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Camden Market di Londra
shopping center alternativo
Un microcosmo di oltre 700 negozi e bancarelle accomunati dalla
presunta fede alternativa, ribelle e controcorrente, che rappresentano
un luogo commerciale molto lucrativo da cui trarre esempio
OSSERVATORIO POPAI
di Daniele Tirelli*
luglio 201472Pm
N
on fosse per le riflessioni
di due iconoclasti degli
iconoclasti, Joseph He-
ath e Andrew Potter, la
Londra alternativa che si aggre-
ga nell’area fra l’High Street e la
Chalk Farm Road di Camden Town
ci avrebbe forse turbato con le sue
atmosfere a dir poco inquietanti.
Al luogo non mancano i “weird
characters”: dal predicatore pazzo
che annuncia il ritorno punitivo di
Cristo al drug dealer che vi bisbi-
glia qualcosa sulla sua marijuana,
sino a Prince Albert, che in alter-
nativa alla monotonia di un lavo-
ro regolare si è coperto il viso e il
corpo di centinaia di piercing allo
scopo di farsi immortalare dagli
inorriditi turisti.
Camden Town, concentrazione di
luoghi ruggenti come il Camden
Passage, lo Stables Yard, il Lock
Village, il Buck Street e l’Inverness
Street Market, oltre allo psichede-
lico Electric Ballroom, è divenuta
una meta obbligata dei turisti di
tutto il mondo. E non è un caso
che, data la crescente attrattività
del quartiere, vi abbiano trovato
ospitalità anche le “più tranquil-
lizzanti” catene come Kentucky
Fried Chicken, McDonald’s, Burger
King e (più recentemente) persino
il nostro Rossopomodoro.
“Culture jammers are not the first
to try to break the system through
consumerrevolt”,scrivevanoHeath
& Potter nel loro “Nation of Rebels”
(2004), aggiungendo “Countercul-
tural rebels have been playing the
same game for over forty years, and
marzo 2012 73 PmPmluglio 2014 73
it obviously doesn’t work”. E que-
sta è una delle chiavi fondamentali
per interpretare Camden Town.
In sintesi, si può affermare che
quel che accade in questo quartie-
re rappresenta un altro caso eccel-
lente di retail marketing da cui v’è
molto da imparare. Certo, il luogo
pullula degli apparenti paradossi
così tipici dell’odierna cultura di
consumo, ma s’ispira al contempo
all’antico precetto per cui “pecu-
nia non olet”. Piaccia o no ai pu-
risti, teorici dell’accademia, siamo
di fronte a uno shopping center per
antonomasia, a un posto bizzarro
fin che si vuole, astratto dalle re-
gole manualistiche, ma pur sempre
un luogo commerciale molto lucra-
tivo da cui trarre esempio.
Sorto da un piccolo mercato ar-
tigianale nel pieno dei travaglia-
ti anni ’70, oggi vi approdano
in media 100.000 visitatori ogni
weekend. Sotto la sua egida corale
si raccolgono molteplici e variega-
te realtà, tutte operanti con sponta-
nea, efficacissima sinergia. Le sue
aree sono distinte da sfumature e
tratti peculiari, difficili da coglie-
re per l’occhio del turista generico.
Sono invece riconoscibilissime
soprattutto dai trend setter, che
lo frequentano proprio per trarne
ispirazione e anche per rubacchia-
re idee circa gli stili giovanili fu-
turi: non è un caso che proprio nei
luoghi apparentemente più bizzar-
ri, squallidi e decadenti sia severa-
mente vietato fotografare.
Ma passiamo a decodificare il luo-
go con ordine. Il Lock prospiciente
il fiume, per esempio, è noto ai bi-
bliofili per la vendita di testi tanto
usati quanto ricercati, spesso rari.
Il Passage, invece, induce in tenta-
zione i “nouveaux riches” con cata-
ste di manufatti esotici dal dubbio
valore artistico, ma dal prezzo qua-
si sicuramente gonfiato. E poi c’è lo
Stables Yard (stalle accuratamente
ristrutturate) con le sue sculture
futuriste, i suoi cavalli di bronzo
e le loro teste over-size sparse qua
e là fra le costruzioni e le mura
in mattoni che in origine delimi-
tavano l’area. Questo è insomma
il posto giusto per chi è a caccia
di capi di retrodesign, goth, rave,
rivethead, club-wear, il tutto spa-
ziando dallo stile hipster alle sot-
tocorrenti cyberpunk. Chi è invece
alla ricerca di una notte votata alla
massima trasgressività in una cit-
tà dove i pub ancora chiudono per
tradizione alle 23, può perdersi tra
l’Electric Ballroom, l’Underworld
o il Dingwalls.
In generale, possiamo dire che vi
sono almeno due modi per inter-
pretare questo luogo: quello del
turista assetato di stranezze da
raccontare e quello (davvero lon-
dinese) di chi vive intimamente la
distinzione tra il gusto elitario di
una società nobiliare e il “cultural
slumming” fra i ceti popolari, vale
a dire il contrasto sempiterno tra le
raffinatezze di Fortnum & Mason e
la miscellanea kitsch o tacky degli
Stables, appunto.
Camden Market, insomma, costi-
tuisce un microcosmo di oltre 700
negozi e bancarelle accomunati
in store
SPAZI
74Pm luglio 2014
dalla presunta fede alternativa,
ribelle e controcorrente: assunti
stilistici non scritti, ma evidenti,
di un mercato sicuramente atipico,
ma piegato anch’esso alle logiche
del profitto e del marketing. Certo,
le premesse culturali e identitarie
di questa melting pot di subcultu-
re furono spontanee e genuine: le
molte impronte punk-rock, cyber-
goth, fetish ecc. hanno radici pro-
fonde, ma queste estetiche post
moderne che (secondo gli studiosi
del fenomeno) associano tra i tan-
ti stilemi il “Raver britannico”, il
“Nyc dancekid look” con uno spin
“Freak Show” e molto altro ancora,
confluiscono in uno stile citazioni-
sta e per molti versi autoironico di
un carnevale perenne. Ne sono un
esempio le grandi (raffinate) road
sculpture che campeggiano lungo
la Camden High Street e che, a gui-
sa di una Las Vegas minore e post
atomica, fanno deflagrare i forti
cromatismi delle loro facciate fora-
te da cavernosi magazzini o ancora
gli sgabelli-scooter all’aperto dove
consumare fast food e birra stout.
Lo rivela, ulteriormente, la colos-
sale statua del guerriero tribale
fantasy che sorveglia l’ingresso del
ristorante etnico Shaka Zulu o l’ap-
parente aggregato autopoietico del-
le tante baracchine che distribui-
scono cibi strani e (per noi) dubbi
o un impensabile assortimento di
paccottiglie.
In altre parole, clubby, hippy o
grungy sono tutti ingredienti sele-
zionati che concorrono non solo ad
amalgamare, ma soprattutto a esal-
tare la filosofia e l’unicità d’insie-
me da cui discende la sorprenden-
te forza gravitazionale del Camden
Market. Ecco allora che, dopo tanto
parlare di lifestyle shopping center,
se ne ricava un esempio versatile e
tanto votato all’ambiguità da risul-
tare inimitabile. Nel flusso multi-
forme di visitatori che si aggirano
fra percorsi, drappeggi e memora-
bilia di ogni genere, convergono
numerose e distinte identità, tut-
tavia accomunate dalla percezione
di un luogo mitico e folkloristico,
per certi versi, ultraesotico e sicu-
ramente in perenne trasformazio-
ne. C’è chi dice che non si possa
realmente coglierne lo spirito sen-
za rovistare almeno una volta fra
i knick-knack ammucchiati sui
bancali di questi mercati. Tuttavia
i suoi anfratti, le ambientazioni
ispirate dai dettami della contro-
cultura anticonsumistica, l’esibi-
zione di prodotti artigianali (ma
spesso anche seriali o vintage,
come i Burberry e gli Aquascutum
usati), l’integrazione di una food
court etnica, macrobiotica, eco-
compatibile, non si discostano in
ultima analisi dalla logica dei ser-
vizi di altre più esplicite e blasona-
te “cattedrali dello shopping”. Ne
è testimonianza la bassa rotazione
dei tenant della prima ora e la qua-
si impossibilità di entrare a farne
parte per gli ultimi arrivati. In
conclusione, questo mondo caotico
che aspira a essere perennemente
in controtendenza sembra rispon-
dere al medesimo pragmatico pa-
radigma: la massimizzazione di
un profitto ben più interessante di
quello offerto dall’ennesimo fran-
chising nell’ennesimo periferico
shopping mall.
* Presidente di Popai Italy
Alla concezione e alle ricerche ne-
cessarie per l’articolo ha contribuito
Marco Tirelli
in store
SPAZI
75 Pmluglio 2014

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Camden Market, Londra: shopping center alternativo

  • 1. Camden Market di Londra shopping center alternativo Un microcosmo di oltre 700 negozi e bancarelle accomunati dalla presunta fede alternativa, ribelle e controcorrente, che rappresentano un luogo commerciale molto lucrativo da cui trarre esempio OSSERVATORIO POPAI di Daniele Tirelli* luglio 201472Pm
  • 2. N on fosse per le riflessioni di due iconoclasti degli iconoclasti, Joseph He- ath e Andrew Potter, la Londra alternativa che si aggre- ga nell’area fra l’High Street e la Chalk Farm Road di Camden Town ci avrebbe forse turbato con le sue atmosfere a dir poco inquietanti. Al luogo non mancano i “weird characters”: dal predicatore pazzo che annuncia il ritorno punitivo di Cristo al drug dealer che vi bisbi- glia qualcosa sulla sua marijuana, sino a Prince Albert, che in alter- nativa alla monotonia di un lavo- ro regolare si è coperto il viso e il corpo di centinaia di piercing allo scopo di farsi immortalare dagli inorriditi turisti. Camden Town, concentrazione di luoghi ruggenti come il Camden Passage, lo Stables Yard, il Lock Village, il Buck Street e l’Inverness Street Market, oltre allo psichede- lico Electric Ballroom, è divenuta una meta obbligata dei turisti di tutto il mondo. E non è un caso che, data la crescente attrattività del quartiere, vi abbiano trovato ospitalità anche le “più tranquil- lizzanti” catene come Kentucky Fried Chicken, McDonald’s, Burger King e (più recentemente) persino il nostro Rossopomodoro. “Culture jammers are not the first to try to break the system through consumerrevolt”,scrivevanoHeath & Potter nel loro “Nation of Rebels” (2004), aggiungendo “Countercul- tural rebels have been playing the same game for over forty years, and marzo 2012 73 PmPmluglio 2014 73
  • 3. it obviously doesn’t work”. E que- sta è una delle chiavi fondamentali per interpretare Camden Town. In sintesi, si può affermare che quel che accade in questo quartie- re rappresenta un altro caso eccel- lente di retail marketing da cui v’è molto da imparare. Certo, il luogo pullula degli apparenti paradossi così tipici dell’odierna cultura di consumo, ma s’ispira al contempo all’antico precetto per cui “pecu- nia non olet”. Piaccia o no ai pu- risti, teorici dell’accademia, siamo di fronte a uno shopping center per antonomasia, a un posto bizzarro fin che si vuole, astratto dalle re- gole manualistiche, ma pur sempre un luogo commerciale molto lucra- tivo da cui trarre esempio. Sorto da un piccolo mercato ar- tigianale nel pieno dei travaglia- ti anni ’70, oggi vi approdano in media 100.000 visitatori ogni weekend. Sotto la sua egida corale si raccolgono molteplici e variega- te realtà, tutte operanti con sponta- nea, efficacissima sinergia. Le sue aree sono distinte da sfumature e tratti peculiari, difficili da coglie- re per l’occhio del turista generico. Sono invece riconoscibilissime soprattutto dai trend setter, che lo frequentano proprio per trarne ispirazione e anche per rubacchia- re idee circa gli stili giovanili fu- turi: non è un caso che proprio nei luoghi apparentemente più bizzar- ri, squallidi e decadenti sia severa- mente vietato fotografare. Ma passiamo a decodificare il luo- go con ordine. Il Lock prospiciente il fiume, per esempio, è noto ai bi- bliofili per la vendita di testi tanto usati quanto ricercati, spesso rari. Il Passage, invece, induce in tenta- zione i “nouveaux riches” con cata- ste di manufatti esotici dal dubbio valore artistico, ma dal prezzo qua- si sicuramente gonfiato. E poi c’è lo Stables Yard (stalle accuratamente ristrutturate) con le sue sculture futuriste, i suoi cavalli di bronzo e le loro teste over-size sparse qua e là fra le costruzioni e le mura in mattoni che in origine delimi- tavano l’area. Questo è insomma il posto giusto per chi è a caccia di capi di retrodesign, goth, rave, rivethead, club-wear, il tutto spa- ziando dallo stile hipster alle sot- tocorrenti cyberpunk. Chi è invece alla ricerca di una notte votata alla massima trasgressività in una cit- tà dove i pub ancora chiudono per tradizione alle 23, può perdersi tra l’Electric Ballroom, l’Underworld o il Dingwalls. In generale, possiamo dire che vi sono almeno due modi per inter- pretare questo luogo: quello del turista assetato di stranezze da raccontare e quello (davvero lon- dinese) di chi vive intimamente la distinzione tra il gusto elitario di una società nobiliare e il “cultural slumming” fra i ceti popolari, vale a dire il contrasto sempiterno tra le raffinatezze di Fortnum & Mason e la miscellanea kitsch o tacky degli Stables, appunto. Camden Market, insomma, costi- tuisce un microcosmo di oltre 700 negozi e bancarelle accomunati in store SPAZI 74Pm luglio 2014
  • 4. dalla presunta fede alternativa, ribelle e controcorrente: assunti stilistici non scritti, ma evidenti, di un mercato sicuramente atipico, ma piegato anch’esso alle logiche del profitto e del marketing. Certo, le premesse culturali e identitarie di questa melting pot di subcultu- re furono spontanee e genuine: le molte impronte punk-rock, cyber- goth, fetish ecc. hanno radici pro- fonde, ma queste estetiche post moderne che (secondo gli studiosi del fenomeno) associano tra i tan- ti stilemi il “Raver britannico”, il “Nyc dancekid look” con uno spin “Freak Show” e molto altro ancora, confluiscono in uno stile citazioni- sta e per molti versi autoironico di un carnevale perenne. Ne sono un esempio le grandi (raffinate) road sculpture che campeggiano lungo la Camden High Street e che, a gui- sa di una Las Vegas minore e post atomica, fanno deflagrare i forti cromatismi delle loro facciate fora- te da cavernosi magazzini o ancora gli sgabelli-scooter all’aperto dove consumare fast food e birra stout. Lo rivela, ulteriormente, la colos- sale statua del guerriero tribale fantasy che sorveglia l’ingresso del ristorante etnico Shaka Zulu o l’ap- parente aggregato autopoietico del- le tante baracchine che distribui- scono cibi strani e (per noi) dubbi o un impensabile assortimento di paccottiglie. In altre parole, clubby, hippy o grungy sono tutti ingredienti sele- zionati che concorrono non solo ad amalgamare, ma soprattutto a esal- tare la filosofia e l’unicità d’insie- me da cui discende la sorprenden- te forza gravitazionale del Camden Market. Ecco allora che, dopo tanto parlare di lifestyle shopping center, se ne ricava un esempio versatile e tanto votato all’ambiguità da risul- tare inimitabile. Nel flusso multi- forme di visitatori che si aggirano fra percorsi, drappeggi e memora- bilia di ogni genere, convergono numerose e distinte identità, tut- tavia accomunate dalla percezione di un luogo mitico e folkloristico, per certi versi, ultraesotico e sicu- ramente in perenne trasformazio- ne. C’è chi dice che non si possa realmente coglierne lo spirito sen- za rovistare almeno una volta fra i knick-knack ammucchiati sui bancali di questi mercati. Tuttavia i suoi anfratti, le ambientazioni ispirate dai dettami della contro- cultura anticonsumistica, l’esibi- zione di prodotti artigianali (ma spesso anche seriali o vintage, come i Burberry e gli Aquascutum usati), l’integrazione di una food court etnica, macrobiotica, eco- compatibile, non si discostano in ultima analisi dalla logica dei ser- vizi di altre più esplicite e blasona- te “cattedrali dello shopping”. Ne è testimonianza la bassa rotazione dei tenant della prima ora e la qua- si impossibilità di entrare a farne parte per gli ultimi arrivati. In conclusione, questo mondo caotico che aspira a essere perennemente in controtendenza sembra rispon- dere al medesimo pragmatico pa- radigma: la massimizzazione di un profitto ben più interessante di quello offerto dall’ennesimo fran- chising nell’ennesimo periferico shopping mall. * Presidente di Popai Italy Alla concezione e alle ricerche ne- cessarie per l’articolo ha contribuito Marco Tirelli in store SPAZI 75 Pmluglio 2014