1. David Bellatalla, antropologo, spezzino, autore di diversi libri, da anni impegnato in
azioni umanitarie nelel zone più povere della Mongolia, ha da poco pubblicato il suo
ultimo libro, che verrà presentato nella nostra città.
Lo abbiamo intervistato.
- Qual è stata la sua prima volta in Mongolia e cosa l’ha spinta ad
afforntare questo viaggio?
- Era la primavera del 1992 e l’intenzione era di ripercorrere le antiche vie
carovaniere. Il progetto, dell’Università di Firenze, si legava perfettamente al
“terrossicum”, che è il volume che raccoglie le esperienze di viaggio e le
fotografie scattate da Stephen Sommier, il fondatore del Museo Etnografico di
Firenze. Con Paolo Piozzi l’idea era di ripercorrere la strada di Sommier e
riportare materiale fotografico. Per me era l’occasione di mettere assieme due
viaggi, quello delle antiche carovaniere con le Vie della Seta o meglio tutte
quelle vie che per quasi 2500 anni hanno messo in contatto il continente
asiatico.
- Com’è stato l’arrivo in Mongolia?
- L’arrivo è stato folgorante, ho cominciato a innamorarmi della Mongolia
quando ho capito che lì c’era un rapporto particolare tra l’essere umano e il
territorio. Le mie prime ricerche sono andate avanti con l’Accademia delle
Scienze della Mongolia e devo soprattutto al professor Bira e ai suoi
collaboratori il fatto di essere riusciti ad aiutarmi in un Paese che aveva
appena aperto le porte all’Occidente (fino al 1992 gli occidentali non
potevano fare ricerca in Mongolia). Da lì le mie ricerche sono proseguite con
alcuni gruppi, poiché il mio interesse era legato al nomadismo e all’aspetto
sciamanico nelle popolazioni nomadi dell’Asia Settentrionale. Quindi ho
iniziato a lavorare con i buriati e nel 1996 ho pubblicato il primo libro sullo
sciamanesimo. (Sciamanesimo e sacro: tra i buriati della Mongolia).
- Si occupava di altre popolazioni nomadi mongole?
- Sì, nel frattempo ho iniziato a studiare anche gli tsaatan, uomini-renna, o
Taiganà assieme al mio video-operatore e ci siamo subito resi conto che, dal
punto di visto antropologico, era un territorio eccezionale. Gli uomini renna
vivono nella taiga, quindi in un territorio dalle caratteristiche opposte rispetto
alla steppa o al deserto e in modo completamente diverso rispetto alle altre
popolazioni. Non usano la “yurta”, classica tenda circolare in feltro che in
mongolo si chiama gherla, ma lo “yurts”, simile all’indiano tepee. Mentre
2. eravamo presso gli tsaatan per questa ricerca, p venuta fuori una “sorpresa”,
cioè un’epidemia, una brucellosi che minacciava non soltanto i loro animali,
ma anche di sterminare anche un’etnia che contava poco meno di 300 persone.
Tornati a Ulan-Bator, ci siamo resi conto che non c’era nessuno che facesse
qualcosa per queste popolazioni, quindi, assieme al video operatore Dino De
Toffol abbiamo deciso di tirarci su le maniche, partendo da zero.
- Cos’avete fatto?
- Abbiamo chiamato un veterinario tedesco, un medico, per cercare di capire
quale malattia ci fosse e come affrontarla. Tornati a La Spezia, abbiamo
trovato una persona straordinaria, Daniela Senese, che ha avuto, per prima,
l’idea di fare un’associazione culturale, “Taiganà” che ha inizato a muoversi
per raccogliere fondi per questo progetto. Lavorando assieme, Daniela a
Spezia e io in Mongolia, nel giro di 8 anni abbiamo non soltanto debellato la
brucellosi, ma anche fatto ricrescere la popolazione della taiga,ritrovando la
propria identità.
- Quanti soldi sono stati investiti in questa operazione?
- Abbiamo raccolto, nel giro di 8 anni, il corrispettivo del costo di una
Mercedes. E il fatto di essere riusciti a salvare una popolazione con un costo
così basso è diventato un baluardo su Internet, la dimostrazione che “si può
fare”, ce la possiamo fare, anche con poco.
- Com’è proseguito il suo lavoro in Mongolia?
- Quando siamo tornati in Mongolia per continuare le nostre ricerche, è
venuto fuori un altro problema. Noi abbiamo girato, intorno al 2001, un
documentario che, per la prima volta, denunciava il problema dei bambini di
strada a Ulan-Bator, la capitale. Questi bambini, scappati di casa perché i
genitori avevano perso il lavoro e stavano diventando violenti a causa
dell’alcolismo (una bottiglia di vodka di scarsa qualità costa 80 centesimi),
vivevano nel sottosuolo, accanto alle tubature dove passa acqua calda, visto
che in Mongolia è molto freddo. Il documentario sottolineava anche come il
Paese, dopo la caduta del Regime Sovietico, si fosse spaccato in due: i ricchi
sono diventati sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri.
- Come siete intervenuti?
- Grazie alla Croce Rossa della Mongolia abbiamo acquistato un edificio che è
diventato, ed è ancora oggi, il primo centro di accoglienza nel distretto
3. Chinghiltei , il più povero della capitale mongola, che conta, solo questo
distretto, più di 350.000 abitanti (Ulan Bator ne ha oltre due milioni). È a soli
4 km dal centro della città, ma è un mondo totalmente diverso, abbandonato a
se stesso.
- Quanti bambini sono passati dal centro e di quali età?
- Dal centro saranno passati non meno di 500 bambini, stabilmente ne abbiamo
avuti dai 12 ai 28, di età compresa tra i 4 e i 13, 14 anni. In prevalenza sono
femmine.
- Che tipo di assistenza fornite loro?
- Prima di tutto medica, diamo loro da mangiare e degli abiti, ma ci siamo resi
subito conto che era un progetto che poteva andare anche al di là, come ad
esempio indirizzarli al mondo della scuola. Così abbiamo recuperato un
edificio, di una scuola privata che era stata aperta vicino al nostro centro, ma
aveva problemi per il pagamento degli insegnanti. Abbiamo trovato
insegnanti, alcuni pagati e altri volontari e abbiamo iniziato a indirizzare i
nsotri ragazzi verso questa scuola. Ma non solo, li indirizziamo anche verso il
mondo del lavoro. Nel centro, grazie alle donazioni che vengono dall’Italia e
soprattutto dalla città di Spezia, abbiamo acquistato macchine per cucire per
le ragazze (poiché gli abiti tradizionali in Mongolia sono molto richiesti) e un
forno per panificare per i ragazzi. Da lì abbiamo iniziato a guadare anche un
po’ più lontano e, assieme a uffici governativi, abbiamo valutato la possibilità
di trovare famiglie per questi ragazzi. Ci sono coppie con tre, quattro bimbi
piccoli e entrambi i genitori che lavorano: in queste famiglie è richiesta la
presenza di ragazzine di 13, 14 anni, che possono essere in grado di badare ai
più piccoli. Si passa attraverso un affidamento che dura un anno, durante il
quale famiglia e bambini vengono monitorati e, se tutto va bene, si passa
all’adozione.
- Avete un aiuto dal Governo Mongolo?
- Zero. Non ci ostacolano, ma semplicemente ci ignorano.
- Come finanziate questo progetto?
- Arrivano delle donazioni, attraverso la Croce Rossa della Mongolia,
prevalentemente dall’Italia. È inoltre uscito da poco il mio ultimo libro,
Eugenio Ghersi: “Sull’altipiano dell’Io Sottile”e anche i proventi dell’opera
andranno in Mongolia . Montura Editing mi ha dato la possibilità di finanziare un
4. nuovo progetto, l’acquisto di un terreno, dove saranno poste 12 tende riservate a
ragazze madri di bimbi disabili; donne senza lavoro, senza reddito e senza
assistenza medica. Montura Editing mi ha dato mille copie del libro che saranno
vendute a 20 euro, anziché 28. Questi 20mila euro serviranno per fare lo
sbancamento del terreno, mettere le tende, costruire il muro di protezione e dare il
via a questa operazione. Ci sarà, in questo villaggio, una grande tenda centrale con
personale della Croce Rossa: i bimbi disabili riceveranno assistenza medica e le
madri, col nostro aiuto, potranno trovare un lavoro , in modo da dare loro
indipendenza nel giro di due anni.
- Ci dice qualcosa del libro?
- È un libro importante, perché si tratta del diario inedito della spedizione
italiana in Tibet Occidentale del 1933, scritto da Eugenio Ghersi, con un
corredo fotografico inedito di luoghi, monasteri, opere d’arte che purtroppo,
tra il 1951 e il 1959 sono andate completamente distrutte durante l’invasione
dei Cinesi.
- Ci spiega qual è l’importanza del libro?
- Ci sono tre aspetti da non sottovalutare. Il primo è che si tratta dell’ultimo
diario inedito di una spedizione scientifica del secolo scorso, gli altri sono
stati tutti pubblicati. Il secondo è che il corredo fotografico rappresenta
l’unica risorsa per studiosi e curiosi di vedere un patrimonio culturale e
artistico ormai perso. Il terzo è che il diario di Ghersi (che tra l’altro visse a
Spezia per lungo tempo) rappresenta il palinsesto su cui Giuseppe Tucci ha
costruito il volume “Cronache italiane della spedizioni nel Tibet Occidentale,
uscito nel 1934.
- Com’è stato redatto il diario di Ghersi?
- Ghersi ha scritto il diario giorno per giorno, annotando tutto quello che
avveniva e vedeva: i templi, i monasteri, i problemi superati, alcuni aspetti
logitici, tutto scritto di suo pugno. Tornato in Italia, consegnò il diario a Tucci,
che preparò il volume e questo è l’unico libro di cui Tucci non è unico autore.
Inoltre il diario ci dà una descrizione degli avvenimenti di 8 mesi di
spedizione in un modo un po’ più umano. Ghersi era una persona strepitosa,
ma era un essere umano, con limiti e difetti e quindi viene a mancare la
descrizione dei “super eroi” di epoca fascista.
- Il libro verrà presentato a Spezia. Quando e dove?
5. - Venerdì 1° aprile alle ore 17 al Museo Etnografico di Via del Prione.