute con
forza sul volto imperlato di sudore. E quando i Modà,
dall’altoparlante della sua radiosveglia sentenziarono
“ ... i sogni son le ali per volare”, Alice si risvegliò.
Più tardi era alle prese con un algoritmo dannatamente
ostico. I numeri non tornavano. Intoppi così le
capitavano spesso. I suoi capi sceglievano sempre lei
quando un progetto richiedeva una mente brillante e fuori
dagli schemi. E lei non li tradiva mai. Quella mattina stava
soccombendo ad un problema di calcolo di rischio
25
bancario. Non riusciva, come le piaceva dire, a
visualizzare il successo.
“Alcesti”, pensava. “Mi ha chiamato Alcesti”
Aveva provato per tutta la mattina a scacciare via il
ricordo della sua esperienza notturna (così aveva deciso di
definirla).
“Alcesti ...”, quel nome le si era conficcato nel cervello
come un chiodo nel muro. Le era impossibile
concentrarsi. Poi ricordò la biblioteca che aveva notato
proprio dirimpetto alla banca presso cui lavorava. Decise
di farci un salto dopo pranzo. Quell’intuizione le rischiarò
la mente come un’alba equatoriale. Fissò lo sguardo sul
monitor, diede una scorsa veloce al programma che si
faceva beffe di lei da tutta la mattina. A circa tre quarti
della pagina si fermò e sorrise. Aveva visualizzato il
successo.
“Mi scusi ...”, cinguettò Alice mentre attraversava la
strada. “lo so che è ancora presto, ma avrei bisogno di un
grande favore. Tra qualche minuto devo tornare a lavoro,
lì di fronte, vede?”.
“Oh ...” disse Marco, preso alla sprovvista.
“La prego, le ruberò solo qualche minuto, forse meno se
magari mi potesse dare una mano”.
Marco aveva ancora la chiave elettronica infilata nello slot
del sistema di allarme. La biblioteca avrebbe aperto al
26
pubblico mezzora più tardi ma lui preferiva arrivare
prima, controllare che tutto fosse in ordine (e non lo era
mai) e a volte, se c’era il tempo, si concedeva qualche
minuto per scrivere. Appunti più che altro, per un
romanzo che non aveva mai cominciato. Benché
quell’abitudine, tra le altre, fu bruscamente interrotta
quando il destino gli portò via moglie e figlia.
“La prego ...”, ammiccò Alice sfoderando un sorriso di
irresistibile bellezza.
“Ok, signorina ...”
“Alice!” si precipitò a rispondere
“Bene Alice, io sono Marco. La farò entrare ma dovrà
attendere qualche minuto.”
“Nessun problema” disse soddisfatta.
Quando fu tutto pronto, Marco invitò Alice ad entrare,
poi bloccò il sistema di apertura automatica della grande
porta a vetri scorrevoli. Era ancora presto.
“In cosa posso aiutarla?”
“Ecco.. io.”, Alice si morse un labbro, non aveva
preparato una scusa plausibile. “Una mia ... ehm ... amica
stamattina mi ha scherzosamente affibbiato un
soprannome. E ... volevo saperne di più”, improvvisò.
“Vediamo se ho capito bene.” Replicò Marco. “Una sua
amica l’ha presa in giro e lei ha pensato di correre in
biblioteca, in orario di chiusura vorrei aggiungere, per
approfondire. E’ così?” chiese Marco divertito.
27
“Più o meno. Si”, rispose Alice sentendosi una stupida.
“Fossero tutti così, le biblioteche somiglierebbero a dei
centri commerciali” la canzonò Marco. “Molto bene. E
qual è questo misterioso soprannome?”
“Alcesti”
“Alcesti? Ne è sicura?”
“Si, è proprio quello. Alcesti”
“Uhm ... interessante” disse Marco incuriosito.
“Comincerei con un testo di mitologia greca. Venga con
me, faremo più in fretta”.
28
29
Reminiscenze
iego accompagnò alla porta l’ultimo paziente
della giornata, poi tornò alla scrivania e ripose
gli appunti nella cartella. L’archiviò, insieme
alle altre, in una vecchia cassapanca in giunco, cimelio di
un tempo in cui i suoi studi sulle migrazioni della mente –
così li definiva – erravano, fagotto in spalla, nei più
remoti angoli del mondo. Esitò qualche istante
sull’etichetta storta di una scatola, vi si leggeva MDM. La
sfiorò come fosse una reliquia; sospirando richiuse il
coperchio dell’improbabile schedario e tornò a sedersi alla
scrivania.
Decise di aprire il cassetto di fronte a sé e tirò fuori un
taccuino, lo sfogliò finché non trovò la pagina che
cercava.
Rilesse quanto aveva registrato del sogno di Marco, poi
tornò sulla prima pagina, fissò per un po’ il primo
capoverso:
14 Maggio – Marco è ancora chiuso nel suo silenzio. Continua a
declinare il sostegno psicologico offerto dalla clinica. Dal giorno del
D
30
suo risveglio rifiuta di mangiare. Nella mia ultima visita non mi ha
parlato ma ha pianto per quasi tutto il tempo. Temo che…
Diego si passò il dorso della mano sugli occhi, le lacrime
gli offuscavano la vista. Posò il taccuino e ricordò. La
maledetta telefonata dalla clinica.
La straziante identificazione: il volto sfigurato e quasi
irriconoscibile di Nadia, il corpicino di Giada
incredibilmente senza un graffio, a meno dell’innaturale
vuoto là dove avrebbero dovuto esserci le gambe.
Ricordò di un poliziotto che gli fece un resoconto
dell’incidente; questi gli riferì che Marcò aveva perso il
controllo dell’auto finendo nella corsia opposta. Poi, nel
tentativo di schivare l’impatto con un altro veicolo, era
finito fuori strada facendo un volo di 15 metri.
L’auto aveva cappottato diverse volte prima di incastrarsi
tra gli alberi. La donna al suo fianco era morta sul colpo,
colpita alla testa da un ramo che aveva sfondato il
parabrezza. La bimba era morta dissanguata a causa di
una roccia che aveva perforato la portiera tranciandole
entrambe le gambe. Ricordò le lunghe attese seduto
accanto al lettino di Marco. Ricordò il suo risveglio dal
coma, un cazzo di miracolo dopo tre mesi di lacrime e
dolore. E ricordò quando dovette dirglielo. Così il
miracolo fu cancellato da un’ondata di angoscia come una
scultura di sabbia dalla marea.
31
Ricordò, e pianse.

Quando giunse alla stazione degli autobus la trovò quasi
deserta. Non era sicuro del perché volesse tornare lì ma
sentiva di doverlo fare. Diego aveva suggerito di cercare
un significato al suo sogno e perciò avrebbe iniziato la
ricerca nel suo rifugio di sempre.
“Mi scusi” disse Marco. “devo raggiungere la vecchia
fabbrica abbandonata. Ha presente? Quella sulla statale
nord”.
“Si la conosco. Mi dispiace, ma nessun autobus passa di
là.”
“Ne è sicuro?” chiese Marco.
“Sicurissimo” rispose l’uomo al di là del vetro.
“Mi sa dire come potrei fare per arrivarci?” insistè Marco.
“Cosa vuole che le dica, faccia l’autostop” replicò l’uomo
senza nemmeno guardarlo.
“Grazie” disse Marco. Stronzo, sentenziò allontanandosi
dal chiosco della biglietteria. Però lo stronzo non aveva avuto
una cattiva idea, pensò Marco e si avviò verso la statale.
“Ehi giovanotto” disse un uomo seduto su una panchina.
Era anziano, minuto, simpatico tutto sommato.
Indossava la divisa della società dei trasporti pubblici.
Probabilmente un autista in pausa, pensò Marco.
32
“Dice a me?” chiese Marco.
“Non vedo altri giovanotti qui in giro, non ti pare?”
ribatté l’anziano, “non ho potuto fare a meno di ascoltare,
sei diretto alla vecchia fabbrica di veleni, ho capito bene?”
“Già. E a quanto pare mi tocca camminare”.
“Solo fino al mio autobus, giovanotto. Solo fino al mio
autobus” disse sorridendo l’attempato autista.
“Ma il suo collega mi ha detto che…”
“Lascia perdere.” Lo interruppe il vecchio. “Quell’idiota
non saprebbe trovare un cane in un canile. Andiamo
giovanotto, fra tre minuti il 14 riprende la corsa. Non
vorrai perdere l’autobus, vero?”

Quella sera, nel suo letto, Alice pensava alla ricerca fatta
con Marco, alle strane implicazioni che Alcesti aveva nella
cultura di molti popoli. Il valore simbolico che aveva
rappresentato in ogni tempo. Era rimasta affascinata
dall’idea di una donna coraggiosa che aveva sfidato la
morte brandendo l’amore quale unica arma, e aveva vinto.
Marco aveva trovato menzione di Alcesti anche in ambiti
scientifici, come metafora di speranza dopo una triste
perdita. E fu dopo quella scoperta che Marco si adombrò.
Alice intuì che gli fosse accaduto qualcosa di doloroso, un
lutto recente forse. Così, con discrezione, si mostrò
33
soddisfatta suggerendo di terminare la ricerca. Marco le
piaceva, lo trovava gentile, acuto, colto, con uno spiccato
senso dell’umorismo. Il fatto che fosse anche un figo da
paura certo non guastava. Eppure c’era qualcosa che lo
turbava. Vagò tra riflessioni e ricordi per un tempo
imprecisato finché, con il sorriso di Marco sullo sfondo
dei suoi pensieri, sprofondò tra le scure coltri del riposo
notturno.
Alice si era addormentata ma non riposò. Affatto.
34
35
In viaggio con Ronnie
spetta giovanotto” disse l’autista. “Non stai
dimenticando qualcosa?”.
Marco si bloccò con un piede sul primo gradino
e guardò perplesso il vecchio che sorrideva con il palmo
aperto proteso verso di lui.
“Le regole sono regole, giovanotto” aggiunse l’autista. “Il
tuo obolo per un biglietto” e scoppiò a ridere come se
avesse appena fatto la battuta del secolo.
Marco sorrise di rimando, e tirò fuori il portafogli.
“preferirei in monete se non ti dispiace” lo incalzo il
vecchio.
“Ma certo” rispose Marco. “Ecco, ho queste, possono
bastare?”.
“Una. Ne basta una” rispose l’autista. “Salta su. E’ ora di
andare Admeto”.
Qualche istante dopo, l’autobus di linea numero
quattordici inghiottì Marco, unico passeggero di quella
sua corsa, e partì lasciandosi dietro una nuvola di polvere
gialla.
A
36
“Scusi, come mi ha chiamato?” chiese Marco piazzatosi in
piedi accanto al posto di guida.
“Come dici giovanotto?”
“Prima, mi è parso che lei mi abbia chiamato in qualche
modo”.
“Davvero?” rispose il vecchio senza mai distogliere lo
sguardo dalla strada. “Beh” proseguì, “allora forse è il
caso di fare le presentazioni. Mi chiamo Daimon Charon,
ma tutti mi chiamano Ronnie”.
“Piacere, Ronnie” rispose Marco. “Io sono…”
“Oh, so bene chi sei” lo interruppe il vecchio.
Marco trasalì, come qualche volta accade a chi scopre,
dopo la partenza, di aver preso il treno sbagliato.
Era disorientato, e in quel momento ebbe la chiara
sensazione che salire su quell’autobus fosse stata una
pessima idea.
“Giovanotto, non devi allarmarti. Porto avanti e indietro
questo autobus da sempre, si potrebbe dire. E non è che
mi dispiaccia. Da questa altezza, dietro questo enorme
cristallo, vedo il mondo andare avanti. Non puoi credere
quante vite ho visto salire qui accanto a me e scendere
dalla porta posteriore. Desideri a volte realizzati, altre no.
Fatiche a volte premiate e altre sprecate. Promesse a volte
mantenute, altre tradite. E rimpianti, tanti e tanti
rimpianti. Chiunque sia sceso dalla linea 14 non è mai più
risalito. Questo autobus, giovanotto, ha portato a
37
destinazione intere generazioni ma è tornato sempre
vuoto al capolinea. Quanta gente ho conosciuto. Non
ricordo tutti i nomi, e per la verità nemmeno me ne
importa, sai? Ma tu, Admeto, tu sei speciale. Tu sei
l’unico ad essere tornato indietro.”
“Vecchio, tu stai farneticando” ribatté Marco. “Ferma
l’autobus, voglio scendere”.
Marco cominciava ad avere paura. Fu investito da una
raffica di ricordi. Provava a metterli assieme ma ciò che
ne veniva fuori era qualcosa di assurdo e ostile. Come
l’opera di un sadico giocattolaio che realizza esseri
mostruosi dai pezzi dei giocattoli lasciati a marcire in
qualche buia soffitta. Ricordò il mito di Alcesti e del suo
defunto marito Admeto. Ricordò Alice e sospettò che
forse non gli aveva raccontato tutta la verità. Ricordò
Diego e il suo strano suggerimento. Ed ebbe l’irrazionale
certezza che tutto questo avesse un senso.
“Giovanotto, io non credo tu voglia davvero scendere.
Permettimi di raccontarti una storia” propose l’autista.
“Poi, se ancora lo vorrai, accosterò e ti farò scendere.”
“Va bene, Ronnie” rispose Marco. “Ma sappi che se non
manterrai la parola, ti costringerò con la forza”.
“Più che giusto” replicò Ronnie. “Qualche tempo fa, non
molto, stavo completando l’ultima corsa della giornata.
Era già buio pesto. La poca gente sull’autobus era seduta
a farsi i fatti suoi. Una coppia di ragazzi che amoreggiava
38
nei sedili di dietro. Un uomo, col soprabito sdrucito, che
leggeva svogliatamente, un tascabile messo al contrario
tra le mani. Una bambina che piangeva tra le braccia di
sua madre. Le facevano male le ginocchia e si lamentava.
Forse aveva saltato troppo alla corda, o forse era caduta.
Sai come sono i bambini, hanno energia da leoni per tutto
il giorno, ma poi, alla sera, frignano per questo o per
quell’altro prima di addormentarsi esausti. Comunque,
sua madre cercava di consolarla, le accarezzava le
ginocchia e le sussurrava qualcosa per calmarla. Forse una
filastrocca o una nenia, chi lo sa. Ma la bambina
continuava a piangere e…”
Ronnie esitò per qualche istante e a Marco sembrò di
scorgere nel suo volto un ghigno represso che gli gelò il
sangue.
“…a chiedere del suo papà. Mammina, dov’è papy?
Chiedeva in continuazione. Sua madre la stringeva a sé,
dondolando dolcemente. E proseguì così per tutto il
viaggio”.
“Ma cosa diavolo c’entra tutto questo con…”
“Fammi finire la storia, giovanotto” disse Ronnie.
“Dunque, arrivati a destinazione fermo l’autobus e, come
sempre, apro la porta di dietro. I due fidanzatini furono i
primi a scendere, il lettore di libri sottosopra restò lì,
come se non si fosse accorto di nulla. La donna, invece
mormorò amorevolmente qualcosa alla bambina, che non
39
aveva ancora smesso di piangere. Le disse che bisognava
scendere. Ricordo ancora bene le sue parole…” Ronnie
guardò Marco con un sorriso gelido e aggiunse “…Su, fai
la brava, Giada. Papà arriverà presto”.
40
41
Sulle tracce di Marco
‘ultima folata di vento colpì la finestra quasi a
volerla sfondare. Il fragore improvviso svegliò
Alice. Al buio della sua stanza, guardò la finestra.
La pioggia batteva sui vetri come una gragnola di sassi.
Lei si tirò su e rivide lo specchio nell’angolo. Stai sognando
disse una voce nella sua testa. Svegliati Alcesti, fai ritorno al
tuo mondo. Non è un posto sicuro qui. Alice non le diede
ascolto e guardò nello specchio. Riconobbe se stessa con
addosso la t-shirt dell’Hard Rock Cafè di Dublino, troppo
grande per la sua taglia. Svegliati Alcesti, svegliati insisté la
voce. Ma Alice, incurante, continuò ad osservare la sua
immagine riflessa. Sfiorò con le dita la superficie dello
specchio e sentì la fredda e liscia consistenza della lastra
ma qualcos’altro catturò la sua attenzione. Nell’immagine
scorse, alle sue spalle, l’angolo di un poster senza cornice
appeso alla parete, linea quattordici pensò.
Si voltò e si avvicinò al poster. Rimase lì a scrutarlo e
ricordò; il temporale, la stanza così simile alla sua e tutti
quegli oggetti che non appartenevano a lei. Era di nuovo
dentro la sua esperienza notturna, eppure percepiva
L
42
qualcosa di diverso. Svegliati Alcesti, lascia questo luogo
desolato sollecitò la voce. Alice la scacciò fissando
l’attenzione sul poster e capì. L’immagine era cambiata;
quello che lei aveva creduto fosse un volgare atto
amoroso, era qualcosa di più raccapricciante. L’uomo
disteso aveva il torace coperto da una grande macchia
rossa, la donna su di lui era coperta da una veste bianca
insudiciata di fango e sangue. Sembrava lo stesse…
divorando. E in quell’istante li riconobbe entrambi.
“No, non può essere” esclamò. “Marco…”.
Svegliati stronza! Torna da dove sei venuta! Lui è mio! Urlò la
voce nella sua testa.
Alice arretrò di un passo per allontanarsi da quell’orrore,
poi si girò, corse verso la porta e la aprì. Dal buio oltre
l’uscio le si avventò contro il voltò fetido e urlante della
donna in bianco. In preda al terrore, Alice urlò con lei.
Poi vide le fauci insanguinate della donna in bianco
dischiudersi come per prepararsi a scattare in un ultimo
morso letale. Il suono che ne venne fuori fu il grido
stridulo di bambini agonizzanti sotto atroci torture. Alice
gridò ancora più forte e, in un disperato tentativo di
difesa, si coprì il volto con gli avambracci in attesa di
essere azzannata a morte. Ma in quell’istante il mondo
intorno mutò. Le urla, le voci, il vento, erano svaniti.
Alice abbassò le braccia e aprì gli occhi. Il sole del
mattino lambiva le lenzuola che le avvinghiavano le
43
gambe. Guardò la sua stanza come per la prima volta. Dio
mio, pensò. E’ stato terribile.
Con un sospiro si coprì il volto con le mani e prese a
massaggiarsi le tempie. Poi, come colpita da un secchio
d’acqua gelata, balzò a sedere sul letto ed esclamò:
“Marco! No!”

Diego parcheggiò la sua auto poco più avanti l’ingresso
della biblioteca. Prima di scendere pensò alle ultime
parole del cognato: so cosa devo fare. Quella inattesa
risolutezza, nel mare di apatia in cui Marco rischiava di
annegare, non lasciava presagire nulla di buono. Perciò
scese dall’auto deciso a riprendere il discorso con lui.
Davanti alla porta di ingresso della biblioteca, si fermò
cedendo il passo ad una ragazza che arrivava quasi
correndo. Nello slancio, questa gli finì addosso.
“Ehi! Stia attenta” esclamò Diego.
“Mi scusi. Si tratta di un’emergenza” disse lei. E senza
fermarsi si precipitò all’interno.
“Salve” disse Alice alla donna seduta dietro al bancone.
“vorrei parlare con il suo collega. Marco. Può chiamarlo?”
“Mi dispiace signorina, Marco si è preso la giornata
libera” rispose la donna.
“Oh. Ma non sa dove posso trovarlo?”
44
“No. Spiacente, non saprei proprio”
“Ne è sicura? Si tratta di un’emergenza. Devo trovarlo
assolutamente” insisté Alice.
“Mi scusi signorina” intervenne Diego. “Lei sta cercando
Marco?”
“Si! Lo conosce? Sa dov’è?”
“Certo, sono suo cognato. Ma si calmi signorina.”
“Suo cognato? Davvero?”
Diego, rivolgendosi alla donna dietro al bancone, annuì
con la testa.
“Andiamo fuori di qui e mi racconti tutto” disse alla
ragazza conducendola verso l’uscita.
“Guardi, lì c’è un bar” aggiunse, indicando un locale
dall’altra parte della strada. “Le va di parlarne dietro ad
una tazza di caffè?”
“D’accordo” rispose la ragazza.
Quando furono dentro, Diego ordinò due caffè e
accompagnò Alice a sedersi.
“Allora signorina. Lei è?”
“Mi chiamo Alice. Ho conosciuto Marco in biblioteca, mi
ha aiutata in una ricerca”
“Piacere di conoscerti. Ti dispiace se ti do del tu?”
“Affatto”
“Io mi chiamo Diego. In biblioteca parlavi di
un’emergenza. Di che si tratta?”
Grandioso, e adesso cosa gli racconti? pensò Alice.
45
“Alice, non so quanto tu conosca Marco. A giudicare
dalla tua agitazione direi abbastanza. Anche io sono
preoccupato per lui.”
“Davvero? Perchè?”
“E’ complicato, non posso dirti altro. Ma dimmi, tu
perché lo stai cercando?”
“Ah bene. Tu non puoi?” rispose Alice indispettita. “Beh,
signor cognato di Marco, ti conviene spiegarmi tutto se
vuoi che io faccia lo stesso”.
46
47
Multiverso
on gli occhi fissi sulla tazzina, Diego le raccontò
della tragedia che aveva colpito Marco, della
depressione in cui era caduto e dalla quale non
era ancora uscito.
“Diego mi hai detto tutto?” chiese Alice dubbiosa.
“Credo di si. Perché?”
“Tu perché lo stai cercando?”
“Ecco io…” Diego esitò e la guardò. Quel volto inquieto
di donna innamorata lo spinse a continuare.
“Ieri mattina Marco è venuto da me; era turbato.
Abbiamo pranzato insieme e prima di andarsene mi aveva
rivelato di aver capito cosa fare. Gli ho chiesto
spiegazioni ma lui, con un sorriso che non vedevo da
secoli, mi ha salutato, e mi ha piantato lì. Non so perché
l’ho lasciato andare ma ora…”
“Temi che faccia qualche sciocchezza?” lo interruppe
Alice.
“Si”
“Hai detto che era turbato. Per cosa?”
“Un sogno”
C
48
“Sogno? Quale sogno?” Alice impallidì.
“Ti senti bene? Sei diventata bianca come un cencio”
“Sto bene. Ti prego Diego, dimmi del sogno”
Diego cominciò a sospettare che Alice sapesse qualcosa e
intendeva scoprire cosa, perciò decise di accontentarla e
al diavolo il segreto professionale, a dirla tutta Marco non
avrebbe dovuto nemmeno essere un suo paziente.
“Va bene, lo farò. Ma prima devi dirmi perché sei qui”
Alice sentiva di potersi fidare di quell’uomo. In fondo era
un medico e non l’avrebbe derisa. E poi Marco forse era
in pericolo e a quel pensiero la sua riluttanza si sciolse
come neve al sole.
“Anche io ho fatto dei sogni. E’ lì che ho visto Marco per
la prima volta”
“Aspetta. Vuoi ripetere?”
“Ho sognato Marco quando ancora non lo conoscevo.
Quel sogno mi ha spinto ad andare in biblioteca. Non lo
riconobbi fino a stanotte, quando l’ho sognato ancora.
Credo gli possa accadere qualcosa di terribile”
Non può essere, pensò Diego. Non qui. Non a Marco.
“Alice, faccio fatica a seguirti. Ma…”
“Credi sia fuori di testa, vero?”
“No ma ho bisogno di saperne di più, andiamo nel mio
studio e di corsa”
“Diego, che succede?”
49
“Spero di sbagliarmi. Ma se così non fosse siamo nei guai.
Guai seri. Andiamo”

“Bastardo! Come fai a conoscere la mia bambina?” Marco
si scagliò contro l’autista. Gli occhi di Ronnie mutarono
in ripugnanti ovuli rossastri e prima che Marco riuscisse
ad afferrarlo gli puntò contro due dita mimando il gesto
della pistola.
“Bang!” disse Ronnie.
Un pugno invisibile colpi Marco facendolo stramazzare di
schiena sugli scalini del bus. Sanguinante da un labbro
provò a rialzarsi senza successo.
“Giovanotto, resta dove sei. Non è con me che devi
prendertela. Sono soltanto un umile nocchiero”
“Vaffanculo!” replicò Marco piangendo.
“Su… Admeto, non disperare. Stai tornando a casa. Lei si
prenderà cura di te. Così come si è presa cura di tua
moglie. E di tua figlia. Si prende cura di tutti lei”
“Che cosa vuoi da me?”
“La linea 14 fa viaggi di sola andata, giovanotto. Hai fatto
incazzare tutti tornando indietro. Io faccio solo il mio
dovere. Porto la gente dove deve andare”
50
Marco faceva fatica a respirare. Rinunciò a tirarsi su, la
schiena gli faceva troppo male così proseguì il viaggio
accasciato e inerme come una marionetta abbandonata.
Ronnie continuò a guidare in silenzio finché il fragore
assordante dei freni annunciò che la linea 14 era giunta al
capolinea.

“Accomodati” disse Diego “lì, su quella poltrona. Io
torno subito”
“Dove vai?”
“A prendere una cosa. Serviti da bere”
“No, grazie. Sono a posto”
Diego ritornò portando uno scatolone impolverato.
Sull’etichetta era scritto MDM.
“Cos’è?” chiese Alice.
“Il mio personale vaso di Pandora”
“Sarebbe a dire?”
“Migrazioni della mente. Il mio campo di ricerca fino a…
qualche anno fa”
“Ha a che fare col paranormale?”
“No. Quelle sono solo cazzate. E' scienza. Fenomeni
fisici mai rivelati pubblicamente.”
“Non capisco”
51
“Hai mai sentito parlare di teoria delle stringhe? Di
multiverso?”
“Credo di aver letto qualcosa. E allora?”
“Esistono molti mondi, Alice. Esistono molti noi. Ogni
volta che siamo di fronte ad una scelta diamo vita a tante
realtà quante sono le possibili opzioni. Che tu ci creda o
no, questo è stato dimostrato”
“Diego, io non…”
“Ma non è finita qui. Alcuni di noi sono in grado di
viaggiare attraverso questi, chiamiamoli, strati
dell’universo. E in ognuno di questi c’è chi ha il dono, o il
compito… di migrare nel multiverso”
“Migrazioni della mente” pensò Alice ad alta voce.
“Esattamente” esclamò Diego.
“Cosa c’è nella scatola?”
“Appunti” disse Diego mentre tirava fuori dei logori
quaderni. “annotazioni di esperimenti, testimonianze,
diari di viaggio e… cazzo! Dov’è?”
“Cosa?”
“Maledizione, dov’è finito?”
“Diego?”
“Eccolo!” esultò Diego.
“Cos’è?”
“Un souvenir dal multiverso”
“Che vuoi dire?”
“Non importa” taglio corto Diego.
52
“Ciò che conta ora è capire cosa sta succedendo. Ho
bisogno che tu mi racconti dei tuoi sogni senza trascurare
nulla. Ogni dettaglio è di vitale importanza”
“Si”
“Respira profondamente. Sgombra la mente e concentrati
sui sogni”
Alice chiuse gli occhi, inspirò a fondo e sentì la tensione
accumulata disperdersi come polvere al vento. E nel
torpore lucido in cui era scivolata, iniziò il suo racconto.
53
54
55
Lemniscata Migrationum
onnie posò la mano sulla manopola accanto al
volante e la ruotò. La porta laterale si spalancò e
Marco stramazzò fuori dall’autobus. L’erba folta
e rigogliosa attutì la caduta ma non gli risparmiò una
lancinante fitta alla schiena già dolorante.
“Fanculo!” inveì Marco riverso su un fianco.
“Scusa tanto giovanotto” disse Ronnie ridacchiando. “Ce
la fai a rialzarti?”
Marco lo guardò con odio puro ma non rispose.
“Mi rincresce dovermi congedare. Mi sei simpatico
giovanotto ma devo proprio andare. Altro giro, altra
corsa mon ami”
Una nuova detonazione del meccanismo di manovra delle
porte coprì le risa di Ronnie. Marco rialzatosi sui gomiti
guardò la linea 14 allontanarsi tra i lamenti delle vecchie
sospensioni maltrattate dal terreno sconnesso.
Con doloroso sforzo si tirò su aggrappandosi al palo
vicino al quale era rotolato. Quando fu in piedi si guardò
attorno. Campi erbosi si estendevano in ogni direzione.
Alzò lo sguardo e vide il cartello in cima al palo.
R
56
“Una cazzo di fermata di autobus” sibilò a denti stretti.
“DOVE CAZZO MI HAI PORTATO BASTARDO?”
L’urlo disperato di Marco squarciò il funereo silenzio di
quella bucolica desolazione. Stremato e terrorizzato
ricadde sulle ginocchia ignaro di non essere solo.
“Il mio cuore a te, Admeto” disse qualcuno alle sue
spalle, “Gli dei mi hanno benedetta, la mia pazienza è
premiata”.
Marco trasalì. Si girò e vide una fanciulla bellissima che gli
sorrideva. Un morbido drappo bianco la avvolgeva
mettendone in risalto le avvenenti forme.
“Ma chi…chi sei?” chiese disorientato.
“Oh, mio caro, non rammenti? Le anime perse non
hanno memoria”
“Chi sei? Che posto è questo?” ripeté Marco rialzandosi a
fatica.
“Questo è il luogo della ricompensa. E’ la promessa
esaudita, che lenisce i dolori e rifonde ogni sofferenza. Ti
aspettavamo Admeto e da ultimo sei giunto. Ora il mio
compito è condurti presso la tua dimora, dove altri
attendono il tuo arrivo”
La bianca figura si avvicinò quasi fluttuando. Le dita
sottili da bambina sfiorarono la guancia di Marco che non
si sottrasse. Il sorriso comprensivo della donna, quegli
occhi ingenui e antichi, avevano su di lui un potere
ipnotico e rassicurante.
57
“Io… non capisco”
“Placa i tuoi timori Admeto, posiamoci qui e riposiamo.
Un lungo viaggio ci attende”
Incapace di resistere alle tenere cure della donna, si
distese docile sul soffice letto di erba ai piedi della
fermata. La donna si sedette accanto a lui e col palmo
della mano gli accarezzò le palpebre in un tacito invito a
chiuderle.
“Dormi, mio caro. Via tempo venis”
Mentre Marco si assopiva, sul volto della donna cominciò
ad allargarsi un ringhio di trionfo. Con un sommesso
suono di ossa che si spezzano, la candida silhouette della
fanciulla cominciò a guastarsi. Poi si sporse in avanti
come un predatore che annusa il pasto appena cacciato.
“SEI MIO” grugnì l’animalesca creatura e, spalancando le
turpi fauci, si preparò a sbranare la sua ignara vittima.
In quell’istante un boato fece tremare la terra sotto di
loro. La creatura guaendo si ritrasse con balzo e si appiattì
nell’erba latrando come un cane ferito. Poco distante dalla
fermata sotto cui giaceva Marco, una invisibile membrana
si lacerò nell’aria, proiettando lampi di luce bluastra. Nel
mezzo dello strappo si materializzarono due sagome.
Alice e Diego erano migrati. Via tempo venis.

58
“Alice, i tuoi sogni così vividi, quegli oggetti che
appartengono a Marco, tutti quei dettagli che non potevi
conoscere, e poi…” Diego esitò.
“Poi cosa?” lo incalzo Alice.
“La distesa erbosa abitata da esseri deformi, non sei la
sola ad averne parlato”
“Cosa diavolo…”
“Alcuni la chiamano la Valle della morte, altri il
Capolinea”
“Altri? Ma di chi stai parlando?”
“Dei migranti. Persone come te, in grado di viaggiare tra
le pieghe del multiverso. Pensa che c’è chi è capace di
farlo semplicemente volendolo. Con la forza della
concentrazione”
“Mi prendi in giro Diego? Ma come è possibile?”
“Hai mai sentito di gente che ha il potere dell’ubiquità,
della levitazione o addirittura di teletrasportarsi?”
“Si certo, nei film fantasy” rispose lei.
“Ho studiato questi fenomeni per anni. Io li ho visti,
Alice. Li ho visti con questi occhi”
Non riusciva a credere alle parole di Diego. La realtà con
le sue regole e i suoi confini consolidati e prevedibili
aveva lasciato il posto ad un universo sconosciuto e ostile,
dove niente più era scontato. Niente più era sicuro.
59
“Alice” disse Diego sottraendola alle sue riflessioni “devo
chiederti di fare qualcosa di pericoloso. Non te lo
chiederei se non fosse l’unica speranza di salvare Marco”
“Vai avanti” disse lei.
Diego si alzò, si avvicinò alla scatola e tirò fuori una
specie di amuleto a forma di otto. Ad Alice sembrò una di
quelle fibbie di bronzo che aveva visto una volta in un
museo.
“Lemniscata migrationum” disse Diego.
“Come?”
“Lemniscata” ripetè, “Si chiama così. E’ un conduttore, ci
servirà per raggiungere Marco”
“Aspetta un momento. Hai detto: ci servirà?”
“Precisamente” sentenziò Diego “Migrerai al Capolinea.
E io verrò con te”
60
61
Via tempo venis
iego impartì le ultime istruzioni per il salto.
“salto? Quale salto?” chiese Alice allarmata.
“Non saprei. Qualcuno lo ha descritto così.
Ma non preoccuparti. Sei pronta?”
“Sì” rispose poco convinta.
Diego la guardò.
“Cosa c’è?” chiese lei.
“Nulla. Iniziamo”
E ancora una volta Alice fu alla mercé del dr. Freud.
“Brava, continua a respirare” la voce di Diego era quasi
un sussurro.
“E ora, mentre tu sei calma… e puoi sentire il tuo respiro
regolare e lento… non so se ti stia accorgendo… che
qualcosa dentro di te cambia”
Alice vinta dall’ipnosi sentiva defluire lentamente le forze.
Poi Diego tuonò: “BUIO”.
E Alice si spense.
Doveva affrettarsi. Infilò il conduttore al dito di lei. Fece
mente locale. Stava dimenticando qualcosa? Pensava di
no.
D
62
“Oh cazzo!” imprecò.
Tornò di corsa alla scatola e prese un sasso da cui
sporgeva una punta metallica. Il turacciolo del suo Borgogna,
Monsieur, pensò.
Mise l’oggetto in tasca, tornò da Alice e introdusse
l’indice nell’asola libera della lemniscata.
“Che Dio ci aiuti” sussurrò quando una luce blu li avvolse
sparandoli nel multiverso.

Il fragore provocato dall’arrivo dei migranti ridestò Marco
che si ritrovò madido e riverso sul prato. Rotolando su un
fianco guardò dove il rombo era diventato un crepitio.
Scorse due ombre che si tenevano per mano, socchiuse
gli occhi per mettere a fuoco e il suo cuore perse un
colpo.
“VOI INTRUSI… FORIRI MALBENIS… FORIRIII”
Le invettive del mostro fecero trasalire Marco che vide un
essere informe in tunica bianca che si scagliava,
ringhiando verso di… Diego, pensò.
“MIO DIO, DIEGO ATTENTO!”
Al grido di Marco la strega bianca arrestò la sua corsa.
“NE MOVAS VI” abbaiò minacciosa.
Approfittando di quell’esitazione Alice sfilò il dito
dall’anello di Diego e corse incontro a Marco.
63
“Alice aspetta” disse Diego tentando invano di fermarla.
Marco la vide arrivare e la riconobbe.
“Alice? Alice ma che diav… NOOO”
Marco vide la creatura gettarsi sulla ragazza atterrandola e
scomparendo nell’erba alta. Lui e Diego accorsero nel
tentativo di salvarla ma quando giunsero, predatore e
preda erano scomparsi.
“Diego, che cazzo sta succedendo qui?” disse Marco
stravolto. “Cos’è questa follia? Diego!”.
“Marco! Ti abbiamo trovato, grazie a Dio”
“Cristo. Che storia è questa?”
Diego non ebbe il tempo di rispondere. All’improvviso il
cielo si oscurò, la terra cominciò a tremare. Sotto i piedi
di Diego si aprì una frattura nel terreno. Dalla voragine
che si andava allargando si udì un richiamo: “Admeto,
mio diletto”e sotto lo sguardo incredulo dei due uomini,
Alice emergeva dalle profondità del crepaccio.
“Dolce Admeto, mio promesso. Quanto lunga fu l’attesa.
Vieni a me, che io possa deliziarti”
“Alice…” disse Marco esitante.
“No Marco, non è lei” sentenziò Diego.
“Sarò chi vuoi che io sia, mio amato” disse la donna
lanciando a Diego uno sguardo feroce.
“Vieni a me, dolce sole”
64
I lunghi capelli di Alice si ritirarono e virarono al biondo,
anche il viso mutò e Marco rivide la defunta moglie viva e
vegeta.
“Santo dio Nadia”
“Amor, tu riporti luce nei miei giorni”
Diegò provò una fitta al cuore. Sorellina, pensò. Ma non
cadde nell’inganno.
“Marco non crederle”
“Vieni a me, caro. Giada ha bisogno del suo papà” disse
Nadia tendendo le braccia.
“Tesoro, sei davvero tu?” chiese Marco incredulo.
Diego si guardò le mani, all’indice aveva ancora la
lemniscata. Chiuse gli occhi e chinò il capo. Una lacrima
gli segnò la guancia. Sapeva di non avere scelta. Quando
alzò lo sguardo era tornato il lucido e compassato dr.
Freud.
“Marco, guardami. ADESSO!” tuonò.
“Diego…”
“Stai zitto e ascolta” tagliò corto, “Prendi” disse,
lanciandogli l’anello che Marco afferrò al volo.
“Cos’è?” chiese.
“E’ l’unica speranza che hai di tornare a casa”
“Ma…”
“Silenzio. Tienilo sempre con te e vattene. Cerca un
migrante e prega di trovarlo. Mi hai capito?”
“Diego, io…”
65
“HAI CAPITO COSA HO DETTO?” urlò Diego.
Marco annuì.
Poi, rivolgendosi alla donna, Diego disse:
“Ehi puttana bianca… hai incontrato lo strizzacervelli
sbagliato”
L’essere gli sorrise mostrando una ripugnante dentatura
da squalo.
“Ridi pure, stronza. Vediamo quanto ti fa ridere questo”
la schernì mentre sfilava dalla tasca un oggetto luccicante.
“Il turacciolo del suo Borgogna, Madame. VENGO A
FICCARTELO NEL CULOOO!!!”
Marco assisté impietrito alla scena.
Vide Diego assalire la strega. Vide lei conficcargli gli
artigli nel torace. Vide gli occhi trionfanti del mostro
spegnersi quando lui le trafisse il cranio con un
punteruolo. Vide le fiamme divampare nel baratro sotto
di loro e inghiottirli. Vide richiudersi la crepa e il cielo
rischiararsi.
E poi non vide più nulla.
66
67
Epilogo
Dal muretto di pietre su cui soleva sedere, Marco
ammirava un panorama di eccezionale bellezza.
Giocherellando con un anello a forma di otto pensò
all’ultimo ammonimento di Diego.
Cerca un migrante e prega di trovarlo.
“Sì, dr Freud. Cerco. E prego”

Nella stanza il sole del mattino lambiva le lenzuola che le
avvinghiavano le gambe. Con un urlo di terrore che
infranse il silenzio della stanza, Alice si svegliò.
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69
Via tempo venis. In esperanto sta per “il momento è
giunto”. Non ci avrei scommesso un centesimo quando
ho iniziato eppure, tra il gioco e la sfida, Linea 14 ha visto
la luce. E’ stato avvincente ed emozionante condurre in
porto la mia opera prima (e forse ultima).
Con tutti i miei limiti e, credetemi, senza un briciolo di
presunzione, coccolerò a morte questo mio primo figlio
letterario. Certamente non più bello di migliaia di altri
partoriti in questo mondo. Ma, ragazzi, un figlio è un
figlio. Lo ami senza ritegno, costi quel che costi.
E tu, inatteso lettore, se hai avuto la pazienza e la tenacia
di arrivare fin qui, ti faccio omaggio del mio più accorato
ringraziamento. Perché nessuna storia merita di essere
scritta se non hai nessuno a cui raccontarla.

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Linea14

  • 1. 1
  • 2. 2
  • 3. 3 Racconto Fantasy Linea 14 Cosa divide la realtà dal sogno? E cosa invece li unisce? E se esistesse un mezzo che ci permettesse di viaggiare tra realtà e sogno, così da rendere i nostri desideri raggiungibili? Basterebbe mettersi in cammino, prendere un treno, un autobus di linea. La linea 14 forse? Lascio a voi scoprirlo. Sono un lettore vorace di storie. Certo, leggo un po' di tutto, ma le storie mi hanno sempre attratto più di qualsiasi altra cosa. Le storie a volte sono specchi in cui, se vuoi, puoi cambiare l'immagine che ci vedi dentro. Fu così che un giorno in uno di quegli specchi vidi me stesso che scriveva... Nico Spadoni
  • 4. 4
  • 5. 5 Alice e Marco lice era nel suo letto. Pioveva a dirotto. Il rumore nella stanza era assordante. Le finestre, percosse da folate di acqua e vento, urlavano tutto il loro disappunto. I vetri erano grigi e informi cataratte. La luce fioca che trapelava nella stanza rendeva tutto indistinto come sagome di un vecchio teatro cinese. La finestra al lato del letto proiettava una luce obliqua che investiva una buona metà di un poster senza cornice. Vi si scorgeva un'improbabile fermata di autobus nel bel mezzo di un prato che si estendeva ininterrotto all'orizzonte. Un cartello indicava che da lì passava la linea 14. Dal suo letto Alice non poteva leggerlo ma, chissà perché, lo sapeva. Due amanti erano distesi nudi ai piedi del cartello. L'erba alta celava solo in parte l'atto amoroso, mostrando il capo della donna, affondato sul ventre A
  • 6. 6 glabro dell'uomo. Alice non rifletté sui dettagli, non aveva mai visto quel poster, era osceno, di dubbio gusto, ne era infastidita. Mai si sarebbe sognata di esporlo in casa sua, men che meno nella sua camera da letto. Si alzò con fatica. Non si sentiva stanca ma i suoi movimenti gli costavano un insolito sforzo, come accade quando ci si muove nell’acqua. Quando fu in piedi vide di fronte a lei un grande specchio da camera che occupava l'angolo tra l'armadio e la porta. Rifletteva una ragazza con indosso una t-shirt bianca di almeno due misure più grande con il logo dell'Hard Rock cafè di Dublino stampato al centro. La scritta che vide nello specchio avrebbe dovuto essere al contrario ma lei non ci fece caso. Non era mai stata all'Hard Rock di Dublino. Non era nemmeno mai stata in Irlanda. E comunque la t-shirt non era sua. Sul pavimento, ai piedi dello specchio, c'erano due Timberland da uomo. Era confusa, e poi non c'era mai stato uno specchio lì. La stanza le appariva sempre più aliena. La sua mente era attraversata da mille pensieri, tutti incoerenti. Era la sua stanza eppure non lo era, non proprio. Non riusciva a pensare, era spaventata, voleva uscire. Raggiunse la porta quasi correndo e l'aprì. 
  • 7. 7 A Marco piaceva stare lì, ci andava ogni volta che poteva, gli dava un senso di pace. Era l'unico posto in cui l'inquietudine di una vita, che non era andata come avrebbe voluto, si dissolveva come fumo al vento. Il lavoro da impiegato lo sviliva. Sognava di viaggiare tanto, di incontrare gente, di scrivere, raccontando ciò che vedeva. Parlava perfettamente tre lingue, aveva conseguito un master in giornalismo internazionale ma il lavoro da archivista presso la biblioteca pubblica fu quanto di meglio riuscì a trovare. Avrebbe voluto mollare tutto e ricominciare daccapo. Ma non ne trovava il coraggio. Aveva una figlia a cui pensare, l'amava moltissimo. Divenne padre che era poco più di un ragazzino, la adorava e non sapeva starle lontano. Aveva sposato la donna che l'aveva messa al mondo dopo soli due mesi dal loro primo incontro, senza alcuna esitazione. Ne era pazzamente innamorato. Ora non più, credeva. Molte cose erano cambiate da allora. Dal muretto di pietre su cui soleva sedere, ammirava un panorama di eccezionale bellezza. Osservava una distesa verde che si estendeva in ogni direzione a perdita d'occhio. Una sensazione di deja vu lo colpì. Gli tornò alla memoria quel suo unico viaggio, fu in Irlanda. Erano trascorsi dieci anni, ma il ricordo di quelle atmosfere e degli sconfinati pascoli verdi era nitido e presente come immagini di un film sullo schermo di un cinema.
  • 8. 8 Una linea continua e ondulata segnava il finire della terra e l'inizio del cielo più azzurro che avesse mai visto. Un cielo stranamente privo di vita: non una nuvola, non un uccello in volo. Questa considerazione lo allarmò. Si guardò intorno e capì che quel luogo non era il posto in cui credeva di essere, non esattamente. Un silenzio irreale glielo confermò. I grilli, il cui frinire era chiassoso come ovazioni in uno stadio gremito, erano muti. Anche il suono sommesso dei veicoli in transito proveniente dalla strada era scomparso. Sarebbe rimasto lì ancora un po', ma aveva caldo. Decise di ritornare a casa, e si avviò in direzione del sentiero che costeggiava il muretto ma qualcosa lo disorientò. Si guardò alle spalle. Era confuso, si voltò nuovamente verso il sentiero e trasalì. Il sentiero non c'era più. Al suo posto solo erba alta, verde e folta. L'ansia cominciava a serpeggiare appena sotto la soglia della sua coscienza. Ma il muretto c'era ancora, così puntò in direzione del luogo dove prima finiva il sentiero e cominciò a correre.
  • 9. 9
  • 10. 10
  • 11. 11 La donna in bianco a porta si chiuse alle sue spalle. Un prato sconfinato, il più vasto che avesse mai ammirato, le si balenò davanti. Non immaginava potessero esistere così tante tonalità di verde. Alice, pur rapita da quella visione, provava un senso di inquietudine. Provò a convincersi che tornare indietro ad affrontare la distorsione della realtà da cui era fuggita fosse più sensato che avventurarsi nell’ignoto paesaggio che aveva davanti. Incapace di distogliere lo sguardo da quella distesa senza fine, tentò di afferrare la maniglia della porta alle sue spalle ma le sue dita non trovarono nulla. Si girò e ciò che vide le gelò il sangue. Nessuna traccia della porta da cui era uscita, nessuna stanza, nessuna casa. Solo praterie senza fine. Però qualcosa c’era. Non molto distante scorse un cartello giallo sostenuto da un palo. Una fermata di autobus dimenticata dal tempo. E accanto ad essa un passeggero in attesa. Alice distingueva poco più di un’ombra, una sagoma. Era una donna forse o una bambina. Indossava un’ampia veste bianca. Lunghi capelli scuri svolazzavano al vento celandone il volto. La L
  • 12. 12 misteriosa figura bianca era immobile e sembrava la scrutasse. Alice la osservava con apprensione, percepiva un’inconscia minaccia. Poi le sovvenne l’immagine del poster ed ebbe una sensazione di deja vu. La donna in bianco sembrò accorgersene e sollevò una mano in un gesto di saluto. Poi lentamente le andò incontro. Alice non riusciva a muoversi. Guardava la donna avanzare con passo leggero. L’incedere elegante e aggraziato di lei la tranquillizzò. Quando la donna giunse a non più di tre passi da Alice, si fermò. Era bellissima. I grandi occhi smeraldo illuminavano il suo viso sottile da fanciulla. Il velo che indossava lasciava trasparire un profilo sinuoso e sensuale. “Il mio cuore a te, Alcesti.” esordì sorridendo la donna in bianco. “Il mio nome è Alice” rispose perplessa. “I nomi sono come i petali di un fiore, Alcesti.” glissò la donna. “Dove siamo? E chi sei tu?” “Alcesti, non dovresti essere qui.” “Non ho idea di come ci sia arrivata, ero nella mia stanza. Ma non sembrava più la mia stanza. Ho avuto paura. Sono fuggita. Mi sembra un incubo. Sono in un incubo, vero? Dimmi che è così” ribatté quasi giustificandosi.
  • 13. 13 “Non dovresti essere qui. Non è un posto sicuro. Seguimi, ti aiuterò a trovare la tua dimora.” La donna in bianco punto l’indice dietro di lei. Alice si voltò e trasalì. Era nel suo corridoio. La porta della sua camera era chiusa. “Vai. Non indugiare.” La incalzò la donna in bianco. “Chi sei tu?” replicò Alice Scuotendo il capo la donna disse “Quando sarai oltre quella porta dimenticherai questo luogo desolato.” “Dove siamo?” chiese nuovamente. “E’ un luogo senza tempo. La fine delle angosce per le anime perse. Ora và” “E tu? Resti qui?” Insisté Alice. La donna in bianco ebbe un fugace moto di impazienza. “Non c’è tempo!” un sommesso suono gutturale alterò la voce gentile e suadente della donna. “Mia cara, ti prego, muovi i tuoi passi. Non c’è più tempo”, aggiunse la donna in bianco con malcelata irritazione. Alice considerò le parole della donna in bianco cercando di scorgervi un significato nascosto. Ma poi l’ansia di ritornare alla realtà di sempre ebbe la meglio sulla sua irrazionale curiosità. Sotto lo sguardo insofferente della
  • 14. 14 donna in bianco, pose la mano sulla maniglia della porta. Ma invece di aprirla si girò e chiese: “Sei qui in attesa del tuo uomo?” Il sorriso della donna in bianco si deformò come cera al fuoco. In un smorfia di dolore e rabbia la donna in bianco sibilò: “TUUUUUUU! NON PROVARE AD AVVICINARTI ANCORA A LUI! E’ MIO! LUI E’ MIOOOO!” Alice, vide la donna in bianco mutare. Orbite nere e senza vita avevano inghiottito gli splendidi occhi verdi. Dalla bocca colavano sordidi rivoli di bava che le rigavano il volto non più umano. Il velo bianco insudiciato si andava sgretolando come una vecchia tela sfibrata da fameliche tarme. Le mani contratte sembravano artigli. E la sua voce non era più una voce ma un latrato. Dell’incantevole figura di prima restò solo un informe e orrendo ricordo. Quando la donna-mostro si rannicchiò come una bestia feroce in agguato, Alice immaginò la sua fine, assalita e dilaniata a morsi. Ma, con suo sgomento, la donna- mostro cominciò ad indietreggiare guaendo incomprensibili imprecazioni. Ad Alice ricordò un granchio spaventato che si rintana su uno scoglio. La donna –granchio, giunta sotto il cartello da cui era partita, arrestò quella che in altri momenti sarebbe stata una
  • 15. 15 comica corsa all’indietro. E poi, sotto gli occhi increduli di Alice, svanì.
  • 16. 16
  • 17. 17 Il dr. Freud l cielo sbiadì in un grigio plumbeo. Il terreno sotto i piedi perse consistenza. Le sue Timberland affonda- vano sempre più nella fanghiglia rendendo la corsa di Marco un’impresa titanica. Dalle crepe nel muro di sas- si sbucavano viscide serpi che sembravano volergli sbar- rare la strada. Marco inorridì. Voleva correre più forte e sfuggire a quell’orda strisciante ma le gambe erano troppo pesanti, la terra melmosa ingoiava i suoi piedi fino alle ca- viglie. Nell’inerzia dello slancio Marco perse l’equilibrio. Mentre cadeva in avanti un enorme serpente con le fauci spalancate gli si avventò contro. Incagliato nelle lenzuola madide di sudore, Marco urlò in- frangendo il silenzio della sua camera da letto. “Dio mio”, pensò. “Era un cazzo di sogno!” Ancora scosso dal terribile incubo si mise seduto sul letto. Prese l’orologio e guardò l’ora. Cinque minuti alle sette. Si tirò su, ancora intontito. Gettò uno sguardo all’uomo ri- flesso nello specchio accanto alla porta e non parve parti- colarmente compiaciuto di ciò che vide. Aprì la porta, si I
  • 18. 18 passò la mano nei capelli scompigliati ed uscì dalla stan- za. “Pronto?” “Marco, buongiorno! Sono Diego” “Oh, buongiorno dr. Freud. A cosa devo questa gradita sorpresa?” “Sai, il mio paziente delle 11,30 si è suicidato stanotte, perciò adesso c’è un buco nella mia agenda.” “Molto divertente, dr Freud” “Scherzi a parte, Marco. Se riesci ed essere qui per le 11:30, facciamo le nostre cosette e poi magari pranziamo insieme. Che ne dici?” “Ehm ...”, Marco esitò qualche istante. “Ecco la giuria che si ritira per deliberare!” lo canzonò Diego. “Va bene, Diego”, concluse. “Ci sarò” “Wunderbar”, chiosò il dr Freud. Diego era quanto rimaneva della sua famiglia. Ed era an- che la ragione per cui non si era ancora deciso di farla fi- nita. Dopo l’incidente gli era stato addosso impedendogli di compiere ciò che sembrava essere la cosa più giusta da fare. E tuttora lo teneva, a suo dire, fuori dal tunnel delle angosce. Ma il rimorso era insopportabile. Nadia e Giada non
  • 19. 19 c’erano più. E, a dispetto degli sforzi di Diego, in cuor suo sapeva di essere stato lui ad ucciderle. Giunse allo studio del dr. Freud in ritardo. Da quando aveva smesso di guidare si spostava in autobus. La puntu- alità era una virtù che ormai sfuggiva al suo controllo. “Venti minuti di ritardo!”, lo ammonì scherzosamente Diego. “Il mio tempo è denaro, lo sa?” “Allora il pranzo lo offri tu, dr Freud”, replicò Marco. “Ok, ok”, disse ridacchiando Diego. “Accomodati che cominciamo subito” Marco si sedette sulla poltrona riservata ai pazienti, come sempre un po’ a disagio. Diego invece si piazzò sul suo sgabello accanto alla poltrona e invitò Marco a chiudere gli occhi e rilassarsi. “Marco”, esordì. “la domanda di apertura la conosci, no?” “Si. La conosco.”, rispose Marco un po’ piccato. “A pro- posito, quando deciderai di cambiare il repertorio?”. Diego sorrise ma si era già calato nel suo ruolo. “Ti ascolto”, tagliò in tono asciutto. “Ho avuto un terribile incubo”, cominciò Marco. “Avevo dimenticato l’incidente. Pensavo a loro come fossero an- cora vive”, poi si interruppe, quasi a voler recuperare la calma, “ricordi quel posto fuori città dove qualche volta vado a rifugiarmi?”, aggiunse. “Ricordo” annuì Diego
  • 20. 20 E Marco iniziò il suo racconto. Quando ebbe terminato, Diego disse: “I sogni sono spec- chi, Marco. I bisogni, i desideri ma anche le sconfitte e le angosce diventano, nei sogni, l’immagine riflessa di te. Ma voglio svelarti un segreto. Se vuoi, puoi cambiare quello che ci vedi dentro. Freud diceva che i sogni custodiscono un messaggio nascosto. Ma a volte si manifestano come censura di esso.” “Ma che diavolo di messaggio può esserci in un serpente che decide fare uno spuntino con la tua faccia?” Diego sapeva che il restare ancorato al proprio passato, l’incapacità di guardare avanti, erano il vero problema di Marco. Spingerlo a cercare un nesso tra sogno e la realtà era un azzardo. Tuttavia sperava che in quella ricerca Marco trovasse la sua epifania. Doveva ritrovare una ra- gione per vivere. “Marco”, concluse. “Devi trovare da te la risposta. Posso solo dirti che i nostri sogni sono bussole che impediscono alla nostra anima di perdersi. Devi imparare ad usare la tua bussola” “Diego, io ... non credo di capire” “E io che ci sto a fare? Il fatto che non ti faccia pagare la parcella non vuol dire che le mie sedute non valgano nul- la.” “Touchè” concordò Marco. “Per oggi può bastare. Andiamo a pranzo, mentecatto”
  • 21. 21 “Paghi tu, dr. Freud” “Si, va bene, va bene, l’hai già detto!” Marco si sentiva oppresso dai tentativi di Diego di spin- gerlo all’azione. Non vedeva più nulla per cui valesse davvero la pena vivere. A pranzo Marco mangiava svogliatamente. Sembrava tur- bato, assente. Diego, lo osservava in silenzio. Vedendolo così diverso dall’irrequieto idealista che secoli prima aveva sposato sua sorella, ebbe una fitta al cuore. In quell’istante Marco posò la forchetta facendola tintinnare nel piatto, guardò Diego negli occhi e disse: “So cosa devo fare”.
  • 22. 22
  • 23. 23 Alice torna a casa on le dita ancora serrate sul pomello della porta, lo ruotò e tirò con foga. La maniglia si staccò con uno schiocco secco. Alice perse l’equilibrio. Cadendo batté la nuca ma l’erba ne attutì le dolorose conseguenze. Riversa su un fianco, si guardò la mano destra. Sul palmo aveva un taglio, forse causato da un frammento del pomello spezzato. Nel silenzio tombale di quel luogo, Alice rimase a fissare il punto in cui l’essere mutante era vaporizzato. I’orgia di emozioni che l’aveva assalita era collassata in una rassegnata abulia. Poi un suono stentoreo e improvviso la fece trasalire. Musica. Una chitarra dietro di lei accompagnava i versi di una canzone. “Meglio cominciare da quello che mi viene più semplice da poterti raccontare ...”. Conosceva quella canzone. I Modà. Li adorava. Ma in quel frangente le sembrò sbagliata, ostile. Era intrappolata in un mondo fatto di erba e cielo. Il cantante solista, quasi a volerla beffeggiare, chiosava: C
  • 24. 24 “La vita ci consegna le chiavi di una porta e prati verdi sopra i quali camminare”. Poi tutto cominciò a oscurarsi, la luce si attenuò, i colori sbiadirono. Il mondo veniva pian piano avvolto in un nero sudario e Alice con esso. I Modà, incuranti, seguitavano a cantare. “Puoi correre o fermarti, puoi scegliere tra i frutti”. La musica risuonava più forte, mentre le tenebre inghiottivano ogni cosa. Nell’oscurità in cui era piombata, Alice si sentì, ad un tratto, risucchiare all’indietro e poi respingere da una forza invisibile, come se fosse precipitata nel vuoto e poi rimbalzata su una rete di sicurezza. Atterrita e sul punto di perdere la ragione, gridò con quanto fiato aveva nei polmoni. Infine cadde distesa, con le palpebre serrate e le mani premute con forza sul volto imperlato di sudore. E quando i Modà, dall’altoparlante della sua radiosveglia sentenziarono “ ... i sogni son le ali per volare”, Alice si risvegliò. Più tardi era alle prese con un algoritmo dannatamente ostico. I numeri non tornavano. Intoppi così le capitavano spesso. I suoi capi sceglievano sempre lei quando un progetto richiedeva una mente brillante e fuori dagli schemi. E lei non li tradiva mai. Quella mattina stava soccombendo ad un problema di calcolo di rischio
  • 25. 25 bancario. Non riusciva, come le piaceva dire, a visualizzare il successo. “Alcesti”, pensava. “Mi ha chiamato Alcesti” Aveva provato per tutta la mattina a scacciare via il ricordo della sua esperienza notturna (così aveva deciso di definirla). “Alcesti ...”, quel nome le si era conficcato nel cervello come un chiodo nel muro. Le era impossibile concentrarsi. Poi ricordò la biblioteca che aveva notato proprio dirimpetto alla banca presso cui lavorava. Decise di farci un salto dopo pranzo. Quell’intuizione le rischiarò la mente come un’alba equatoriale. Fissò lo sguardo sul monitor, diede una scorsa veloce al programma che si faceva beffe di lei da tutta la mattina. A circa tre quarti della pagina si fermò e sorrise. Aveva visualizzato il successo. “Mi scusi ...”, cinguettò Alice mentre attraversava la strada. “lo so che è ancora presto, ma avrei bisogno di un grande favore. Tra qualche minuto devo tornare a lavoro, lì di fronte, vede?”. “Oh ...” disse Marco, preso alla sprovvista. “La prego, le ruberò solo qualche minuto, forse meno se magari mi potesse dare una mano”. Marco aveva ancora la chiave elettronica infilata nello slot del sistema di allarme. La biblioteca avrebbe aperto al
  • 26. 26 pubblico mezzora più tardi ma lui preferiva arrivare prima, controllare che tutto fosse in ordine (e non lo era mai) e a volte, se c’era il tempo, si concedeva qualche minuto per scrivere. Appunti più che altro, per un romanzo che non aveva mai cominciato. Benché quell’abitudine, tra le altre, fu bruscamente interrotta quando il destino gli portò via moglie e figlia. “La prego ...”, ammiccò Alice sfoderando un sorriso di irresistibile bellezza. “Ok, signorina ...” “Alice!” si precipitò a rispondere “Bene Alice, io sono Marco. La farò entrare ma dovrà attendere qualche minuto.” “Nessun problema” disse soddisfatta. Quando fu tutto pronto, Marco invitò Alice ad entrare, poi bloccò il sistema di apertura automatica della grande porta a vetri scorrevoli. Era ancora presto. “In cosa posso aiutarla?” “Ecco.. io.”, Alice si morse un labbro, non aveva preparato una scusa plausibile. “Una mia ... ehm ... amica stamattina mi ha scherzosamente affibbiato un soprannome. E ... volevo saperne di più”, improvvisò. “Vediamo se ho capito bene.” Replicò Marco. “Una sua amica l’ha presa in giro e lei ha pensato di correre in biblioteca, in orario di chiusura vorrei aggiungere, per approfondire. E’ così?” chiese Marco divertito.
  • 27. 27 “Più o meno. Si”, rispose Alice sentendosi una stupida. “Fossero tutti così, le biblioteche somiglierebbero a dei centri commerciali” la canzonò Marco. “Molto bene. E qual è questo misterioso soprannome?” “Alcesti” “Alcesti? Ne è sicura?” “Si, è proprio quello. Alcesti” “Uhm ... interessante” disse Marco incuriosito. “Comincerei con un testo di mitologia greca. Venga con me, faremo più in fretta”.
  • 28. 28
  • 29. 29 Reminiscenze iego accompagnò alla porta l’ultimo paziente della giornata, poi tornò alla scrivania e ripose gli appunti nella cartella. L’archiviò, insieme alle altre, in una vecchia cassapanca in giunco, cimelio di un tempo in cui i suoi studi sulle migrazioni della mente – così li definiva – erravano, fagotto in spalla, nei più remoti angoli del mondo. Esitò qualche istante sull’etichetta storta di una scatola, vi si leggeva MDM. La sfiorò come fosse una reliquia; sospirando richiuse il coperchio dell’improbabile schedario e tornò a sedersi alla scrivania. Decise di aprire il cassetto di fronte a sé e tirò fuori un taccuino, lo sfogliò finché non trovò la pagina che cercava. Rilesse quanto aveva registrato del sogno di Marco, poi tornò sulla prima pagina, fissò per un po’ il primo capoverso: 14 Maggio – Marco è ancora chiuso nel suo silenzio. Continua a declinare il sostegno psicologico offerto dalla clinica. Dal giorno del D
  • 30. 30 suo risveglio rifiuta di mangiare. Nella mia ultima visita non mi ha parlato ma ha pianto per quasi tutto il tempo. Temo che… Diego si passò il dorso della mano sugli occhi, le lacrime gli offuscavano la vista. Posò il taccuino e ricordò. La maledetta telefonata dalla clinica. La straziante identificazione: il volto sfigurato e quasi irriconoscibile di Nadia, il corpicino di Giada incredibilmente senza un graffio, a meno dell’innaturale vuoto là dove avrebbero dovuto esserci le gambe. Ricordò di un poliziotto che gli fece un resoconto dell’incidente; questi gli riferì che Marcò aveva perso il controllo dell’auto finendo nella corsia opposta. Poi, nel tentativo di schivare l’impatto con un altro veicolo, era finito fuori strada facendo un volo di 15 metri. L’auto aveva cappottato diverse volte prima di incastrarsi tra gli alberi. La donna al suo fianco era morta sul colpo, colpita alla testa da un ramo che aveva sfondato il parabrezza. La bimba era morta dissanguata a causa di una roccia che aveva perforato la portiera tranciandole entrambe le gambe. Ricordò le lunghe attese seduto accanto al lettino di Marco. Ricordò il suo risveglio dal coma, un cazzo di miracolo dopo tre mesi di lacrime e dolore. E ricordò quando dovette dirglielo. Così il miracolo fu cancellato da un’ondata di angoscia come una scultura di sabbia dalla marea.
  • 31. 31 Ricordò, e pianse.  Quando giunse alla stazione degli autobus la trovò quasi deserta. Non era sicuro del perché volesse tornare lì ma sentiva di doverlo fare. Diego aveva suggerito di cercare un significato al suo sogno e perciò avrebbe iniziato la ricerca nel suo rifugio di sempre. “Mi scusi” disse Marco. “devo raggiungere la vecchia fabbrica abbandonata. Ha presente? Quella sulla statale nord”. “Si la conosco. Mi dispiace, ma nessun autobus passa di là.” “Ne è sicuro?” chiese Marco. “Sicurissimo” rispose l’uomo al di là del vetro. “Mi sa dire come potrei fare per arrivarci?” insistè Marco. “Cosa vuole che le dica, faccia l’autostop” replicò l’uomo senza nemmeno guardarlo. “Grazie” disse Marco. Stronzo, sentenziò allontanandosi dal chiosco della biglietteria. Però lo stronzo non aveva avuto una cattiva idea, pensò Marco e si avviò verso la statale. “Ehi giovanotto” disse un uomo seduto su una panchina. Era anziano, minuto, simpatico tutto sommato. Indossava la divisa della società dei trasporti pubblici. Probabilmente un autista in pausa, pensò Marco.
  • 32. 32 “Dice a me?” chiese Marco. “Non vedo altri giovanotti qui in giro, non ti pare?” ribatté l’anziano, “non ho potuto fare a meno di ascoltare, sei diretto alla vecchia fabbrica di veleni, ho capito bene?” “Già. E a quanto pare mi tocca camminare”. “Solo fino al mio autobus, giovanotto. Solo fino al mio autobus” disse sorridendo l’attempato autista. “Ma il suo collega mi ha detto che…” “Lascia perdere.” Lo interruppe il vecchio. “Quell’idiota non saprebbe trovare un cane in un canile. Andiamo giovanotto, fra tre minuti il 14 riprende la corsa. Non vorrai perdere l’autobus, vero?”  Quella sera, nel suo letto, Alice pensava alla ricerca fatta con Marco, alle strane implicazioni che Alcesti aveva nella cultura di molti popoli. Il valore simbolico che aveva rappresentato in ogni tempo. Era rimasta affascinata dall’idea di una donna coraggiosa che aveva sfidato la morte brandendo l’amore quale unica arma, e aveva vinto. Marco aveva trovato menzione di Alcesti anche in ambiti scientifici, come metafora di speranza dopo una triste perdita. E fu dopo quella scoperta che Marco si adombrò. Alice intuì che gli fosse accaduto qualcosa di doloroso, un lutto recente forse. Così, con discrezione, si mostrò
  • 33. 33 soddisfatta suggerendo di terminare la ricerca. Marco le piaceva, lo trovava gentile, acuto, colto, con uno spiccato senso dell’umorismo. Il fatto che fosse anche un figo da paura certo non guastava. Eppure c’era qualcosa che lo turbava. Vagò tra riflessioni e ricordi per un tempo imprecisato finché, con il sorriso di Marco sullo sfondo dei suoi pensieri, sprofondò tra le scure coltri del riposo notturno. Alice si era addormentata ma non riposò. Affatto.
  • 34. 34
  • 35. 35 In viaggio con Ronnie spetta giovanotto” disse l’autista. “Non stai dimenticando qualcosa?”. Marco si bloccò con un piede sul primo gradino e guardò perplesso il vecchio che sorrideva con il palmo aperto proteso verso di lui. “Le regole sono regole, giovanotto” aggiunse l’autista. “Il tuo obolo per un biglietto” e scoppiò a ridere come se avesse appena fatto la battuta del secolo. Marco sorrise di rimando, e tirò fuori il portafogli. “preferirei in monete se non ti dispiace” lo incalzo il vecchio. “Ma certo” rispose Marco. “Ecco, ho queste, possono bastare?”. “Una. Ne basta una” rispose l’autista. “Salta su. E’ ora di andare Admeto”. Qualche istante dopo, l’autobus di linea numero quattordici inghiottì Marco, unico passeggero di quella sua corsa, e partì lasciandosi dietro una nuvola di polvere gialla. A
  • 36. 36 “Scusi, come mi ha chiamato?” chiese Marco piazzatosi in piedi accanto al posto di guida. “Come dici giovanotto?” “Prima, mi è parso che lei mi abbia chiamato in qualche modo”. “Davvero?” rispose il vecchio senza mai distogliere lo sguardo dalla strada. “Beh” proseguì, “allora forse è il caso di fare le presentazioni. Mi chiamo Daimon Charon, ma tutti mi chiamano Ronnie”. “Piacere, Ronnie” rispose Marco. “Io sono…” “Oh, so bene chi sei” lo interruppe il vecchio. Marco trasalì, come qualche volta accade a chi scopre, dopo la partenza, di aver preso il treno sbagliato. Era disorientato, e in quel momento ebbe la chiara sensazione che salire su quell’autobus fosse stata una pessima idea. “Giovanotto, non devi allarmarti. Porto avanti e indietro questo autobus da sempre, si potrebbe dire. E non è che mi dispiaccia. Da questa altezza, dietro questo enorme cristallo, vedo il mondo andare avanti. Non puoi credere quante vite ho visto salire qui accanto a me e scendere dalla porta posteriore. Desideri a volte realizzati, altre no. Fatiche a volte premiate e altre sprecate. Promesse a volte mantenute, altre tradite. E rimpianti, tanti e tanti rimpianti. Chiunque sia sceso dalla linea 14 non è mai più risalito. Questo autobus, giovanotto, ha portato a
  • 37. 37 destinazione intere generazioni ma è tornato sempre vuoto al capolinea. Quanta gente ho conosciuto. Non ricordo tutti i nomi, e per la verità nemmeno me ne importa, sai? Ma tu, Admeto, tu sei speciale. Tu sei l’unico ad essere tornato indietro.” “Vecchio, tu stai farneticando” ribatté Marco. “Ferma l’autobus, voglio scendere”. Marco cominciava ad avere paura. Fu investito da una raffica di ricordi. Provava a metterli assieme ma ciò che ne veniva fuori era qualcosa di assurdo e ostile. Come l’opera di un sadico giocattolaio che realizza esseri mostruosi dai pezzi dei giocattoli lasciati a marcire in qualche buia soffitta. Ricordò il mito di Alcesti e del suo defunto marito Admeto. Ricordò Alice e sospettò che forse non gli aveva raccontato tutta la verità. Ricordò Diego e il suo strano suggerimento. Ed ebbe l’irrazionale certezza che tutto questo avesse un senso. “Giovanotto, io non credo tu voglia davvero scendere. Permettimi di raccontarti una storia” propose l’autista. “Poi, se ancora lo vorrai, accosterò e ti farò scendere.” “Va bene, Ronnie” rispose Marco. “Ma sappi che se non manterrai la parola, ti costringerò con la forza”. “Più che giusto” replicò Ronnie. “Qualche tempo fa, non molto, stavo completando l’ultima corsa della giornata. Era già buio pesto. La poca gente sull’autobus era seduta a farsi i fatti suoi. Una coppia di ragazzi che amoreggiava
  • 38. 38 nei sedili di dietro. Un uomo, col soprabito sdrucito, che leggeva svogliatamente, un tascabile messo al contrario tra le mani. Una bambina che piangeva tra le braccia di sua madre. Le facevano male le ginocchia e si lamentava. Forse aveva saltato troppo alla corda, o forse era caduta. Sai come sono i bambini, hanno energia da leoni per tutto il giorno, ma poi, alla sera, frignano per questo o per quell’altro prima di addormentarsi esausti. Comunque, sua madre cercava di consolarla, le accarezzava le ginocchia e le sussurrava qualcosa per calmarla. Forse una filastrocca o una nenia, chi lo sa. Ma la bambina continuava a piangere e…” Ronnie esitò per qualche istante e a Marco sembrò di scorgere nel suo volto un ghigno represso che gli gelò il sangue. “…a chiedere del suo papà. Mammina, dov’è papy? Chiedeva in continuazione. Sua madre la stringeva a sé, dondolando dolcemente. E proseguì così per tutto il viaggio”. “Ma cosa diavolo c’entra tutto questo con…” “Fammi finire la storia, giovanotto” disse Ronnie. “Dunque, arrivati a destinazione fermo l’autobus e, come sempre, apro la porta di dietro. I due fidanzatini furono i primi a scendere, il lettore di libri sottosopra restò lì, come se non si fosse accorto di nulla. La donna, invece mormorò amorevolmente qualcosa alla bambina, che non
  • 39. 39 aveva ancora smesso di piangere. Le disse che bisognava scendere. Ricordo ancora bene le sue parole…” Ronnie guardò Marco con un sorriso gelido e aggiunse “…Su, fai la brava, Giada. Papà arriverà presto”.
  • 40. 40
  • 41. 41 Sulle tracce di Marco ‘ultima folata di vento colpì la finestra quasi a volerla sfondare. Il fragore improvviso svegliò Alice. Al buio della sua stanza, guardò la finestra. La pioggia batteva sui vetri come una gragnola di sassi. Lei si tirò su e rivide lo specchio nell’angolo. Stai sognando disse una voce nella sua testa. Svegliati Alcesti, fai ritorno al tuo mondo. Non è un posto sicuro qui. Alice non le diede ascolto e guardò nello specchio. Riconobbe se stessa con addosso la t-shirt dell’Hard Rock Cafè di Dublino, troppo grande per la sua taglia. Svegliati Alcesti, svegliati insisté la voce. Ma Alice, incurante, continuò ad osservare la sua immagine riflessa. Sfiorò con le dita la superficie dello specchio e sentì la fredda e liscia consistenza della lastra ma qualcos’altro catturò la sua attenzione. Nell’immagine scorse, alle sue spalle, l’angolo di un poster senza cornice appeso alla parete, linea quattordici pensò. Si voltò e si avvicinò al poster. Rimase lì a scrutarlo e ricordò; il temporale, la stanza così simile alla sua e tutti quegli oggetti che non appartenevano a lei. Era di nuovo dentro la sua esperienza notturna, eppure percepiva L
  • 42. 42 qualcosa di diverso. Svegliati Alcesti, lascia questo luogo desolato sollecitò la voce. Alice la scacciò fissando l’attenzione sul poster e capì. L’immagine era cambiata; quello che lei aveva creduto fosse un volgare atto amoroso, era qualcosa di più raccapricciante. L’uomo disteso aveva il torace coperto da una grande macchia rossa, la donna su di lui era coperta da una veste bianca insudiciata di fango e sangue. Sembrava lo stesse… divorando. E in quell’istante li riconobbe entrambi. “No, non può essere” esclamò. “Marco…”. Svegliati stronza! Torna da dove sei venuta! Lui è mio! Urlò la voce nella sua testa. Alice arretrò di un passo per allontanarsi da quell’orrore, poi si girò, corse verso la porta e la aprì. Dal buio oltre l’uscio le si avventò contro il voltò fetido e urlante della donna in bianco. In preda al terrore, Alice urlò con lei. Poi vide le fauci insanguinate della donna in bianco dischiudersi come per prepararsi a scattare in un ultimo morso letale. Il suono che ne venne fuori fu il grido stridulo di bambini agonizzanti sotto atroci torture. Alice gridò ancora più forte e, in un disperato tentativo di difesa, si coprì il volto con gli avambracci in attesa di essere azzannata a morte. Ma in quell’istante il mondo intorno mutò. Le urla, le voci, il vento, erano svaniti. Alice abbassò le braccia e aprì gli occhi. Il sole del mattino lambiva le lenzuola che le avvinghiavano le
  • 43. 43 gambe. Guardò la sua stanza come per la prima volta. Dio mio, pensò. E’ stato terribile. Con un sospiro si coprì il volto con le mani e prese a massaggiarsi le tempie. Poi, come colpita da un secchio d’acqua gelata, balzò a sedere sul letto ed esclamò: “Marco! No!”  Diego parcheggiò la sua auto poco più avanti l’ingresso della biblioteca. Prima di scendere pensò alle ultime parole del cognato: so cosa devo fare. Quella inattesa risolutezza, nel mare di apatia in cui Marco rischiava di annegare, non lasciava presagire nulla di buono. Perciò scese dall’auto deciso a riprendere il discorso con lui. Davanti alla porta di ingresso della biblioteca, si fermò cedendo il passo ad una ragazza che arrivava quasi correndo. Nello slancio, questa gli finì addosso. “Ehi! Stia attenta” esclamò Diego. “Mi scusi. Si tratta di un’emergenza” disse lei. E senza fermarsi si precipitò all’interno. “Salve” disse Alice alla donna seduta dietro al bancone. “vorrei parlare con il suo collega. Marco. Può chiamarlo?” “Mi dispiace signorina, Marco si è preso la giornata libera” rispose la donna. “Oh. Ma non sa dove posso trovarlo?”
  • 44. 44 “No. Spiacente, non saprei proprio” “Ne è sicura? Si tratta di un’emergenza. Devo trovarlo assolutamente” insisté Alice. “Mi scusi signorina” intervenne Diego. “Lei sta cercando Marco?” “Si! Lo conosce? Sa dov’è?” “Certo, sono suo cognato. Ma si calmi signorina.” “Suo cognato? Davvero?” Diego, rivolgendosi alla donna dietro al bancone, annuì con la testa. “Andiamo fuori di qui e mi racconti tutto” disse alla ragazza conducendola verso l’uscita. “Guardi, lì c’è un bar” aggiunse, indicando un locale dall’altra parte della strada. “Le va di parlarne dietro ad una tazza di caffè?” “D’accordo” rispose la ragazza. Quando furono dentro, Diego ordinò due caffè e accompagnò Alice a sedersi. “Allora signorina. Lei è?” “Mi chiamo Alice. Ho conosciuto Marco in biblioteca, mi ha aiutata in una ricerca” “Piacere di conoscerti. Ti dispiace se ti do del tu?” “Affatto” “Io mi chiamo Diego. In biblioteca parlavi di un’emergenza. Di che si tratta?” Grandioso, e adesso cosa gli racconti? pensò Alice.
  • 45. 45 “Alice, non so quanto tu conosca Marco. A giudicare dalla tua agitazione direi abbastanza. Anche io sono preoccupato per lui.” “Davvero? Perchè?” “E’ complicato, non posso dirti altro. Ma dimmi, tu perché lo stai cercando?” “Ah bene. Tu non puoi?” rispose Alice indispettita. “Beh, signor cognato di Marco, ti conviene spiegarmi tutto se vuoi che io faccia lo stesso”.
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  • 47. 47 Multiverso on gli occhi fissi sulla tazzina, Diego le raccontò della tragedia che aveva colpito Marco, della depressione in cui era caduto e dalla quale non era ancora uscito. “Diego mi hai detto tutto?” chiese Alice dubbiosa. “Credo di si. Perché?” “Tu perché lo stai cercando?” “Ecco io…” Diego esitò e la guardò. Quel volto inquieto di donna innamorata lo spinse a continuare. “Ieri mattina Marco è venuto da me; era turbato. Abbiamo pranzato insieme e prima di andarsene mi aveva rivelato di aver capito cosa fare. Gli ho chiesto spiegazioni ma lui, con un sorriso che non vedevo da secoli, mi ha salutato, e mi ha piantato lì. Non so perché l’ho lasciato andare ma ora…” “Temi che faccia qualche sciocchezza?” lo interruppe Alice. “Si” “Hai detto che era turbato. Per cosa?” “Un sogno” C
  • 48. 48 “Sogno? Quale sogno?” Alice impallidì. “Ti senti bene? Sei diventata bianca come un cencio” “Sto bene. Ti prego Diego, dimmi del sogno” Diego cominciò a sospettare che Alice sapesse qualcosa e intendeva scoprire cosa, perciò decise di accontentarla e al diavolo il segreto professionale, a dirla tutta Marco non avrebbe dovuto nemmeno essere un suo paziente. “Va bene, lo farò. Ma prima devi dirmi perché sei qui” Alice sentiva di potersi fidare di quell’uomo. In fondo era un medico e non l’avrebbe derisa. E poi Marco forse era in pericolo e a quel pensiero la sua riluttanza si sciolse come neve al sole. “Anche io ho fatto dei sogni. E’ lì che ho visto Marco per la prima volta” “Aspetta. Vuoi ripetere?” “Ho sognato Marco quando ancora non lo conoscevo. Quel sogno mi ha spinto ad andare in biblioteca. Non lo riconobbi fino a stanotte, quando l’ho sognato ancora. Credo gli possa accadere qualcosa di terribile” Non può essere, pensò Diego. Non qui. Non a Marco. “Alice, faccio fatica a seguirti. Ma…” “Credi sia fuori di testa, vero?” “No ma ho bisogno di saperne di più, andiamo nel mio studio e di corsa” “Diego, che succede?”
  • 49. 49 “Spero di sbagliarmi. Ma se così non fosse siamo nei guai. Guai seri. Andiamo”  “Bastardo! Come fai a conoscere la mia bambina?” Marco si scagliò contro l’autista. Gli occhi di Ronnie mutarono in ripugnanti ovuli rossastri e prima che Marco riuscisse ad afferrarlo gli puntò contro due dita mimando il gesto della pistola. “Bang!” disse Ronnie. Un pugno invisibile colpi Marco facendolo stramazzare di schiena sugli scalini del bus. Sanguinante da un labbro provò a rialzarsi senza successo. “Giovanotto, resta dove sei. Non è con me che devi prendertela. Sono soltanto un umile nocchiero” “Vaffanculo!” replicò Marco piangendo. “Su… Admeto, non disperare. Stai tornando a casa. Lei si prenderà cura di te. Così come si è presa cura di tua moglie. E di tua figlia. Si prende cura di tutti lei” “Che cosa vuoi da me?” “La linea 14 fa viaggi di sola andata, giovanotto. Hai fatto incazzare tutti tornando indietro. Io faccio solo il mio dovere. Porto la gente dove deve andare”
  • 50. 50 Marco faceva fatica a respirare. Rinunciò a tirarsi su, la schiena gli faceva troppo male così proseguì il viaggio accasciato e inerme come una marionetta abbandonata. Ronnie continuò a guidare in silenzio finché il fragore assordante dei freni annunciò che la linea 14 era giunta al capolinea.  “Accomodati” disse Diego “lì, su quella poltrona. Io torno subito” “Dove vai?” “A prendere una cosa. Serviti da bere” “No, grazie. Sono a posto” Diego ritornò portando uno scatolone impolverato. Sull’etichetta era scritto MDM. “Cos’è?” chiese Alice. “Il mio personale vaso di Pandora” “Sarebbe a dire?” “Migrazioni della mente. Il mio campo di ricerca fino a… qualche anno fa” “Ha a che fare col paranormale?” “No. Quelle sono solo cazzate. E' scienza. Fenomeni fisici mai rivelati pubblicamente.” “Non capisco”
  • 51. 51 “Hai mai sentito parlare di teoria delle stringhe? Di multiverso?” “Credo di aver letto qualcosa. E allora?” “Esistono molti mondi, Alice. Esistono molti noi. Ogni volta che siamo di fronte ad una scelta diamo vita a tante realtà quante sono le possibili opzioni. Che tu ci creda o no, questo è stato dimostrato” “Diego, io non…” “Ma non è finita qui. Alcuni di noi sono in grado di viaggiare attraverso questi, chiamiamoli, strati dell’universo. E in ognuno di questi c’è chi ha il dono, o il compito… di migrare nel multiverso” “Migrazioni della mente” pensò Alice ad alta voce. “Esattamente” esclamò Diego. “Cosa c’è nella scatola?” “Appunti” disse Diego mentre tirava fuori dei logori quaderni. “annotazioni di esperimenti, testimonianze, diari di viaggio e… cazzo! Dov’è?” “Cosa?” “Maledizione, dov’è finito?” “Diego?” “Eccolo!” esultò Diego. “Cos’è?” “Un souvenir dal multiverso” “Che vuoi dire?” “Non importa” taglio corto Diego.
  • 52. 52 “Ciò che conta ora è capire cosa sta succedendo. Ho bisogno che tu mi racconti dei tuoi sogni senza trascurare nulla. Ogni dettaglio è di vitale importanza” “Si” “Respira profondamente. Sgombra la mente e concentrati sui sogni” Alice chiuse gli occhi, inspirò a fondo e sentì la tensione accumulata disperdersi come polvere al vento. E nel torpore lucido in cui era scivolata, iniziò il suo racconto.
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  • 55. 55 Lemniscata Migrationum onnie posò la mano sulla manopola accanto al volante e la ruotò. La porta laterale si spalancò e Marco stramazzò fuori dall’autobus. L’erba folta e rigogliosa attutì la caduta ma non gli risparmiò una lancinante fitta alla schiena già dolorante. “Fanculo!” inveì Marco riverso su un fianco. “Scusa tanto giovanotto” disse Ronnie ridacchiando. “Ce la fai a rialzarti?” Marco lo guardò con odio puro ma non rispose. “Mi rincresce dovermi congedare. Mi sei simpatico giovanotto ma devo proprio andare. Altro giro, altra corsa mon ami” Una nuova detonazione del meccanismo di manovra delle porte coprì le risa di Ronnie. Marco rialzatosi sui gomiti guardò la linea 14 allontanarsi tra i lamenti delle vecchie sospensioni maltrattate dal terreno sconnesso. Con doloroso sforzo si tirò su aggrappandosi al palo vicino al quale era rotolato. Quando fu in piedi si guardò attorno. Campi erbosi si estendevano in ogni direzione. Alzò lo sguardo e vide il cartello in cima al palo. R
  • 56. 56 “Una cazzo di fermata di autobus” sibilò a denti stretti. “DOVE CAZZO MI HAI PORTATO BASTARDO?” L’urlo disperato di Marco squarciò il funereo silenzio di quella bucolica desolazione. Stremato e terrorizzato ricadde sulle ginocchia ignaro di non essere solo. “Il mio cuore a te, Admeto” disse qualcuno alle sue spalle, “Gli dei mi hanno benedetta, la mia pazienza è premiata”. Marco trasalì. Si girò e vide una fanciulla bellissima che gli sorrideva. Un morbido drappo bianco la avvolgeva mettendone in risalto le avvenenti forme. “Ma chi…chi sei?” chiese disorientato. “Oh, mio caro, non rammenti? Le anime perse non hanno memoria” “Chi sei? Che posto è questo?” ripeté Marco rialzandosi a fatica. “Questo è il luogo della ricompensa. E’ la promessa esaudita, che lenisce i dolori e rifonde ogni sofferenza. Ti aspettavamo Admeto e da ultimo sei giunto. Ora il mio compito è condurti presso la tua dimora, dove altri attendono il tuo arrivo” La bianca figura si avvicinò quasi fluttuando. Le dita sottili da bambina sfiorarono la guancia di Marco che non si sottrasse. Il sorriso comprensivo della donna, quegli occhi ingenui e antichi, avevano su di lui un potere ipnotico e rassicurante.
  • 57. 57 “Io… non capisco” “Placa i tuoi timori Admeto, posiamoci qui e riposiamo. Un lungo viaggio ci attende” Incapace di resistere alle tenere cure della donna, si distese docile sul soffice letto di erba ai piedi della fermata. La donna si sedette accanto a lui e col palmo della mano gli accarezzò le palpebre in un tacito invito a chiuderle. “Dormi, mio caro. Via tempo venis” Mentre Marco si assopiva, sul volto della donna cominciò ad allargarsi un ringhio di trionfo. Con un sommesso suono di ossa che si spezzano, la candida silhouette della fanciulla cominciò a guastarsi. Poi si sporse in avanti come un predatore che annusa il pasto appena cacciato. “SEI MIO” grugnì l’animalesca creatura e, spalancando le turpi fauci, si preparò a sbranare la sua ignara vittima. In quell’istante un boato fece tremare la terra sotto di loro. La creatura guaendo si ritrasse con balzo e si appiattì nell’erba latrando come un cane ferito. Poco distante dalla fermata sotto cui giaceva Marco, una invisibile membrana si lacerò nell’aria, proiettando lampi di luce bluastra. Nel mezzo dello strappo si materializzarono due sagome. Alice e Diego erano migrati. Via tempo venis. 
  • 58. 58 “Alice, i tuoi sogni così vividi, quegli oggetti che appartengono a Marco, tutti quei dettagli che non potevi conoscere, e poi…” Diego esitò. “Poi cosa?” lo incalzo Alice. “La distesa erbosa abitata da esseri deformi, non sei la sola ad averne parlato” “Cosa diavolo…” “Alcuni la chiamano la Valle della morte, altri il Capolinea” “Altri? Ma di chi stai parlando?” “Dei migranti. Persone come te, in grado di viaggiare tra le pieghe del multiverso. Pensa che c’è chi è capace di farlo semplicemente volendolo. Con la forza della concentrazione” “Mi prendi in giro Diego? Ma come è possibile?” “Hai mai sentito di gente che ha il potere dell’ubiquità, della levitazione o addirittura di teletrasportarsi?” “Si certo, nei film fantasy” rispose lei. “Ho studiato questi fenomeni per anni. Io li ho visti, Alice. Li ho visti con questi occhi” Non riusciva a credere alle parole di Diego. La realtà con le sue regole e i suoi confini consolidati e prevedibili aveva lasciato il posto ad un universo sconosciuto e ostile, dove niente più era scontato. Niente più era sicuro.
  • 59. 59 “Alice” disse Diego sottraendola alle sue riflessioni “devo chiederti di fare qualcosa di pericoloso. Non te lo chiederei se non fosse l’unica speranza di salvare Marco” “Vai avanti” disse lei. Diego si alzò, si avvicinò alla scatola e tirò fuori una specie di amuleto a forma di otto. Ad Alice sembrò una di quelle fibbie di bronzo che aveva visto una volta in un museo. “Lemniscata migrationum” disse Diego. “Come?” “Lemniscata” ripetè, “Si chiama così. E’ un conduttore, ci servirà per raggiungere Marco” “Aspetta un momento. Hai detto: ci servirà?” “Precisamente” sentenziò Diego “Migrerai al Capolinea. E io verrò con te”
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  • 61. 61 Via tempo venis iego impartì le ultime istruzioni per il salto. “salto? Quale salto?” chiese Alice allarmata. “Non saprei. Qualcuno lo ha descritto così. Ma non preoccuparti. Sei pronta?” “Sì” rispose poco convinta. Diego la guardò. “Cosa c’è?” chiese lei. “Nulla. Iniziamo” E ancora una volta Alice fu alla mercé del dr. Freud. “Brava, continua a respirare” la voce di Diego era quasi un sussurro. “E ora, mentre tu sei calma… e puoi sentire il tuo respiro regolare e lento… non so se ti stia accorgendo… che qualcosa dentro di te cambia” Alice vinta dall’ipnosi sentiva defluire lentamente le forze. Poi Diego tuonò: “BUIO”. E Alice si spense. Doveva affrettarsi. Infilò il conduttore al dito di lei. Fece mente locale. Stava dimenticando qualcosa? Pensava di no. D
  • 62. 62 “Oh cazzo!” imprecò. Tornò di corsa alla scatola e prese un sasso da cui sporgeva una punta metallica. Il turacciolo del suo Borgogna, Monsieur, pensò. Mise l’oggetto in tasca, tornò da Alice e introdusse l’indice nell’asola libera della lemniscata. “Che Dio ci aiuti” sussurrò quando una luce blu li avvolse sparandoli nel multiverso.  Il fragore provocato dall’arrivo dei migranti ridestò Marco che si ritrovò madido e riverso sul prato. Rotolando su un fianco guardò dove il rombo era diventato un crepitio. Scorse due ombre che si tenevano per mano, socchiuse gli occhi per mettere a fuoco e il suo cuore perse un colpo. “VOI INTRUSI… FORIRI MALBENIS… FORIRIII” Le invettive del mostro fecero trasalire Marco che vide un essere informe in tunica bianca che si scagliava, ringhiando verso di… Diego, pensò. “MIO DIO, DIEGO ATTENTO!” Al grido di Marco la strega bianca arrestò la sua corsa. “NE MOVAS VI” abbaiò minacciosa. Approfittando di quell’esitazione Alice sfilò il dito dall’anello di Diego e corse incontro a Marco.
  • 63. 63 “Alice aspetta” disse Diego tentando invano di fermarla. Marco la vide arrivare e la riconobbe. “Alice? Alice ma che diav… NOOO” Marco vide la creatura gettarsi sulla ragazza atterrandola e scomparendo nell’erba alta. Lui e Diego accorsero nel tentativo di salvarla ma quando giunsero, predatore e preda erano scomparsi. “Diego, che cazzo sta succedendo qui?” disse Marco stravolto. “Cos’è questa follia? Diego!”. “Marco! Ti abbiamo trovato, grazie a Dio” “Cristo. Che storia è questa?” Diego non ebbe il tempo di rispondere. All’improvviso il cielo si oscurò, la terra cominciò a tremare. Sotto i piedi di Diego si aprì una frattura nel terreno. Dalla voragine che si andava allargando si udì un richiamo: “Admeto, mio diletto”e sotto lo sguardo incredulo dei due uomini, Alice emergeva dalle profondità del crepaccio. “Dolce Admeto, mio promesso. Quanto lunga fu l’attesa. Vieni a me, che io possa deliziarti” “Alice…” disse Marco esitante. “No Marco, non è lei” sentenziò Diego. “Sarò chi vuoi che io sia, mio amato” disse la donna lanciando a Diego uno sguardo feroce. “Vieni a me, dolce sole”
  • 64. 64 I lunghi capelli di Alice si ritirarono e virarono al biondo, anche il viso mutò e Marco rivide la defunta moglie viva e vegeta. “Santo dio Nadia” “Amor, tu riporti luce nei miei giorni” Diegò provò una fitta al cuore. Sorellina, pensò. Ma non cadde nell’inganno. “Marco non crederle” “Vieni a me, caro. Giada ha bisogno del suo papà” disse Nadia tendendo le braccia. “Tesoro, sei davvero tu?” chiese Marco incredulo. Diego si guardò le mani, all’indice aveva ancora la lemniscata. Chiuse gli occhi e chinò il capo. Una lacrima gli segnò la guancia. Sapeva di non avere scelta. Quando alzò lo sguardo era tornato il lucido e compassato dr. Freud. “Marco, guardami. ADESSO!” tuonò. “Diego…” “Stai zitto e ascolta” tagliò corto, “Prendi” disse, lanciandogli l’anello che Marco afferrò al volo. “Cos’è?” chiese. “E’ l’unica speranza che hai di tornare a casa” “Ma…” “Silenzio. Tienilo sempre con te e vattene. Cerca un migrante e prega di trovarlo. Mi hai capito?” “Diego, io…”
  • 65. 65 “HAI CAPITO COSA HO DETTO?” urlò Diego. Marco annuì. Poi, rivolgendosi alla donna, Diego disse: “Ehi puttana bianca… hai incontrato lo strizzacervelli sbagliato” L’essere gli sorrise mostrando una ripugnante dentatura da squalo. “Ridi pure, stronza. Vediamo quanto ti fa ridere questo” la schernì mentre sfilava dalla tasca un oggetto luccicante. “Il turacciolo del suo Borgogna, Madame. VENGO A FICCARTELO NEL CULOOO!!!” Marco assisté impietrito alla scena. Vide Diego assalire la strega. Vide lei conficcargli gli artigli nel torace. Vide gli occhi trionfanti del mostro spegnersi quando lui le trafisse il cranio con un punteruolo. Vide le fiamme divampare nel baratro sotto di loro e inghiottirli. Vide richiudersi la crepa e il cielo rischiararsi. E poi non vide più nulla.
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  • 67. 67 Epilogo Dal muretto di pietre su cui soleva sedere, Marco ammirava un panorama di eccezionale bellezza. Giocherellando con un anello a forma di otto pensò all’ultimo ammonimento di Diego. Cerca un migrante e prega di trovarlo. “Sì, dr Freud. Cerco. E prego”  Nella stanza il sole del mattino lambiva le lenzuola che le avvinghiavano le gambe. Con un urlo di terrore che infranse il silenzio della stanza, Alice si svegliò.
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  • 69. 69 Via tempo venis. In esperanto sta per “il momento è giunto”. Non ci avrei scommesso un centesimo quando ho iniziato eppure, tra il gioco e la sfida, Linea 14 ha visto la luce. E’ stato avvincente ed emozionante condurre in porto la mia opera prima (e forse ultima). Con tutti i miei limiti e, credetemi, senza un briciolo di presunzione, coccolerò a morte questo mio primo figlio letterario. Certamente non più bello di migliaia di altri partoriti in questo mondo. Ma, ragazzi, un figlio è un figlio. Lo ami senza ritegno, costi quel che costi. E tu, inatteso lettore, se hai avuto la pazienza e la tenacia di arrivare fin qui, ti faccio omaggio del mio più accorato ringraziamento. Perché nessuna storia merita di essere scritta se non hai nessuno a cui raccontarla.