Fundamental principle of information to-energy conversion.
Umano, poco umano ...fatto di virus e batteri!
1. Umano, poco umano …fatto di virus e batteri!
di Fausto Intilla (www.oloscience.com)
In uno studio condotto circa una decina
d’anni fa da alcuni ricercatori danesi,
consistito nella minuziosa analisi di un
metro cubo di terreno fertile, è emerso
che esso contiene circa cinquantamila
macrorganismi (tra insetti di vario
genere). Un singolo grammo di tale
terra contiene all’incirca trentamila
protozoi, cinquantamila alghe,
quattrocentomila funghi e ben un
miliardo di batteri (ripartiti tra
dieci/centomila differenti specie, di cui
la maggior parte risulta ancora
sconosciuta all’uomo. Una nuova stima, eseguita nel 2016, indica in
mille miliardi le specie di batteri presenti sul nostro pianeta; di cui
l’uomo ne conosce solo lo 0,001%!). Ogni specie si sviluppa grazie ad
un’interazione permanente con altre specie. Quando una specie
scompare, tutti i legami interattivi fino a quel punto mantenuti con altre
specie, contribuiranno a compensare la sua perdita. A causa della sua
natura biologica, ovviamente l’intera umanità risulta essere del tutto
dipendente dal tessuto vivente del suo pianeta.
Nel momento in cui un essere umano è tenuto a definire la propria
identità, dunque, ad un’attenta analisi della sua totalità costitutiva, si
accorge inesorabilmente che il concetto di essere “unico ed
inalterabile”, viene meno. L’uomo infatti rappresenta, nel suo insieme,
un raggruppamento costituito da una moltitudine di varie specie, che
convivono tutte assieme nella più perfetta delle collaborazioni. La vita
di un essere umano funziona grazie a decine di migliaia di esseri
microscopici, che vivono sopra e dentro al suo corpo.
Il microbioma umano è composto da circa cinquemila specie di batteri,
che catalogano oltre 154'000 genomi; ogni individuo possiede fino a
diverse centinaia di queste specie, che fino all’inizio del 2019, erano
per il 77% del loro totale, del tutto sconosciute! (E.Pasolli, F.Asnicar,
S.Manara, C.Quince, C.Huttenhower, N.Segata; 2019. Confr.:
http://www.cell.com/cell/fulltext/S0092-8674(19)30001-7). Senza tali
microrganismi, l’uomo non potrebbe sopravvivere!
2. Per quanto possa essere “pulita”, tutta
la superficie della pelle di un individuo
sano qualsiasi, è coperta da un
“tappeto” di “batteri buoni”, che
agiscono come una barriera protettrice
contro le infezioni (stimolando il
nostro sistema immunitario e
innescando una naturale risposta
fisiologica contro gli agenti nocivi
esterni); si tratta del cosiddetto
microbiota cutaneo, costituito da oltre
cinquecento specie di batteri! L’odore
corporale di un essere umano,
individuale e personale, altro non è che
quello generato dal miscuglio dei suoi
particolari batteri (senza i quali il nostro corpo non emanerebbe alcun
odore, sia sgradevole che piacevole!).
La maggior parte dei batteri dimora nel tratto intestinale. All’interno del
corpo umano, il miscuglio di batteri intestinali (il cui compito è quello
di consentire la digestione del cibo ingerito), caratterizza l’identità
biologica di ogni individuo. Tuttavia, proprio la digestione, influenza
lo stato di salute generale di ogni essere umano; essa infatti, come un
“secondo cervello”, caratterizza i suoi comportamenti, i suoi stati
d’animo, nonché i suoi gusti e la sua personalità. I suoi effetti, sono
dunque di natura fisica, psichica e biologica. In un uomo "medio" (20-
30 anni di età, 1,70 m di altezza per 70 kg di peso), ci sono circa 30
trilioni di cellule e 39 trilioni di batteri! (R.Milo, R.Sender, S.Fuchs;
2016. Confr.: http://www.biorxiv.org/content/10.1101/036103v1).
Tuttavia, anche le cellule del corpo umano, non si possono definire
“puramente umane”. Infatti, durante il corso della nostra evoluzione,
dei batteri sono stati integrati, “addomesticati” e “naturalizzati”,
affinché non lasciassero più l’intimità delle cellule umane, divenendo
in tal modo essenziali per il loro funzionamento.
Scendendo in profondità a scale ancora più ridotte, troviamo i
cromosomi; delle lunghe molecole di DNA e proteine associate, in cui
si trovano le loro unità funzionali: i geni. Fin dalla notte dei tempi,
l’uomo ha regolarmente incorporato nel suo genoma, centinaia di geni
“estranei”. In totale, si tratta di più di centomila frammenti di virus, che
vanno a costituire circa l’8% dell’intero genoma umano; in pratica
quindi, circa l’8% del nostro DNA, è di origine virale! Si tratta di virus
endogeni (resti di antiche battaglie tra il sistema immunitario dei nostri
Staphylococcus epidermidis
(Wikipedia)
3. antenati e i virus patogeni presenti nei vari periodi storici in cui hanno
vissuto; sequenze genetiche che testimoniano infezioni avvenute cento
milioni di anni fa), che l’evoluzione umana, in alcuni casi, ha
trasformato in vere e proprie armi contro gli attuali virus moderni.
Questi frammenti di DNA virale (incorporati nel nostro genoma),
regolano dei geni che sono parte integrante del nostro sistema
immunitario innato. Ma la cosa più sorprendente è che, nel momento in
cui questi frammenti virali vengono rimossi sperimentalmente, l’intero
sistema immunitario ne risente e si paralizza! (E.B. Chuong, N.C. Elde,
C.Feschotte;2016.Confr.:http://science.sciencemag.org/content/351/62
77/1083). Questi “virus fossili” sono ospiti fissi del genoma umano e di
quello di moltissime specie di mammiferi. In uno studio di circa dieci
anni fa su questi virus fossili, sono state rilevate tracce di ben dieci
famiglie di virus differenti; tra cui lontani parenti del virus Ebola e di
quello dell’epatite B. Alcune di tali famiglie di virus, sono riuscite ad
integrare (in un dato momento dell’evoluzione) il proprio materiale
genetico nel DNA delle cellule germinali della specie che hanno
infettato, permettendo così ai geni virali di essere trasmessi di
generazione in generazione fino ad oggi. (A. Katzourakis, R.J. Gifford;
2010. Confr.: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21124940).
L’essere umano quindi, nella sua integrità, altro non è che il risultato di
una perfetta collaborazione intra ed interspecifica tra microrganismi di
ogni genere. Tutti gli esseri viventi sono organizzati secondo una
gerarchia di livelli (molecole, cellule, organismi, popolazioni,
ecosistemi) all’interno dei quali si stabilisce una fitta rete di interazioni
che concorrono a determinare l’adattamento del livello superiore.
Tuttavia, solo certe combinazioni di interazioni sono possibili e
compatibili con la vita e fra le combinazioni possibili in ogni dato
momento storico e in ogni ambiente, alcune sono capaci di riprodursi
più di altre. In sintesi quindi gli esseri viventi potrebbero essere definiti
come sistemi aperti e interattivi, capaci di dare ordine utilizzando
energia secondo programmi variabili e quindi di riprodursi adattandosi;
ovvero modellandosi secondo le esigenze ambientali e temporali.
Secondo il biologo e genetista americano Richard Charles Lewontin:
“Esiste, e già da molto tempo, un’ampia serie di prove a dimostrazione
del fatto che l’ontogenesi di un organismo è la conseguenza di
un’interazione unica tra i geni di cui è portatore, la sequenza di
ambienti esterni con cui entra in contatto nella sua vita e le interazioni
molecolari casuali all’interno delle singole cellule. È di queste
interazioni che va tenuto conto, per spiegare come si forma un
organismo”.
4. Nel regno vegetale soprattutto (ma anche in quello animale), quelle
leggi della natura che mettono in relazione il fenotipo di organismi di
un particolare genotipo con l’ambiente, sono dette norme di reazione.
Un modello di reazione è la mappatura dell’ambiente in fenotipi,
caratteristica di una particolare conformazione genetica. Quindi un
genotipo non dà luogo a un unico tipo di sviluppo, ma a una norma di
reazione; ovvero a uno schema di diversi tipi di sviluppo in ambienti
diversi. Se prendiamo ad esempio in considerazione la Drosophila
melanogaster (il comune “moscerino della frutta”), notiamo che, per
ceppi genetici diversi (isolati dalle popolazioni naturali di tale insetto),
messi a confronto in ambienti diversi, senza specificare le temperature
che la specie incontrerà nel corso della sua evoluzione, risulta
impossibile prevedere quale genotipo risulterebbe favorito dalla
selezione naturale, a causa delle sue maggiori probabilità di
sopravvivere. Tra gene e ambiente si verificano interazioni uniche tali
che l’ordinamento dei fenotipi non trova corrispondenza in alcun
ordinamento separato a priori, di genotipi o di ambienti.
Come forma di vita terrestre, quella
umana è sicuramente una delle più
fragili. Se pensiamo ad esempio al
tardigrado, un piccolo organismo
eutelico (ovvero con un numero
costante di cellule durante tutto il suo
percorso di vita) le cui dimensioni
lineari variano da meno di 0,1 mm
fino a circa 1,5 mm, esso è in grado
di sopravvivere quasi un decennio in
condizioni di totale mancanza
d’acqua (disidratazione), di resistere
per molti giorni a temperature
estremamente basse (fino a meno
duecento gradi Celsius) come pure per qualche minuto a temperature
estremamente alte (fino a 151°C). Essi sembrano inoltre indifferenti alle
radiazioni ionizzanti (anche a dosaggi iper elevati, di cui una piccola
percentuale, sarebbe già letale per un essere umano!); uno studio di
pochi anni fa (2016) condotto da alcuni ricercatori dell’Università di
San Diego (UCSD), ha dimostrato che una proteina esclusiva di questi
animali chiamata Dsup1
, è in grado di ridurre i danni da radiazioni sul
1
Questa proteina (Dsup – damage suppressor) si lega al materiale genetico
all’interno di ciascuna cellula, per poi formare uno scudo protettivo che
Il tardigrado Hypsibius
dujardini (Wikipedia)
5. DNA umano del 40%. Questi minuscoli e ultra resistenti esseri viventi,
possono persino sopravvivere nello spazio aperto, in mancanza di
ossigeno e di tutti gli altri gas presenti nell’atmosfera terrestre (dunque
anche in mancanza di una determinata pressione atmosferica; il fatto
più sorprendente però, è che essi riescono a sopravvivere anche a
pressioni estremamente elevate, maggiori di quelle presenti su diversi
fondali marini).
Definire la specie umana come una forma di vita contraddistinta da una
innata fragilità biologica, che fin dalla notte dei tempi accompagna il
suo percorso evolutivo, è sicuramente una conclusione piuttosto
evidente. Fortunatamente però, il nostro percorso evolutivo ci ha portati
a sviluppare un’intelligenza tale da farci scoprire in che modo (grazie
alle scienze biomediche in primis, ma anche alla psicologia) affrontare
e combattere, tutti quegli agenti fisici e psicologici che minano la nostra
salute sin dai primi giorni in cui veniamo alla luce. Il vero grande
problema dell’uomo, oggi, non è quello di trovare il modo di restare in
vita il più a lungo possibile (visto che statisticamente, la durata media
della vita è aumentata costantemente negli ultimi duecento anni); bensì
quello di capire come ridurre la velocità con cui si invecchia. Come
giustamente ci ricorda il biochimico inglese Guy Brown: “La durata
media di vita è aumentata perché abbiamo rimosso specifiche cause di
morte, ma i processi molecolari di invecchiamento all’interno del corpo
umano sono inesorabilmente continuati. Dato che l’aspettativa media
di vita è cresciuta, ma la velocità di invecchiamento è rimasta invariata,
stanno aumentando gli anni passati in uno stato di malattia e di
dipendenza e le persone muoiono sempre più di ‘vecchiaia’. È stato
calcolato che se ci liberassimo delle principali cause di morte odierne
(malattie cardiovascolari, cancro e ictus), l’aspettativa di vita
crescerebbe di soli quindici anni. Non siamo neppure sicuri di che cosa
debbano morire gli anziani in assenza di malattie cardiovascolari,
cancro e ictus. Il certificato di morte registra una qualche causa di
morte prossima all’evento, come una polmonite, ma questa costituisce
l’esecutore della morte, non il regista che si cela dietro di essa. La
causa ultima è l’invecchiamento, ma fra causa ultima e causa prossima
scherma il DNA dai radicali idrossili. Le radiazioni (come pure l’esposizione
a sostanze chimiche altamente nocive) possono scindere le molecole d’acqua
all’interno delle cellule e formare particelle patogene (radicali idrossili), in
grado di danneggiare il DNA. La barriera protettiva creata dalla proteina
Dsup, impedisce che ciò accada. Dalle notevoli proprietà di tale proteina,
emerge dunque la capacità dei tardigradi di tollerare sostanze chimiche assai
nocive che ucciderebbero qualsiasi altro essere vivente.
6. c’è in mezzo, verosimilmente, qualche disfunzione o qualche processo
patologico specifico che conduce a una specifica forma di morte. Nel
caso della polmonite, la ragione per cui l’anziano diventa suscettibile
a un’infezione, che pochi anni prima avrebbe facilmente debellato, deve
risiedere in una disfunzione polmonare o del sistema immunitario, o di
qualche altro sistema che controlla quest’ultimo. Quando le persone
vivranno più a lungo e pochi moriranno per cause conosciute,
scopriremo inevitabilmente nuovi processi patologici associati
all’invecchiamento avanzato, proprio come l’aumento della longevità
ha già rivelato le malattie neurodegenerative”.
Concludo questo articolo accostandomi al pensiero di uno dei più
autorevoli biologi e naturalisti contemporanei, Edward O. Wilson, che
in uno dei suoi libri più fortunati (“The Social Conquest of Earth”,
2012), a proposito del futuro del sapere scientifico, si espresse così:
“(…) i futurologi tendono a soffermarsi sulle strade che, a loro avviso,
l’umanità dovrebbe imboccare. Ma data la vergognosa mancanza di
auto-comprensione della nostra specie, l’obiettivo migliore al momento
potrebbe essere quello di scegliere dove non andare. (…) L’umanità è
una specie biologica in un mondo biologico. In ogni funzione del nostro
corpo e della nostra mente e a ogni livello, siamo finemente adattati a
vivere su questo particolare pianeta. Apparteniamo alla biosfera fin
dalla nostra nascita. Pur essendo stati incensati in mille modi, restiamo
una specie animale della fauna globale”.
Fausto Intilla,
16 febbraio 2020