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"La vita è l’unico gioco in cui lo scopo
del gioco è di impararne le regole".
Ashleigh Brilliant
“Se un uomo non tiene il passo con i compagni,
forse questo accade perché ode un diverso tamburo.
Lasciatelo camminare secondo la musica che sente,
quale che sia il suo ritmo o per quanto sia lontana".
Henry David Thoreau
Indice
Prefazione
Capitolo I
La Guerra dei Mondi
1.1. Nulla c’è di nuovo, se non ciò che è dimenticato
1.2. L’evoluzione delle idee
1.3. Sulle orme del pensiero creativo
1.4. Creatività, genio e follia.
Capitolo II
Lo specchio delle meraviglie
2.1. Nel regno delle belle arti
2.2. Arte e scienza, una simbiosi inevitabile
2.3. L’importanza della musica
2.4. I poteri della danza
Capitolo III
Pensieri sparsi
3.1. Le vie del sentimento
3.2. Le vie della consapevolezza
3.3. Miscellanea
Appendice
Bibliografia
Sitografia
Prefazione
Fin dalla notte dei tempi, l’evoluzione delle idee in ogni ambito
dell’attività umana, non ha potuto fare a meno di abbandonarsi
ad un sofisticato intreccio di analogie, riferimenti espliciti ed
astratti, associazioni, commutazioni e parallelismi, tra i più
svariati concetti e modelli della realtà, inerenti ad ogni settore
della conoscenza umana.
Tuttavia, solo in tempi assai recenti (storia contemporanea) si è
riscoperto (poiché già noto in tempi antichi, quando ogni ambito
della sfera umana si inseriva in uno stesso disegno, percepito da
tutti con un profondo “senso del divino”; ovvero prima dell’era
cartesiana) il sublime nesso tra tutte le cose (prodotte e non
prodotte dall’uomo; di natura astratta ed empirica) presenti nel
grande regno della realtà (sensibile e sovrasensibile), che ci
consente di visualizzare meglio ogni sottile collegamento tra
tutto ciò che siamo sempre stati abituati a scindere, a
suddividere in compartimenti stagni, ai quali abbiamo dato il
nome di Arte, Scienza e Filosofia.
Scopo (ma forse sarebbe meglio dire tentativo, visto che ogni
paradigma trova sempre il modo di sopravvivere anche agli
attacchi più duri) di quest’opera, è dunque quello di esporre
alcuni punti di partenza dai quali, seguendo percorsi diversi, si
arrivi ad un unico obiettivo: intravedere (poiché vedere sarebbe
chiedere troppo) l’immagine di una realtà unitaria, dove tutto il
sapere e l’operato umano, rivelino (seppure in termini metafisici
ed astratti) la loro sottile interdipendenza con la natura dei nostri
stessi sensi (filtri irremovibili e dai benèfici risvolti di stampo
darwiniano), istinti ed emozioni.
Anche se non possiamo fare a meno di trovarci in accordo con
l’imperativo kantiano di non poter mai in alcun modo conoscere
la vera natura assoluta della realtà1
(in quanto siamo tutti
osservatori, vincolati-limitati dai nostri stessi sensi, che
osservano sistemi da cui non ci si può mai separare-isolare;
ovvero siamo sempre compartecipi di una realtà che prende
forma e si concretizza nel momento in cui la osserviamo e
cerchiamo di comprenderla, una sorta di circuito-meccanismo
autoreferenziale spiegato dalle leggi della meccanica quantistica
poco più di un secolo dopo la morte del grande filosofo tedesco
di Königsberg), possiamo tuttavia lasciarci abbagliare da quei
brevi impulsi di luce (ovvero di informazione) che solo l’intuito
può cogliere, e trasformare in “verità” ineffabili da custodire
gelosamente dentro noi stessi (nel cuore e nella mente). Nel
migliore dei casi che io possa ipotizzare, la “somma” di tali
impulsi (ovvero di molte “piccole verità”), col tempo dovrebbe
rivelare tutta la sua “forza espressiva”, modificando le nostre
menti al fine di giungere ad un unico obiettivo: renderle libere.
Fausto Intilla,
Cadenazzo, 7 agosto 2015
1
Il riferimento è ovviamente all’interpretazione kantiana del concetto di
noumeno. Noumeno (dal greco νοούμενoν) significa “ciò che è pensato” e si
distingue da “fenomeno”, che invece significa: “ciò che appare”. Secondo
Kant, noi costruiamo l'oggetto fenomenico, ma esiste una cosa in sé
(noumeno), indipendente dal soggetto. Dunque il noumeno si colloca “al di là
dell’esperienza”, in una realtà che rimarrà sempre sconosciuta alla percezione
umana (poiché non raggiungibile-osservabile attraverso i nostri cinque sensi).
La netta distinzione kantiana tra soggetto e oggetto, venne tuttavia superata
dalla tesi di Karl Leonhard Reinhold (molto più vicina all’attuale paradigma
scientifico sul concetto di realtà, dettato dai principi della meccanica
quantistica), per il quale soggetto e oggetto, sono impensabili separatamente
(poiché da intendersi come le due facce di una stessa medaglia).
Figura 1.1. Triangolo di Intilla
LA GUERRA DEI MONDI
"Sopra questa era ricca di doni, in questo momento buio,
Cade dal cielo come meteore una pioggia
Di fatti... giacciono indiscussi, slegati.
Una saggezza sufficiente per dissolverci dal nostro male
Viene filata ogni giorno: ma non esiste alcun telaio
Per tesserla in una stoffa..."
Edna St. Vincent Millay
Nulla c’è di nuovo, se non ciò che è dimenticato
Desideri, emozioni, impulsi, eventi fortuiti, ricordi, nuova
conoscenza e quant'altro; è tutto ciò di cui si nutre la nostra
volontà. I tentacoli della nostra mente sono abbastanza lunghi da
toccare sia il passato che il futuro. Se volessimo dare una forma
al “libero arbitrio”, dovremmo pensare a un quadro di Pollock
(dipinto con la tecnica dello sgocciolamento), di dimensioni
spaventosamente grandi; talmente grandi, da compromettere
l'accezione stessa di ciò che comunemente intendiamo per
“libero arbitrio”. Senza la poetica, sia nell’arte come nella
scienza, tutto diverrebbe molto più insipido e dunque assai
difficile da gustare ed apprezzare.
Tutte le diversità del nostro Universo dipendono dagli elettroni
di valenza di ogni singolo atomo di cui è composto; in altri
termini, l'estetica degli atomi definisce l'estetica dell'Universo.
Ma l'estetica è spazialità, geometrie, simmetrie e anche
informazione (sono le superfici, e non i volumi, a fare la
differenza). Scavando sempre nello stesso luogo, da qualche
parte alla fine si riemerge sempre: e quello è il punto in cui
possiamo osservare il panorama a 360 gradi, è il punto in cui
possiamo comprendere ogni cosa. Come osservò giustamente
Willard van Orman Quine: "Si dice che il linguaggio serva a
trasmettere idee: quando impariamo un linguaggio impariamo
ad associarne le parole alle stesse idee a cui le associano gli
altri parlanti. Ma come sappiamo che queste idee sono davvero
le stesse?"2
. La logica per Quine non è solo una tecnica del
ragionamento, ma, come ogni altra scienza, ha il compito di
ricercare la verità, separando gli enunciati veri da quelli falsi.
Essa ha un carattere più generale rispetto alle singole scienze; è
la struttura comune ed è uno strumento comunicativo più
soddisfacente e preciso del linguaggio naturale (che deve quindi
essere controllato e riformato mediante la logica). Secondo
Donald Gillies e Giulio Giorello: “Accettiamo due termini come
sinonimi soltanto se la loro identità è ‘necessaria’ - ma la verità
‘necessaria’ non è altro che una versione della verità
‘analitica’, e si finisce così per ragionare in circolo. (…) Se
nella conoscenza sapessimo separare la componente fattuale da
quella puramente linguistica, potremmo rifondare la distinzione
tra ‘analitico’ e ‘sintetico’ che ossessiona la filosofia almeno
dai tempi di Leibniz e di Kant. (…) Quine si ostinava a ripetere
che quando cambia l'enciclopedia con cui descriviamo il mondo
non dobbiamo concludere che la verità cambi con essa, ma che
‘erroneamente abbiamo supposto vero qualcosa e che abbiamo
imparato meglio’. La verità resta quella dell'indagine scientifica
- e i metodi di quest'ultima vanno estesi alla filosofia. Quine
parlava di ‘naturalizzare’ la stessa teoria della conoscenza,
ricorrendo agli strumenti ‘cognitivi’ offerti da psicologia, logica
e informatica”3
.
Secondo il filosofo inglese Francis Bacon, considerato il
fondatore del metodo induttivo, la potenza umana dipende dal
grado di conoscenza della natura. Per dominare la natura è
necessario conoscerne il funzionamento, interpretarne le ragioni.
2
W.V.O. QUINE, Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano, 2008.
3
D. GILLIES, G.GIORELLO, La filosofia della scienza nel XX secolo,
Laterza, Roma-Bari, 1995.
L'uomo, ministro ed interprete della natura, deve collezionare
una ricca serie di osservazioni per poterne ricavare il “succo
della conoscenza”. L'idea di fondo dell'induttivismo è che la
scienza parta da osservazioni, e da queste muova a
generalizzazioni (leggi o teorie) e a predizioni. Secondo
l'induttivismo è un errore gravissimo costruire teorie quando
mancano i dati. Le anticipazioni della natura fanno invece parte
integrante dell'esperienza scientifica, secondo Popper, e Russell
nota che il principio dell'induzione sul quale si basa
l'induttivismo4
, anche se spesso utilizzato nelle esperienze
quotidiane, non può essere assolutamente dimostrato
logicamente, e può fondare solo ragionamenti probabilistici
(infatti, un gran numero di casi non costituisce la totalità dei
casi). Secondo Popper, il principio dell'induttivismo non può
essere fondato né logicamente né empiricamente sulla prassi
scientifica effettiva (se ne otterrebbe un circolo vizioso).
L'osservazione semplice non esiste: essa è sempre selettiva, e la
sua interpretazione e descrizione è carica di teoria. Né può
trovare legittimazione logica il principio dell'uniformità della
natura, secondo il quale la natura agisce sempre secondo le
stesse leggi. Il rifiuto del principio dell'induzione di Popper si
oppone alla sostanziale accettazione di esso che in definitiva
opera Russell. Secondo Russell dobbiamo credere nel principio
di induzione in virtù di una sorta di cieco atto di fede, se
vogliamo fare scienza. Popper invece è dell'idea che il principio
di induzione non serva affatto, se si segue il suo metodo critico
(ossia il metodo delle congetture e delle confutazioni)5
. Tuttavia,
4
Principio secondo il quale dati A e B che si presentano in un gran numero di
casi sempre e solo assieme, e dato poi uno dei due, si può desumere che
immancabilmente si presenterà anche l'altro.
5
Secondo Popper la scienza non nasce da osservazioni ma da congetture che,
finché non vengono falsificate empiricamente dai controlli, sono
provvisoriamente accettate. Questo significa che non possiamo essere mai
assolutamente certi della verità di una teoria. Una teoria che supera un
numero finito di controlli non deve essere ritenuta vera, ma solo non
falsificata. Compito dello scienziato è quello di congetturare teorie da
come giustamente puntualizza Andrea Mosca nella sua
recensione al libro di D.Gillies e G.Giorello (La filosofia della
scienza nel XX secolo), esiste una ragionevole forma di
induttivismo coniugato con il metodo popperiano delle
confutazioni, proposto da Peter Mitchell; tale metodo prende il
nome di induzione congetturale.
Secondo Pierre M. Duhem, “un fisico non può mai sottoporre al
controllo dell'esperienza un'ipotesi isolata, ma soltanto tutto un
insieme di ipotesi. Quando l'esperienza è in disaccordo con le
sue previsioni, essa gli insegna che almeno una delle ipotesi
costituenti l'insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma
non gli indica quale dovrà essere cambiata". Ma questa tesi di
Duhem, vale solo per una parte dell'intero “edificio scientifico”
(segnatamente per la fisica); non valendo, ad esempio, per le
questioni di fisiologia. Secondo W.V.O Quine, invece: "Tutte le
nostre cosiddette conoscenze o convinzioni, dalle più fortuite
conoscenze di geografia e di storia alle più profonde della fisica
atomica o financo della matematica pura o della logica, tutto è
un edificio fatto dall'uomo che tocca l'esperienza solo lungo i
suoi margini.(…) Un disaccordo con l'esperienza alla periferia
provoca un riordinamento all'interno del campo.(…) Ma l'intero
campo è limitato dai suoi punti limite, cioè l'esperienza, in modo
così vago che rimane sempre una notevole libertà di scelta per
decidere quali siano le asserzioni di cui si debba dare una
nuova valutazione alla luce di una certa particolare esperienza
contraria. Una esperienza particolare non è mai vincolata a
nessuna asserzione particolare all'interno del campo tranne che
indirettamente per delle esigenze di equilibrio che interessano il
campo nella sua globalità. (…) Tutte le asserzioni si potrebbero
far valere qualsiasi cosa accada se facessimo delle rettifiche
sufficientemente drastiche in qualche altra parte del sistema". È
chiaro quindi che la tesi di Quine si estende all'intero sistema
della conoscenza umana; sistema che può essere mantenuto,
sottoporre poi alla prova dei controlli più rigorosi che possano essere
escogitati.
malgrado qualsiasi falsificazione empirica, mediante
riaggiustamento interno.
Nel campo della fisica delle particelle, il Modello Standard è un
buon esempio a sostegno di tale tesi; esso infatti, col susseguirsi
di esperimenti sempre più sofisticati ed innovativi nella fisica
delle alte energie, per continuare ad essere ritenuto “valido” da
una gran parte della comunità scientifica, deve essere
continuamente e scrupolosamente ritoccato, sulla base dei nuovi
dati sperimentali che pian piano si accumulano nei vari
laboratori di ricerca in cui vengono utilizzati dei grandi
acceleratori di particelle (di tali acceleratori, il più conosciuto al
mondo è indubbiamente il Large Hadron Collider del CERN di
Ginevra, dove il 4 luglio del 2012 è stato scoperto il Bosone di
Higgs)6
.
Secondo il filosofo (nonché economista e sociologo) austriaco
Otto Neurath, la scienza può essere sempre soggetta a revisioni,
senza che possano essere fissate delle asserzioni che godano di
eterna indubitabilità; egli infatti sosteneva che: "Non c'è alcun
modo per formulare delle proposizioni protocollari pure e
definitivamente assunte per vere, come base di partenza della
scienza. Non è possibile alcuna tabula rasa. Siamo come
marinai che devono riparare la loro nave in mare aperto senza
poterla smantellare in un bacino per ricostruirla con materiali
migliori". Popper condivide questa idea ma sostiene anche che i
protocolli possano essere corretti solo a partire da altri protocolli
e non dall'esperienza percettiva. Una tesi questa, da cui però
Donald Gillies si discosta, affermando che: “Molti esperimenti
di psicologia dimostrano che le nostre percezioni sono in realtà
interpretazioni immediate e persino inconsce. Noi interpretiamo
continuamente le nostre esperienze sensoriali in base a teorie
6
Per avere un’idea della mole di dati con cui i fisici teorici e sperimentali del
CERN debbono continuamente confrontarsi, basti pensare che nel corso dei
primi tre mesi di lavoro del 2012, LHC è arrivato a realizzare circa 560.000
miliardi di collisioni protone-protone e per la fine del 2012 erano previste un
milione e mezzo di miliardi di collisioni protone-protone.
del senso comune. Alcune di queste teorie possono essere
innate, ma altre sono sicuramente apprese con l'esperienza".
Thomas Kuhn definisce scienza normale quella che lavora alla
soluzione dei rompicapo, ossia di problemi ritenuti risolvibili e
significativi all'interno di una data cornice teorica (il paradigma,
appunto). Ogni paradigma contiene però le sue anomalie, ossia
problemi che la struttura concettuale di quella data scienza
normale non riesce a risolvere, e per questo lascia sullo sfondo.
Quando tali anomalie diventano centrali, e nasce un nuovo
paradigma che le comprende e le spiega, si ha la fase
rivoluzionaria della scienza. Una rivoluzione scientifica è
costituita dal passaggio di una significativa sezione della
comunità scientifica all'adozione di un nuovo paradigma. Tra
due paradigmi non è possibile però una scelta razionale secondo
i canoni della metodologia popperiana: essi possono anche
osservare gli stessi fenomeni, ma li interpretano in modo
completamente dissimile. Per Kuhn, "la competizione tra
paradigmi diversi non è una battaglia il cui esito possa essere
deciso sulla base delle dimostrazioni". In una delle sue opere
più importanti, “Pensiero e movimento”, Henri Bergson
scriveva: "Vi sono due specie di chiarezza. Un'idea nuova può
essere chiara perché ci presenta, semplicemente adattate in un
nuovo ordine, delle idee elementari che possedevamo già. La
nostra intelligenza, trovando nel nuovo solo del vecchio, si sente
in uno stato di conoscenza; essa è a suo agio, 'comprende'. Tale
è la chiarezza che desideriamo, che ricerchiamo e di cui siamo
sempre grati a colui che ce la apporta. Ma ve ne è un'altra, che
subiamo e che, del resto, si impone solo alla lunga: quella
dell'idea radicalmente nuova e assolutamente semplice, che
capta, più o meno, un'intuizione. Non possiamo ricostituirla con
degli elementi preesistenti poiché non ha elementi, e d'altra
parte, dal momento che comprendere senza sforzo consiste nel
ricomporre il nuovo con il vecchio, il nostro primo impulso è di
dirla incomprensibile. Ma accettiamola provvisoriamente,
portiamoci con lei nei diversi dipartimenti della nostra
conoscenza; la vedremo, oscura, dissipare le oscurità. Grazie a
essa, problemi che giudichiamo insolubili tendono a risolversi,
o piuttosto, a dissolversi, per scomparire definitivamente o per
porsi altrimenti".7
Cercare un legame tra dieci teorie
scientifiche, tutte inerenti a uno stesso argomento della natura, è
ricerca scientifica. Dar credito ad una sola di tali teorie,
elaborandola maggiormente ed escludendo a priori tutte le altre,
o crearne delle nuove, che non abbiano radici nelle precedenti, è
speculazione scientifica. La cosa più interessante è che a volte
funziona, e dà luogo a dei cambiamenti radicali nella nostra
visione e comprensione della realtà.
Andrea Mosca, nella sua recensione all’opera già citata di
Gillies e Giorello, afferma che: “La scienza matura, come del
resto ammette anche Popper, non può esistere senza una certa
dose di dogmatismo, o di tenacia, che ci permette di
riconsiderare la formulazione di una teoria, anziché
abbandonarla, dopo che questa ha subito lo scacco della
falsificazione.(…) Kuhn e Feyerabend concordano nel ritenere
impossibile il passaggio da un paradigma all'altro sulla base di
una discussione critica di stile popperiano: esso avviene solo
mediante "conversione". Un nuovo paradigma porta con sé
concetti nuovi, che presentano uno slittamento di significato tale
da rendere questo paradigma 'giovane', irriducibile a quello
'vecchio'. Un nuovo paradigma comporta anche un lavoro di
traduzione dei concetti già noti in un nuovo linguaggio
concettuale, dotato di nuove regole e di nuovi schemi esplicativi.
Secondo Feyerabend, inoltre, un mutamento radicale di
prospettiva è sempre più auspicabile di una serie di piccoli
aggiustamenti, dal momento che rendono più probabile che ci si
schiudano orizzonti di ricerca interessanti ed inediti”.
Secondo Giorello: "La traduzione permette di indicare una
possibilità di confronto là dove, a prima vista, sembra che ci sia
spazio solo per lo scontro tra due programmi o schemi
concettuali rivali". Infatti, come nota giustamente Putnam: "Non
potremmo nemmeno dire che quelle concezioni differiscono o
7
H. BERGSON, Pensiero e movimento, Bompiani, Milano, 2000, p.28.
come differiscono se non fossimo in grado di tradurle". Per dirla
con Andrea Mosca: “Se ci deve essere dialogo e non solo
scontro tra paradigmi incommensurabili, questo dialogo non
può non svilupparsi su di un terreno comune di conoscenze
condivise, in termini di dati, concetti, procedure, tecniche e
strumentazioni di rilevamento e misurazione. Su questi elementi,
se ci deve essere un dialogo, e non due monologhi, non ci può
essere irriducibilità, né interpretazione che muti l' ‘ontologia di
fondo’ dell'altro programma di ricerca”.
Quando le particelle collidono tra loro, possono annichilirsi
oppure creare nuove particelle e nei casi più fortunati, dare
origine a nuove teorie fisiche. La stessa cosa vale per le
opinioni: quando si scontrano possono rivelare la loro fallacia
(annullandosi vicendevolmente) oppure completarsi-rafforzarsi,
assumendo dei contorni molto più definiti; e come per le
particelle, nei casi più fortunati possono dare origine a nuove
idee, a nuove teorie. Il valore di un’opinione, è definibile in
funzione degli elementi logici, empirici, storici e culturali da cui
trae origine; tuttavia, per quanto molteplici opinioni di grande
valore possano tentare di convergere tutte verso un’unica
conclusione/soluzione, esisteranno sempre degli elementi
culturali divergenti che ostacoleranno tale processo. È per
questo che l’intera società umana sulla Terra, sarà sempre
formata da vari popoli, che non si capiranno mai tra loro fino in
fondo. Nella sua opera di maggiore importanza, ovvero nel libro
“Il pensiero cinese”, Marcel Granet afferma che: “Invece di
constatare successioni di fenomeni, i cinesi registrano
alternanze di aspetti. Se due aspetti appaiono loro legati, non è
alla maniera di una causa e di un effetto: essi sembrano loro
accoppiati come lo sono il dritto e il rovescio, o, per utilizzare
una metafora consacrata fin dai tempi dello Hi ts’eu, come l’eco
e il suono, o anche come l’ombra e la luce. La convinzione che
il Tutto e ciascuna delle totalità che lo compongono hanno una
natura ciclica e si risolvono in alternanze, domina talmente il
pensiero che l’idea di successione è sempre dominata da quella
di interdipendenza. Non si avrà dunque alcuna difficoltà ad
usare spiegazioni a posteriori. (…) Invece di considerare il
corso delle cose come un seguito di fenomeni suscettibili di
essere misurati, e quindi messi in rapporto, i cinesi non vedono
nelle realtà sensibili altro che una massa di segnali concreti.
(…) I cinesi, dunque, lungi dal cercare di isolare i fatti dalle
condizioni di tempo e di spazio, li considerano solo come segni
rivelanti le qualità proprie di un determinato Tempo o di un
determinato Spazio. Non si curano di registrarli riconducendoli
ad un sistema uniforme e immutabile di riferimenti. (…) Quando
un’apparenza concreta sembra ‘chiamare’ un’altra apparenza, i
cinesi pensano di essere in presenza di due segni coerenti che si
evocano con un semplice effetto di ‘risonanza’: entrambi
testimoniano uno stesso stato o piuttosto uno stesso aspetto
dell’Universo. (…) Per informarsi sull’Universo, è sufficiente
elencare segnali. Ma se una realtà particolare corrisponde ad
ogni emblema, ogni emblema possiede un potere di evocazione
che è indefinito. Esso suscita, con una specie di effetto diretto,
una folla di realtà e di simboli sostituibili. Questa ‘virtù
contagiosa’ degli emblemi differisce radicalmente da una
partecipazione delle idee. Non si immaginano limiti alla
adattabilità dei diversi simboli. Non si vede, di conseguenza,
nessun vantaggio nel classificare le idee e le cose per generi e
per specie. Non potendo perciò assumere un senso relativo, il
principio di contraddizione si trova ad essere superfluo. Invece
di classificare concetti, ci si sforza di ordinare le realtà, o
piuttosto gli emblemi che sembrano più reali perché li si giudica
più efficaci, e ci si sforza di ordinarli gerarchicamente, tenendo
conto della loro efficacia”8
.
Le funzioni cognitive e quelle comportamentali (affettive e
relazionali) vengono assimilate, elaborate e memorizzate,
attraverso l’educazione familiare e la cultura scolastica. A
partire da questi stimoli appresi, il cervello crea la mente e
organizza la “mentalità” dell’individuo. Per le persone nate in
Occidente, l’emisfero sinistro del cervello svolge
8
M.GRANET, Il pensiero cinese, Adelphi, Milano, 1995, pp. 246-250.
prevalentemente funzioni cognitive e comportamentali di tipo
logico-matematico (pensiero razionale); mentre l’emisfero
destro è predisposto per assolvere le funzioni creative (pensiero
artistico). Tuttavia, in Oriente (in particolar modo in Cina e
Giappone), le funzioni logico-matematiche (e in generale di
acculturazione razionale), vengono svolte dall’emisfero destro; e
dunque in tali popolazioni, esso diventa l’emisfero dominante.
L’emisfero sinistro invece, contrariamente a quello degli
occidentali, svolge in questo caso le funzioni più creative e
irrazionali. Questa diversità tra la popolazione Orientale e quella
Occidentale, non ha radici genetiche (come si supponeva
inizialmente in ambito scientifico), bensì è frutto dell’utilizzo
della lingua parlata e scritta. Infatti, sia i giapponesi che i cinesi,
scrivono in ideogrammi “grafico-pittorici”, i quali vanno ad
attivare inevitabilmente l’emisfero destro (rendendolo dunque,
chiaramente, quello dominante).9
Marcello Ghilardi, ricercatore in Estetica e Filosofia
all’Università di Padova, non ha alcun dubbio sul fatto che
“Hegel vede riflessa la differenza tra Oriente ed Occidente
nella scrittura. La scrittura cinese è scrittura ‘geroglifica’
(ideografica), legata alla materialità del segno. In essa
significante e significato fanno tutt’uno. Manca di
determinatezza oggettiva. La lingua alfabetica, quella
occidentale, è più filosofica. Separa il corpo materiale
della scrittura dal significato invisibile. Permette la
costituzione di un’identità spirituale. La lingua alfabetica, per
Hegel, è più formale, più intelligente, insomma …è
“superiore”10
.
I primi interpreti e confutatori del Trattato Teologico-Politico e
dell’Etica di Spinoza, giunsero a sottolineare la profonda affinità
tra il monismo teorizzato dal pensatore dell’Aja (condensato
9
A. MUSSO, Il linguaggio segreto del corpo, Jackson, 2000.
10
M.GHILARDI, Il vuoto, le forme, l’altro. Tra Oriente e Occidente,
Morcelliana, Brescia, 2015.
nella formula Deus sive Natura11
), e la visione cinese
dell’Universo. Lisa Vagnozzi, nel suo libro: “L’isola di Ajao”,
spiega che “la convinzione che vi sia una profonda analogia tra
dottrina spinoziana e pensiero cinese viene ripresa e accentuata
da Bayle nel suo ‘Dictionnaire historique et critique’,
determinando una sorta di rovesciamento cronologico, per cui
si prende a sostenere lo spinozismo dei cinesi e, di conseguenza,
il loro ateismo e materialismo. Nell’ottica bayliana,
l’associazione tra pensiero orientale e sistema spinoziano è resa
possibile dal considerare quest’ultimo come una sorta di
paradigma del pensiero, che tende periodicamente a
ripresentarsi nel corso della storia dell’umanità”12
.
Nell’analisi di Alessandra Chiricosta, si evidenzia che nel testo
“From Confucius to Kant. The question of information
transfer”13
, Martin Schönfeld ricorda che, durante la sua
formazione, Kant ha trovato principi ispiratori in alcuni
pensatori tedeschi; tre dei quali si erano fortemente interessati al
pensiero cinese, non senza conseguenze: Leibniz, Wolff e
Bilfinger. Secondo l’interpretazione di Schönfeld, il primo testo
di Kant esprime una concezione dello spazio e dell’ontologia,
influenzata dal pensiero cinese; una concezione che
sopravviverà, con leggere mutazioni, lungo tutto l’arco di tempo
della produzione kantiana. La natura consiste di punti di forza,
le cui attività sono finalizzate, causali e armoniose. Elementi
ultimi sono le forze attive, che governano tutto ciò che accade,
non solo il movimento dei corpi: le forze governano
l’interazione tra corpo e mente. Lo spazio risulterebbe formato
dalla rete di interazione di forze dinamiche che, a loro volta,
necessitano dello spazio per irradiarsi e contrarsi: il legame
tra forza e spazio avrebbe dunque una natura ontologica. La
11
La dottrina di Spinoza viene interpretata come una sorta di teoria
dell’anima del mondo o del “grand tout”, ed è su tale base che viene
successivamente associata al pensiero cinese.
12
L. VAGNOZZI, L’isola di Ajao, opera inedita, pp. 182-183.
13
M.SCHOENFELD, From Confucius to Kant. The question of information
transfer”, in “Journal of Chinese Philosophy”, 2006.
realtà è una dinamica tra il legame dell’energia e il continuum,
energia-momento e spazio-tempo. Schönfeld continua
ribadendo che, nonostante il “fallimento” di molte delle
concezioni espresse in questo testo giovanile, certe altre
diverranno strutturanti del pensiero kantiano, in particolare la
sollecitazione di Bilfinger: la natura è energia; l’energia è
un’interattività dinamica; l’interattività dinamica è armonia di
opposti. Secondo Schönfeld, la concezione dello spazio come
campo di forze sarebbe ribadita anche nella Critica della Ragion
Pura, in cui la possibilità stessa della percezione sarebbe
data da una relazione attiva tra l’oggetto che si dà
all’esperienza e il soggetto che la esperisce.
Nell’opera del 1747, ispirata da Bilfinger, Kant sostiene
che l’universo sia “intessuto” da una dinamica di forze che,
in quanto tali, sono dotate di un aspetto binario. Nelle
“Meditazioni sul fuoco” (del 1755), egli utilizza nuovamente
la dinamica di attrazione e repulsione come base per una prima
teoria dell’etere; ma è nel 1756, nella “Monadologia Fisica”,
che Kant fornisce la prima teoria sistematica su base
dinamica. In quest’opera sostiene che i principi metafisici
della filosofia naturale richiedono un'interpretazione delle
monadi come unità fisiche, e non meramente spirituali,
come sostenuto da Leibniz. Le unità elementari
irradierebbero “sphaera activatis” attraverso un gioco di
autolimitazioni reciproche delle loro forze attrattive e repulsive:
ciò determinerebbe l’estensione corporea. Fino alla “Fondazione
Metafisica della Scienza Naturale” (1786), Kant non fornirà
nessun’altra teoria sistematica in merito; tuttavia J. Edwards e
M. Schönfeld sostengono che anche durante la “decade silente”
Kant abbia mantenuto e approfondito la teoria espressa
nella “Monadologia Fisica”. Nelle “Riflessioni sulla Fisica”
viene, difatti, ribadito il concetto che la materia, per come
possiamo conoscerla, è la risultante dell'interazione tra forza
attrattiva e repulsiva: quest’ultima riempie lo spazio,
determinando l’estensione materiale e l'impenetrabilità,
laddove la prima limita gli effetti repulsivi dell'espansione,
rendendo possibili volumi specifici dei corpi. Nel 1770, quindi,
Kant sosterrebbe che lo spazio fisico sia “riempito” da un
medium dotato di proprietà quali elasticità, espansività e
omnipervasività: l’etere, appunto, concepito come entità
onnipresente, la cui azione genera i corpi e la loro
organizzazione. Il modello dell’etere, come sistema di
interazioni dinamiche, fonda il realismo monistico discusso da
Kant in “Riflessioni sulla Fisica”: la realtà è un campo di forze
che determinano lo spazio, ma la loro realtà fisica è possibile
solo in presenza dell'etere, che è strutturato dai limiti che
l’attrazione impone alla repulsione.
Secondo J. Edwards e M. Schönfeld, la deduzione dell’etere
mostra la preoccupazione di Kant di dimostrare l’esistenza a
priori di un continuum dinamico nello spazio fisico percepibile,
ovvero di trovare una prova concettuale della realtà di un campo
di forze che agisca nel cosmo e che renda possibile, come
condizione a priori, l’esperienza di oggetti esterni. Tale
condizione è definita in termini di forza attrattiva e repulsiva, di
campo interattivo ed energetico chiamato “etere” (Äther),
“calorico” (Wärmestoff) o “lumen” (lichtstoff).
L’azione ondulatoria dell’etere è, secondo Kant, uniforme,
continua e auto-ordinantesi, fornendo condizioni sotto le quali
l’esperienza di oggetti spaziali possa manifestarsi, e coinvolge
una cosiddetta “unità collettiva superiore”, come distinta da
un’unità distributiva esperienziale. L’etere è, dunque,
“l’oggetto” (das Eine Object) della nostra esperienza unificata.
Poiché, però, la sua esistenza non può essere esperita alla
stessa maniera degli oggetti, la deduzione dell'etere non è
una prova empirica, ma un argomento a priori. Senza un
campo continuo e dinamico, l’esperienza spaziale sarebbe
impossibile. Essendo il campo un continuum materiale di forze,
e non una categoria formale del pensiero o una forma
soggettiva dell'intuizione, e comprendendo tutti i possibili
contenuti della nostra percezione esterna, può essere
definito come una “condizione trascendentale materiale”.
Tale definizione contrasta in maniera evidente con i limiti
esposti nell’Analitica Trascendentale della “Critica della
Ragion Pura” e, per tale ragione, a detta di J. Edwards e M.
Schönfeld, è stata ignorata da molti studiosi, che hanno preferito
mantenere una raffigurazione più tradizionale di Kant.
In rapporto alle moderne teorie in fisica delle particelle, il
pensiero kantiano (sui concetti di spazio, tempo e forze
interagenti), agli occhi di qualsiasi fisico teorico dei nostri
tempi, può solo apparire come uno dei primi veri pilastri portanti
di tutta l’impalcatura teorica sviluppatasi in ambito scientifico
all’inizio del Novecento; dove quella “sostanza” onnipresente e
omnipervasiva con la quale interagivano e dalla quale
dipendevano tutte le forze dell’Universo, chiamata etere,
gradualmente venne sostituita con il concetto di campo
quantistico (partendo dal quanto di energia di Planck, per poi
arrivare, qualche lustro più avanti, alle equazioni di campo di
Einstein). Come per Kant, non era concepibile l’esistenza di uno
spazio “vuoto di etere”, analogamente, oggi per nessun fisico
teorico, è concepibile l’esistenza di uno spazio “vuoto di
campo” (persino il cosiddetto vuoto quantistico, non si può
considerare come una sorta di “vuoto assoluto”; in quanto ricco
di particelle virtuali che incessantemente continuano a formarsi
e ad annichilirsi reciprocamente, in una danza senza tempo).
A ben vedere quindi, nessuno avrebbe nulla da ridire se a questo
punto esclamassimo: Nulla c’è di nuovo se non ciò che è
dimenticato! Verità e conoscenza sono sempre là fuori, fin dalla
notte dei tempi; basta solo saper volare sempre più in alto, per
coglierne nuove parti, nuove sfaccettature, a noi ancora nascoste
e dunque sconosciute. Ma torniamo al discorso delle analogie.
Se per Kant doveva esistere una dinamica di attrazione e
repulsione come base per una prima teoria dell’etere,
analogamente, oggi sappiamo che vi sono diverse forze di natura
attrattiva e repulsiva, che agiscono sugli insiemi di atomi o
molecole. Queste forze, sia attrattive che repulsive, sono
dipendenti dalla relativa distanza tra i vari atomi. Nei cristalli,
nei quali gli elettroni sono trasferiti tra atomi, vi è, ovviamente,
la forza a relativamente lunga distanza di Coulomb, che è in
genere attrattiva. Questa forza deriva dallo scambio di elettroni
da un atomo al suo vicino, in tale caso è una forza attrattiva di
tipo ionico. Ma l’attrazione ionica è solo una della possibili
forze agenti sui vari atomi. Ci si potrebbe aspettare che la forza
attrattiva agente sugli atomi dovrebbe spingerli insieme fino a
farli collassare. Invece esiste, sempre a distanza breve, una forza
repulsiva che agisce tra gli elettroni dei singoli atomi. Tale forza
viene spiegata a livello microscopico mediante il Principio di
esclusione di Pauli14
. Come risultato, vi è sempre una distanza di
equilibrio alla quale queste due forze si bilanciano esattamente.
A questa distanza di equilibrio, la forza attrattiva, sia
Coulombiana o di altra natura, viene bilanciata esattamente dalla
forza repulsiva tra i due atomi. Se gli atomi si allontanano, allora
la forza repulsiva è minore della forza attrattiva, che tende ad
avvicinarli. Se invece si avvicinano ad una distanza minore di
quella di equilibrio, la forza repulsiva diventa dominante, e
quindi la forza risultante tende ad allontanarli. Poiché le forze
tendono sempre a fare ritornare gli atomi nella posizione di
equilibrio, questa posizione è un equilibrio stabile (e poiché
l'equilibrio è stabile, deve avvenire al minimo dell'energia
potenziale). Negli atomi, le forze elettriche tra protoni sono
repulsive e tenderebbero quindi a distruggere i nuclei. Tuttavia
la maggior parte di essi è stabile e quindi deve necessariamente
esistere un’ulteriore forza di natura attrattiva agente fra
14
Il principio di esclusione di Pauli è un principio della meccanica
quantistica che afferma che due fermioni identici non possono occupare
simultaneamente lo stesso stato quantico. Formulato da Wolfgang Pauli nel
1925, viene anche citato come principio di esclusione o principio di Pauli. Il
principio di esclusione si applica solo ai fermioni, che formano stati quantici
antisimmetrici e hanno spin semi-intero, e che includono protoni, neutroni ed
elettroni, le tre particelle che compongono la materia ordinaria. Esso non è
valido per i bosoni, i quali formano stati quantici simmetrici e hanno spin
intero. Il principio è alla base della comprensione di molte delle
caratteristiche distintive della materia.
nucleoni, su scale dell’ordine di 10-13
cm, in grado di vincere la
forza repulsiva elettrica. In seguito si è dimostrato che tale forza,
analizzata allo stato fondamentale, rappresenta la risultante delle
interazioni fra i quark, i componenti ultimi delle particelle
pesanti quali, ad esempio, protoni e neutroni. La forza tra
nucleoni si può quindi ritenere come una sorta di “forza residua”
in modo analogo a quanto avviene fra gli ioni di un reticolo
cristallino la cui stabilità dipende dalla risultante delle
interazioni elettromagnetiche fra elettroni e nuclei.
Per Kant le monadi, nell’accezione definita da Leibniz di unità
elementari della Natura, dovevano essere considerate come delle
vere e proprie entità-unità fisiche, e non metafisiche o
“spirituali”; analogamente, oggi sappiamo ormai da più di un
secolo (esattamente dal 1900, anno in cui Max Planck introdusse
per primo l’ipotesi dell’energia quantizzata), che il costituente
fondamentale delle radiazioni elettromagnetiche è il quanto;
ovvero un’entità fisica non ulteriormente divisibile. Nel 1905,
Albert Einstein, a seguito dei suoi studi sull’effetto
fotoelettrico15
, introdusse radicalmente l'idea che non solo gli
atomi emettono e assorbono energia in "pacchetti finiti" (i quanti
proposti da Max Planck, per l’appunto), ma che è la stessa
radiazione elettromagnetica ad essere costituita da quanti, ossia
da quantità discrete di energia, poi denominati fotoni nel 1926.
In altri termini, poiché la radiazione elettromagnetica è
quantizzata, l’energia non è distribuita in modo uniforme
sull’intera ampiezza dell’onda elettromagnetica, ma concentrata
in vibrazioni fondamentali. Per Kant,
- La realtà è un campo di forze che determinano lo spazio;
15
Gli studi sull'effetto fotoelettrico effettuati all'inizio del Novecento da
diversi grandi scienziati, tra cui principalmente Albert Einstein, mostrarono
che la separazione degli elettroni dal proprio atomo dipende esclusivamente
dalla frequenza della radiazione dalla quale sono colpiti, e pertanto l'ipotesi di
un'energia quantizzata divenne necessaria per descrivere gli scambi energetici
tra luce e materia.
- Senza un campo continuo e dinamico, l’esperienza
spaziale sarebbe impossibile;
- La realtà è una dinamica tra il legame dell’energia e il
continuum, energia-momento e spazio-tempo.
Analogamente, oggi sappiamo ormai da un secolo (ovvero dal
1916, anno in cui Einstein rese pubblica la sua teoria della
Relatività Generale), che esiste una legge fisica che lega
distribuzione e flusso nello spazio-tempo, di massa, energia e
impulso, con la curvatura dello spazio-tempo medesimo; questa
legge, espressa principalmente attraverso le equazioni di campo
di Einstein, rappresenta ancora oggi uno dei maggiori capisaldi
nella comprensione e descrizione dell’interazione
gravitazionale. Famosa è la seguente affermazione di John A.
Wheeler (uno dei pionieri della fissione nucleare, insieme a
Bohr e Fermi), dopo aver appreso la profondità dell’equazione
di campo, del collega di Princeton: “La materia dice allo
spazio-tempo come incurvarsi, e lo spazio curvo dice alla
materia come muoversi”.
Come giustamente osserva Arthur I. Miller nel suo libro,
“L’equazione dell’anima”16
, agli inizi del XX secolo: “Con
l’avvento della psicoanalisi gli scienziati cominciarono ad
esaminare il modo in cui erano arrivati alle loro scoperte.
Einstein scrisse: ‘Non c’è un percorso logico che conduce a
queste leggi; solo l’intuizione, basata su una comprensione
empatica dell’esperienza, può portare a raggiungerle’. In tal
modo, proseguiva, gli scienziati possono scorgere l’armonia
‘prestabilita’ dell’universo. Gli empiristi logici, tuttavia,
consideravano simili affermazioni uno sproloquio senza senso
prodotto a posteriori dagli scienziati. Secondo loro gli scienziati
costruivano teorie procedendo logicamente (matematicamente)
dai dati sperimentali a una teoria. Sfornavano un’equazione
dopo l’altra finché non avevano risolto il problema specifico di
16
A.I. MILLER, L’equazione dell’anima, RCS Libri, Milano, 2009, pp. 134-
135.
cui si stavano occupando. Einstein invece considerava questa
visione della ricerca scientifica, sbagliata. Gli scienziati erano
unanimi nel ritenere che i loro metodi di ricerca non avessero
alcuna somiglianza con le proposte avanzate da positivisti ed
empiristi logici. La chiave, per scienziati creativi come Einstein,
era il delicato equilibrio che dovevano mantenere tra le
informazioni ottenute dai dati sperimentali e le leggi della
teoria, espresse in forma matematica”.
Il lungo cammino del pensiero umano “strisciante” (come lo
avrebbero definito Pauwels e Bergier, se oggi fossero ancora in
vita)17
, dagli anni Venti del XX secolo sino ad oggi, nel campo
della fisica, ci ha fatto scoprire le meraviglie della meccanica
quantistica (QM), dell’elettrodinamica quantistica (QED), della
cromodinamica quantistica (QCD), della gravità quantistica a
loop (LQG), della teoria quantistica dei campi (QFT)…
arrivando infine, alla moderna teoria delle stringhe (una teoria
ancora in fase di sviluppo che tenta di conciliare la meccanica
quantistica con la Relatività Generale, e che si spera pertanto
possa costituire una Teoria del Tutto). Ma per arrivare a tutto
ciò, abbiamo dovuto superare due guerre mondiali, assistere allo
sbarco dei primi uomini sulla Luna18
(e pochi anni dopo a quello
dei primi lander su Marte)19
, alla caduta del Muro di Berlino,
alla nascita dell’Unione Europea, per arrivare infine ad
osservare Plutone da circa dodicimila chilometri di distanza20
, in
17
L. PAUWELS; J. BERGIER, Il mattino dei maghi, A. Mondadori, Milano,
1963.
18
Apollo 11 fu la missione spaziale che per prima portò gli uomini sulla
Luna, gli statunitensi Neil Armstrong e Buzz Aldrin, il 20 luglio del 1969.
19
Nel 1976, due sonde della NASA denominate Viking 1 e Viking 2,
entrarono nell'orbita di Marte e entrambe inviarono un lander che effettuò
con successo un atterraggio morbido sulla superficie del pianeta. Queste due
missioni inviarono le prime immagini a colori e dettagliati dati scientifici sul
“pianeta rosso”.
20
La sonda spaziale New Horizons (lanciata dalla NASA nel 2006), dopo
oltre nove anni di viaggio, è divenuta la prima sonda spaziale ad effettuare un
sorvolo ravvicinato di Plutone; avvenuto il 14 luglio del 2015 ad una distanza
minima di 12.472 km dalla superficie del pianeta nano.
poco più di un secolo di storia. Già, il pensiero umano "striscia"
(per dirla con Pauwels e Bergier) , avanza lentamente verso
orizzonti scientifici sempre più lontani, ma attraverso dei risvolti
tecnologici sempre più rapidi e vicini; un gap per ora ancora
sostenibile, ma fino a quando?
L’evoluzione delle idee
Le più moderne teorie nel campo della biologia evoluzionistica,
in rapporto all’evoluzione dei sistemi sociali, sostengono che la
ricerca del nuovo poggi sul piacere suscitato dalle emozioni
“positive” (interesse, sorpresa e gioia)21
. Dunque, se si
escludono le emozioni “positive” dalle attività degli esseri
umani, si esclude di conseguenza il desiderio della ricerca del
nuovo. In ultima istanza, si rallenta l'evoluzione e si uccide il
progresso. Qualsiasi tipo di intelligenza si consideri (sia essa
umana o artificiale, purché di un certo livello), in assenza di
emozioni “positive”, difficilmente potrà evolvere di sua
21
Le ricerche pionieristiche della neuroscienziata e farmacologa statunitense
Candice B.Pert (1946 – 2013), sui neurotrasmettitori e le endorfine, hanno
fatto ipotizzare che i neuropeptidi, a causa della singolare distribuzione dei
loro recettori nelle aree del cervello che regolano l’umore, e del loro ruolo nel
mediare la comunicazione in tutto l’organismo, rappresentino la base
fisiologica delle emozioni (ossia ne siano i mediatori biochimici). Queste
scoperte hanno portato la Pert a chiedersi, “dove inizi e termini realmente il
cervello umano”. Secondo il neuroscienziato e psicologo portoghese Antonio
Damasio, la coscienza inizia come un sentimento, un tipo particolare di
sentimento, ma comunque qualcosa di assimilabile a questo, anche se non
completamente sovrapponibile alle altre modalità sensoriali rivolte al mondo
esterno. In ogni caso, coscienza ed emozione non sono separabili, poiché la
prima è indissolubilmente legata al sentimento del corpo.
Da un punto di vista evolutivo, le emozioni sono risposte fisiologiche che
mirano ad ottimizzare le azioni intraprese dall'organismo nel mondo che lo
circonda. A sostegno di queste tesi, il neurofisiologo portoghese riporta
alcune prove neurologiche che mostrano come certi meccanismi cerebrali
siano comuni sia alle emozioni che alla coscienza, giungendo alla
conclusione che la coscienza rappresenti fondamentalmente un aspetto
ausiliario della nostra dotazione biologica di adattamento all'ambiente.
“spontanea volontà”; dovrà sempre esserci qualcuno o qualcosa
che la “spinga ad evolvere”, sia pure la semplice necessità. Ma
se la necessità, come si suol dire, aguzza l'ingegno, le emozioni
“positive” tuttavia, ne facilitano il cammino.
Qualcuno a questo punto potrebbe pensare che: la necessità
spinge alle invenzioni di primaria importanza, mentre le
emozioni a quelle “voluttuarie”. Ho paura però che senza le
"invenzioni voluttuarie", non ci sarebbe progresso (di certo non
saremmo passati dalla torcia primitiva alla lampada ad olio, ed
infine alla luce elettrica, senza le "invenzioni voluttuarie"). La
domanda che dunque occorre porsi è: si può parlare di vera e
propria evoluzione, in assenza di progresso? Se poi pensiamo
(nel senso che accettiamo l’ipotesi) che l'invenzione della
lampada ad olio, sia nata dalla necessità di illuminare un piccolo
luogo per molte ore senza il costante controllo di una o più
persone e con il minor spreco di materia prima; e l'invenzione
della luce elettrica dalla necessità di illuminare milioni di case,
con la massima velocità e anche in questo caso con il minor
spreco di materia prima, ci accorgiamo subito che il confine tra
"invenzioni primarie" e "invenzioni voluttuarie", è quasi sempre
piuttosto indefinito e dunque assai difficile da stabilire. Senza
parlare poi di quelle invenzioni "tipicamente voluttuarie", che
diventano di primaria importanza solo dopo decenni (o
addirittura secoli!), a dipendenza dei cambiamenti ambientali e
sociali a cui siamo soggetti (si pensi ad esempio al catalizzatore
per veicoli con motore a combustione interna; se qualcuno lo
avesse ideato e proposto a qualche casa automobilistica agli inizi
del XX secolo, gli avrebbero riso in faccia!). Tante persone oggi
ridono del progetto ITER, per il controllo e l'impiego a fini
energetici della fusione nucleare (calda); ebbene tra non più di
mezzo secolo, se tali persone saranno ancora in vita, forse non
rideranno più e cominceranno a preoccuparsi (più per i propri
figli che per loro stessi), qualora il progetto dovesse arenarsi o
comunque non portare a risultati concreti, nei prossimi
decenni22
.
Il filosofo tedesco Arthur Oncken Lovejoy (1873 – 1962), noto
esponente della filosofia americana (a cui si fa abitualmente
risalire la genesi dello studio accademico della storia delle idee),
era convinto che fosse possibile individuare i costituenti di base
delle “idee” (“Unità-Idea”, o “concetti individuali”), i cui
continui riarrangiamenti , permutazioni e riorganizzazioni
strutturali potevano quindi generare evolutivamente tutti i
“sistemi di idee” (dove le varie forme e combinazioni possibili
caratterizzano le varie fasi e momenti storico-culturali). Per
Lovejoy, la “storia delle idee” era da intendersi come:
“…qualcosa che è nello stesso tempo più specifico e meno
limitato di quanto non sia la storia della filosofia”23
. Tuttavia,
Lovejoy non definisce cosa si debba intendere per idea: egli
parla di “primarie unità dinamiche, persistenti o ricorrenti”
nella storia della filosofia ma anche di “abiti mentali e
presupposti impliciti” rintracciabili nel pensiero di singoli autori
o in correnti culturali. Pochi anni prima della sua morte, nel
1960, con un goffo tentativo dagli scarsi risultati, Lovejoy cercò
di ampliare il campo del significato di “idee”, indicando come
tali: “tipi di categorie, pensieri che riguardano aspetti
particolari di esperienza comune, presupposti espliciti od
22
A proposito di “importanza delle invenzioni” (soprattutto di quelle
apparentemente irrilevanti), risale a soli pochi giorni fa (19 agosto 2015), la
notizia che alcuni ricercatori della George Washington University (negli
USA), hanno sviluppato una formula e una tecnologia economica che
consente di trasformare l'anidride carbonica (CO2), uno dei maggiori gas
serra prodotti dall'uomo, in nanofibre di carbonio. Queste nanofibre possono
essere usate per produrre composti del carbonio, come quelli impiegati negli
aerei, turbine eoliche o equipaggiamenti sportivi. Ma la cosa più interessante
è un’altra, e a rivelarla è uno degli stessi ricercatori: ''Abbiamo calcolato che
con un'area inferiore al 10% del deserto del Sahara, il nostro processo
potrebbe rimuovere abbastanza CO2 da farne calare i livelli nell'atmosfera a
quelli precedenti la rivoluzione industriale nel giro di 10 anni''. La frase
sarebbe forse da concludersi con un bel punto esclamativo.
23
A.O. LOVEJOY, The Great Chain of Being, p. 11.
impliciti, formule sacre e modi di dire, teoremi filosofici
specifici, ipotesi più vaste, generalizzazioni e impostazioni
metodologiche di varie scienze”24
.
Nel 1976, il biologo ed etologo britannico Richard Dawkins, nel
suo (ormai famosissimo) libro “Il gene egoista”, introdusse il
termine “meme” per descrivere un’unità base dell'evoluzione
culturale umana analoga al gene (ovvero all’unità base
dell'evoluzione biologica), in base all'idea che il meccanismo di
replica, mutazione e selezione si verifichi anche in ambito
culturale. Così come in biologia, la presenza di questi elementi
porta all'emergere spontaneo di effetti evolutivi; anche se per i
memi questi si manifestano in senso diverso rispetto a quello
biologico. Nel libro, Dawkins descrive il meme come un’unità
di informazione residente nel cervello. Si tratta di uno schema
che può influenzare l'ambiente in cui si trova (attraverso l'azione
degli uomini che lo portano) e si può propagare (attraverso la
trasmissione culturale). Tuttavia, Dawkins non ha mai dato una
spiegazione sufficientemente esaustiva di come la replica di
un’unità di informazione nel cervello, controlli il
comportamento umano e alla fine, la cultura. A causa di ciò, il
termine "unità di informazione" è stato definito in molti modi
diversi da scienziati diversi. A quasi quarant'anni di distanza il
dibattito è ancora in corso sul valore della memetica come
disciplina scientifica25
.
24
A.O. LOVEJOY, Essays in the History of Ideas, New York, Capricorn
Books; trad. it.: L’albero della conoscenza, Bologna, Il Mulino, 1982, p.36.
25
Secondo Dawkins, le culture possono evolversi in maniera analoga a come
si evolvono le popolazioni e gli organismi viventi. Molte delle idee che
passano da una generazione alla successiva, possono aumentare o diminuire
le possibilità di sopravvivenza della generazione che le riceve e che a sua
volta potrà ritrasmetterle. Ad esempio, più culture possono sviluppare un
proprio progetto ed un proprio metodo per realizzare un utensile, ma quella
che avrà sviluppato i metodi più efficaci avrà più probabilità di prosperare e
svilupparsi rispetto alle altre; col passare del tempo una sempre maggiore
parte della popolazione adotterà quindi tali metodi. Il progetto dell'utensile
agisce quindi in modo simile a come agisce un gene biologico appartenente a
Nel suo libro “Il gene egoista” (1976), Dawkins afferma che,
accanto alla molecola del DNA, che è l’entità replicante che ha
prevalso sulla Terra, esistono altre unità replicanti, che
concorrono all’evoluzione. Per usare le sue stesse parole: “Io
credo che un nuovo tipo di replicatore sia emerso di recente
proprio su questo pianeta. Ce l'abbiamo davanti, ancora nella
sua infanzia, ancora goffamente alla deriva nel suo brodo
primordiale ma già soggetto a mutamenti evolutivi a un ritmo
tale da lasciare il vecchio gene indietro senza fiato. Il nuovo
brodo è quello della cultura umana. Ora dobbiamo dare un
nome al nuovo replicatore, un nome che dia l'idea di un'unità di
trasmissione culturale o un'unità di imitazione. "Mimeme"
deriva da una radice greca che sarebbe adatta, ma io preferirei
un bisillabo dal suono affine a "gene": spero però che i miei
amici classicisti mi perdoneranno se abbrevio mimeme in meme.
Se li può consolare, lo si potrebbe considerare correlato a
"memoria" o alla parola francese même. Esempi di memi sono
melodie, idee, frasi, modi di modellare vasi o costruire archi.
Proprio come i geni si propagano nel pool genico saltando di
corpo in corpo tramite spermatozoi o cellule uovo, così i memi
si propagano nel pool memico saltando di cervello in cervello
tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare
imitazione”.
certe popolazioni e non ad altre, guidando con la propria presenza o assenza,
il futuro di ogni cultura. Una caratteristica fondamentale del meme è quella di
venire diffuso per imitazione. Quando l'imitazione fece la sua comparsa
nell'evoluzione umana, si rivelò essere un buon sistema per aumentare le
possibilità di ogni individuo di riprodursi geneticamente. Forse una selezione
sessuale dei migliori imitatori fornì successivamente una spinta
evoluzionistica verso i cervelli meglio capaci di imitare. In questo contesto,
imitare significa sostanzialmente importare informazione dall'ambiente nel
proprio cervello tramite gli organi di senso. L'ambiente può essere inanimato
(come ad esempio un libro) oppure un altro essere umano (caso molto più
frequente), da cui l'informazione viene presa e rieseguita. Le fonti inanimate
di informazione vengono chiamate, nella teoria dei memi: sistemi di
ritenzione.
Per Dawkins sono soprattutto le idee religiose a costituire un
grandioso esempio di complessi memici in grado di replicarsi,
diffondersi e costituire un apparato per la loro sopravvivenza. In
generale, secondo il biologo britannico, qualunque idea fertile
colonizza il cervello in cui si trova, “proprio come un virus può
parassitare il meccanismo genetico di una cellula ospite” e si
espande per imitazione da una mente all’altra. Proseguendo
nell’analogia genetica (e virologica), Dawkins si spinge a
ipotizzare che l’evoluzione dei memi non è semplicemente
analoga all’evoluzione biologica o genetica, ma è un fenomeno
che obbedisce alle leggi della selezione naturale del più adatto,
favorendo quei replicatori dotati di maggiore longevità,
fecondità e fedeltà di copiatura e capaci di attuare le migliori
strategie di diffusione.
Su questa strada procede lo studioso dell’evoluzione Daniel
Dennett che, nel volume “Consciousness explained” (1991),
inserisce l’evoluzione memetica, accanto a quella genetica e alla
cosiddetta plasticità fenotipica, fra le componenti che
concorrono a spiegare la coscienza umana. Nel capitolo “Il terzo
processo evoluzionistico: memi ed evoluzione culturale”, arriva
a definire la coscienza come “un enorme complesso di memi (o
meglio di effetti provocati dai memi nel cervello)”. Li definisce
come “distinte unità degne di essere memorizzate”, fra le quali
elenca, in una azzardata tassonomia: “ruota, indossare vestiti,
vendetta, triangolo retto, alfabeto, calendario, l’Odissea, calcolo,
scacchi, disegno prospettico, evoluzione per selezione naturale,
impressionismo, la tarantella, il decostruzionismo”.
Il 1996 è stato “l’anno d’oro” della memetica, con l’uscita dei
libri di Richard Brodie: “Virus della mente. La nuova scienza
del meme”, di Aaron Lynch: “Thought Contagion”, e un’accesa
discussione su “Memesis, il futuro dell’evoluzione”, al Festival
Ars Electronica di Linz (Memesis 1996). Nell’appuntamento
annuale con le frontiere creative dell’elettronica che si tiene
nella cittadina austriaca, la memetica venne vista, nel 1996,
come un paradigma fertile per comprendere la coevoluzione di
uomo e tecnologia, l’evoluzione dei linguaggi informatici e la
diffusione di idee, concetti, mode, nell’infosfera delle reti. In
quell’occasione i memi vennero definiti: “pixel cognitivi” del
vasto universo dei nuovi media.
Verso la fine degli anni Novanta, la memetica si innesta
agevolmente nella cultura del cyberspazio e dell’informatica,
per via dell’analogia mente/computer e di quella, più ambigua,
meme/virus. Difatti, il meme viene definito come una struttura
informativa dotata di proprio dinamismo e sottoposta a leggi
evolutive analoghe a quelle genetiche, ma il suo stato viene
anche avvicinato a quello del parassita o dell’organismo
simbiotico. E i campi di studio sui virus del computer e sulla
Vita Artificiale sono un buon banco di prova per la creazione di
modelli e formalizzazioni dei memi come unità autoreplicanti e
diffusive.
A differenza dell’evoluzione genetica, l’evoluzione memetica è
molto più veloce: i memi possono passare da genitori a figli
come i geni oppure possono diffondersi tra individui come un
virus utilizzando le nostre menti e altri supporti come mezzo per
replicarsi, inoltre un meme inadeguato viene eliminato senza
bisogno di aspettare la morte del suo portatore. Secondo
Francesco Ianneo, ciò spiegherebbe “il fatto che durante gli
ultimi diecimila anni gli uomini fondamentalmente non siano
mutati a livello genetico, mentre la loro cultura (l’insieme totale
dei memi”), abbia subito degli sviluppi radicali”.26
Per Ianneo, occorre che il meme sia semplice e comprensibile,
che sia plausibile, che sia trasmesso fedelmente e riprodotto da
medium duraturi e veloci, per potersi replicare efficacemente. È
altresì importante che sia ridondante: il meme deve essere come
un mantra che si ripete costantemente. Occorre inoltre che sia in
grado di integrare attraverso sincretismi altri memi con cui è in
competizione oppure sia capace di cooperare con altri al fine di
costituire un memeplesso possibilmente intollerante verso i
26
FRANCESCO IANNEO, Meme. Genetica e virologia di idee, credenze e
mode, Castelvecchi, Roma, 1999, p. 65.
memi differenti o meno adattativi.27
In un mondo in cui l'offerta
di informazione è enormemente aumentata questo è un fattore
cruciale per la sopravvivenza del meme stesso, che nel
frattempo "si è fatto furbo". I "buoni memi" (quelli che
sopravvivono e si diffondono) fanno spesso leva su alcuni istinti
basici fondamentali come: combattere, fuggire, nutrirsi,
accoppiarsi.28
In altre parole, utilizzano gli "hot buttons" o
"pulsanti biologici" presenti nel nostro “hardware biologico” per
istallarsi nella nostra mente: "I memi che risultano affascinanti
per gli istinti delle persone sono quelli che più facilmente si
replicano e si trasmettono attraverso la popolazione".29
Potremmo pensare quindi, che la maggior parte dei memi non
evolvano per essere di beneficio agli individui (solo una minima
parte, andrebbe in tale direzione!).30
Parallelamente a questa
tesi, potrebbe accostarsi inoltre il pensiero (a tratti inquietante)
di Alfred N.Whitehead, che nella sua opera intitolata
“Simbolismo”, afferma quanto segue: "(...) un sistema sociale
trae coesione dalla forza cieca delle azioni istintive e delle
emozioni istintive che costellano abitudini e pregiudizi. Perciò
non è vero che ciascun progresso nella scala della cultura tenda
inevitabilmente alla conservazione della società. (...) La
presenza di un nuovo elemento nella vita rende inadeguati i
vecchi istinti. Ma gli istinti inespressi non vengono analizzati e
27
Ibidem, pp. 83-84.
28
RICHARD BRODIE, Virus della mente, Ecomind, 2000, p. 96.
29
Ibidem, p.46.
30
Un meme ben radicato nella sinapsi dell’individuo ospite guiderà il suo
comportamento inducendo una fiducia cieca nella sua validità. Ciò comporta
quindi un ordine implicito di diffusione. Si riscontra inoltre come a volte un
meme possa essere di tipo simbiotico (capace di promuovere un
comportamento adattativo per sé e per l’individuo che lo ospita), mentre altre
volte funziona come un parassita e sopravvive a spese dell’organismo (come
i “memi settari”). A volte questi memi sono particolarmente aggressivi come
alcune fedi politiche o religiose. Le persone che ne sono preda ne sembrano
interamente controllate e perdono lo scopo della loro esistenza, in loro
mancanza (i suicidi collettivi ai quali partecipa anche il “santone”, sono il
chiaro esempio di come il meme detenga il potere e non chi lo "ha creato").
vengono ciecamente sentiti. Le forze disgregatrici, introdotte da
un livello superiore di esistenza, combattono allora nell'oscurità
contro un nemico invisibile. (...) Il primo passo verso la
saggezza sociologica è il riconoscimento del fatto che i più
grandi progressi nella civiltà sono processi che quasi
distruggono le società all'interno delle quali accadono: come
una freccia nelle mani di un bambino. L'arte della società libera
consiste in primo luogo nella manutenzione del codice simbolico
e in secondo luogo nel suo coraggio di revisione, per assicurarsi
che il codice serva a quegli scopi che soddisfano una ragione
illuminata".31
Se sono davvero i memi a controllare l’uomo, e
non viceversa, ciò significa che il nostro presunto “libero
arbitrio”, è davvero molto limitato e “fuorviante”. Si potrebbe
addirittura ipotizzare che (con un esempio assai banale), se
improvvisamente un giorno, migliaia di milionari e miliardari
iniziassero a distribuire tutte le loro ricchezze ai poveri (fino al
punto di diventare anch’essi poveri), milioni di persone
inizierebbero a credere che al mondo, tra gli esseri umani, stia
diffondendosi il virus della follia. A tal punto la paura di milioni
di persone, verrebbe alimentata dalla propaganda, di chi gestisce
l’informazione globale. A qualcuno verrebbe di sicuro in mente
di eliminare i benefattori, per salvare il mondo, per salvare
l'intera umanità …da un virus maligno e incontrollabile.
Un precursore della memetica è Gustav Le Bon, con la sua
“Psicologia delle folle” (1895). Scrive Le bon: “In una folla
ogni sentimento, ogni atto, sono contagiosi, a tal punto che
l’individuo sacrifica facilmente il suo interesse personale
all’interesse collettivo.(…) Quando un’affermazione è stata
ripetuta unanimemente per un numero sufficiente di volte, come
accade per certe imprese finanziarie che acquistano tutti i
consensi, si forma ciò che viene chiamata una corrente
d’opinione ed interviene il possente meccanismo del contagio.
31
A.N. WHITEHEAD, Simbolismo, Raffaello Cortina, Milano, 1998, pp. 60;
76.
Nelle folle, le idee, i sentimenti, le emozioni, le credenze
divengono contagiose non meno dei microbi”.
L’ambiente culturale costituito da memi che tendono a
propagarsi e a replicarsi diventa il nuovo habitat o nicchia
ecologica nella quale la specie umana coevolve: "Viviamo,
pertanto, all’interno di una Matrice, la matrice dei memi, quella
che Wittgenstein chiamava una «forma di vita» e che il filosofo
statunitense Hilary Putnam ha definito più icasticamente: una
vasca dove sono immersi i cervelli.”32
Secondo Steven Pinker: “La selezione naturale ha progettato la
mente perché fosse un elaboratore d’informazione, e ora la
mente percepisce, immagina, simula e pianifica. Quando le idee
circolano, non vengono meramente copiate con occasionali
errori tipografici, bensì vengono valutate, discusse, migliorate o
respinte. Anzi, una mente che accettasse passivamente memi
ambientali sarebbe facile oggetto di sfruttamento altrui, e dalla
selezione sarebbe stata velocemente scartata”.33
Gli schemi comportamentali e cognitivi che definiscono la realtà
consensuale, vengono appresi culturalmente. Il bambino impara
attraverso l’esperienza, tramite l’interazione con l’ambiente in
cui si situa interpretando la realtà secondo uno schema di
riferimento condiviso. Il senso del Sé è frutto dell’interazione
sociale e la mente emerge all’interno di un contesto tramite uno
strumento offerto dalla collettività: il linguaggio. Non esiste un
“Io archetipico” e originario preesistente alla realtà sociale,
poiché il Sé emerge dall’interazione con l’Altro, il non-Sé. Per
esempio: “Bruner sostiene che il concetto di Sé che ciascuno di
noi possiede non è un’essenza né un nucleo di coscienza isolato,
racchiuso nella mente individuale, ma il risultato continuamente
emergente della negoziazione incessante tra le nostre versioni
del Sé e le versioni del nostro Sé che gli altri ci forniscono.”34
32
FRANCESCO IANNEO, op. cit., p.134.
33
S. PINKER, Come funziona la mente, Mondadori, Milano, 2000, p. 225.
34
F. EMILIANI; B. ZANI, Elementi di psicologia sociale, Il Mulino,
Bologna, 1998, p.89.
Nel suo libro “Anelli nell’io”, Douglas Hofstadter, spiegando
quanto sia difficile dare un senso di “unicità”, nonché una forma
e dei confini ben definiti al nostro Sé , dice: "Se immergete
contemporaneamente la vostra mano sinistra in una bacinella di
acqua molto calda e la vostra mano destra in una bacinella di
acqua molto fredda, le lasciate lì per un minuto e poi le tuffate
in un lavandino pieno di acqua tiepida, vi accorgerete che
adesso le vostre mani (...) vi dicono cose diametralmente
opposte sulla stessa identica acqua del lavandino. In risposta a
questo paradosso, con ogni probabilità vi limiterete a scrollare
le spalle e a sorridere, pensando fra voi: ‘Com’è potente questa
illusione tattile!’. Non è invece molto probabile che pensiate:
‘Questa scissione cognitiva dentro il mio cervello è solo la
punta emergente di un iceberg, che rivela l’illusorietà della
convinzione corrente che dentro la mia testa ci sia soltanto un
singolo Sé“.35
Sulla scia di Dawkins, il biologo britannico Rupert Sheldrake,
verso la fine degli anni Ottanta (molto probabilmente
influenzato dalle idee di Dawkins e in special modo dalla sua
teoria dei memi; a cui egli diede il nome di memetica), pubblicò
un libro intitolato: “The Presence of the Past: morphic
resonance and the habits of nature”.36
In questo libro (del 1988,
e tradotto in italiano proprio nello stesso anno), Sheldrake
ampliò la sua discussa teoria della “risonanza morfica” (apparsa
per la prima volta in un libro pubblicato nel 1981 ed intitolato:
“A New Science of Life: the hypothesis of formative
causation”)37
, introducendo il concetto di “campo ricordo”. In
tale teoria, l'idea che ogni specie ed ogni membro di ogni specie,
attinga alla memoria collettiva della specie, si sintonizzi con i
membri passati della specie e a sua volta contribuisca
35
D. HOFSTADTER, Anelli nell’io, Mondadori, Milano, 2008, p.324.
36
Trad. it.: R.SHELDRAKE, La presenza del passato, Crisalide, Spigno
Saturnia, 1988.
37
Trad. it.: R. SHELDRAKE, L’ipotesi della causalità formativa, RED,
Como, 1998.
all'ulteriore sviluppo della specie, comporta una sorta di
"risonanza" fra gli individui e i gruppi della specie.
Sempre in questo libro, Sheldrake avanza l'ipotesi che i "campi
ricordi" non siano effettivamente memorizzati nel cervello, ma
piuttosto che possano essere memorizzati in un campo di
informazioni al quale si può accedere mediante il cervello. Se
questo fosse dimostrato, ciò avvalorerebbe la tesi che la
coscienza umana, i nostri ricordi personali e il nostro senso
dell'io possano sopravvivere alla morte biologica. Secondo la
teoria di Sheldrake, se un certo numero di persone sviluppa
alcune proprietà comportamentali o psicologiche od organiche,
queste vengono automaticamente acquisite dagli altri membri
della stessa specie. Così, se una buona parte dell'umanità
raggiunge un certo livello di consapevolezza spirituale, questa
stessa consapevolezza si estenderebbe per risonanza morfica ad
altri gruppi, coinvolgendo quindi l'intero sistema.
A questo punto, riflettendo per non più di qualche secondo su
quanto esposto finora, è fuori discussione che non occorra
un’intelligenza superiore alla media per vedere le sorprendenti
analogie tra la teoria dei memi di Richard Dawkins, e quella
sulla “risonanza morfica” e i “campi ricordo” di Rupert
Sheldrake. Eppure, nonostante ciò sia più che evidente a
qualsiasi persona dotata di media intelligenza, le idee di
Sheldrake continuano ad essere calorosamente osteggiate da
buona parte dell’intera comunità scientifica; mentre per quanto
riguarda la teoria di Dawkins sui memi, l’intera comunità
scientifica non vi oppone quasi alcuna resistenza (anzi, da più di
vent’anni ormai sembrerebbe accettarla come una vera e propria
teoria scientifica!)38
. Forse la risposta al perché di questa grande
disparità di trattamento, tra l’una e l’altra teoria, va cercata tra i
poteri alti della comunità scientifica, nonché tra i guru della
biologia e della fisica, che dagli anni ’60 fino ad oggi, hanno
38
Il termine meme è entrato persino nell'Oxford English Dictionary come
“elemento di una cultura che può ritenersi trasmesso da un individuo a un
altro con mezzi non genetici, soprattutto attraverso l’imitazione”.
lanciato le varie mode alle quali tutti gli “addetti ai lavori”
hanno sempre dovuto adattarsi39
. Lee Smolin aveva dunque
visto giusto affermando che: "Il compito di formare la comunità
della scienza non avrà mai termine. Sarà sempre necessario
respingere il predominio dell'ortodossia, delle mode, dell'età e
della posizione. Ci sarà sempre la tentazione di scegliere la via
facile, di farsi ingaggiare dalla squadra che sembra vincente
piuttosto che cercare di capire un problema ricominciando da
capo". 40
Se tutti gli scienziati e i ricercatori del mondo
facessero un bel tuffo in un mare di umiltà, coraggio e
indifferenza nei giudizi e pregiudizi altrui, si accorgerebbero
subito di quanto possa essere produttivo proporre nuove idee,
seppur sbagliate, affinché in molti possano col tempo
rielaborarle o trarne nuovi spunti di riflessione, onde infine tutti
insieme capire meglio ciò che ancora ci è poco chiaro. Occorre
una laurea in medicina, una in legge e una in filosofia, per poter
scrivere un inconcludente libro sull'eutanasia. Ma sono proprio
le teorie inconcludenti, a stimolare la mente umana verso nuovi
orizzonti, verso nuove 'verità' (sempre momentanee, mai
assolute)".
Secondo Joy Marino41
, professore associato in Sistemi Operativi
all’Università di Genova: “Evoluzione o rivoluzione è un
39
A volte un aneddoto rivela più di mille parole: Nel gennaio del 2013
Rupert Sheldrake ha tenuto una TED conference a Londra, esponendo le sue
perplessità in merito alle interpretazioni attuali della scienza. In particolare si
è soffermato sul fatto che apparentemente la velocità della luce sia variata nel
corso del tempo, così come la costante di gravitazione universale. Il comitato
TED ha sospeso la pubblicazione del video contestando delle inesattezze da
parte dello scienziato, mentre da altre parti tale decisione è stata considerata
come una mera censura.
40
L. SMOLIN, L’universo senza stringhe. Fortuna di una teoria e
turbamenti della scienza, Einaudi, Torino, 2007, p.305.
41
Giuseppe Amedeo Marino (meglio noto come Joy Marino), è un ingegnere
elettronico ed informatico italiano. Egli è noto per essere stato un pioniere in
Italia, dell’utilizzo di Internet all’esterno delle Università; il suo merito sta
nell’aver curato la parte tecnica di IUnet (la prima rete esterna agli atenei ed
alle strutture militari).
contrasto tra due concetti che vale universalmente, sia che si
tratti di ricerca, industria o società civile. Ogni grande
organizzazione, in modo naturale, tende ad evolvere
gradualmente migliorando sé stessa, facendo sempre meglio
quello che già sa fare, ma in questo modo si preclude la via a
strade più innovative. Le idee nuove sono bloccate sul nascere.
Anche la ricerca deve far in modo che i semi dell’innovazione,
che comunque vengono fuori perché ci sono i giovani, non
vengano soffocati. La rivoluzione si pone sempre al di fuori
dello schema”.
Nei grandi progetti degli anni '60 veniva data enfasi al ruolo del
laboratorio, considerato come metodo privilegiato di lavoro in
classe. Era data grande importanza anche alla scelta degli
argomenti, cercando di focalizzare l'attenzione sui temi
emblematici della disciplina vista come un insieme di nozioni.
La metodologia con cui trasmettere questi contenuti non era
argomento di discussione: l'insegnante veniva considerato
unicamente un espositore di contenuti. I risultati ottenuti dal
lavoro effettuato partendo da questo punto di vista furono
limitati rispetto alle aspettative. Cercando di identificare le cause
dell'insuccesso si notò che lo studente risultava passivo rispetto
alla logica della disciplina e, d'altra parte, anche l'insegnante
risultava passivo, rispetto alla logica del percorso didattico. Si
giunse quindi alla rottura della seguente ipotesi di lavoro: “Un
curriculum ben strutturato sul piano disciplinare, porta alla
costruzione di atteggiamenti e conoscenze di complessità
crescente, indipendentemente dal modo con cui lo studente
costruisce la propria conoscenza ''.
Si scoprì la necessità di riflettere sui processi di apprendimento
e sul concetto di insegnamento. Venne raggiunta la
consapevolezza del condizionamento delle idee e delle strategie
di ragionamento individuali sulla costruzione di nuove
conoscenze e della inconscia ma potente resistenza esercitata
dalla mente umana contro ogni cambiamento non sentito come
necessario. Furono considerati quindi nuovi assunti dai quali
partire per la costruzione di nuove metodologie didattiche:
- La conoscenza (individuale e di gruppo) è costruita
mediante un processo continuo di strutturazione e
ristrutturazione di idee, concetti, schemi e strategie di
ragionamento, modi di guardare, vedere, fare,
comunicare, ecc... a partire da quanto già si conosce.
- Nei confronti di molti aspetti della realtà l'allievo
possiede proprie idee e “modi di guardare'', non di rado
originali e comunque soggettivamente sensati, che
spesso non coincidono né con quelli della scienza
ufficiale, né con quelli che l'insegnante intende
trasmettergli.
Ecco dunque che l'educazione scientifica è vista come un
processo di continuo cambiamento concettuale, realizzabile
mediante un passaggio guidato da modi di guardare spontanei a
modi di guardare via via sempre più compatibili con la
descrizione e interpretazione disciplinare.
Per cambiamento concettuale non si dovrebbe intendere un
semplice cambiamento di idee (da quelle spontanee sbagliate, a
quelle scientificamente accreditate, corrette) ma un processo che
implichi la generazione di una diversa rete concettuale mediante
la quale l'allievo modifica i propri modi di guardare, descrivere e
interpretare i fenomeni naturali. Il “cambiamento concettuale'' è
dunque un passaggio da conoscenza di senso comune a
conoscenza scientifica accreditata. La conoscenza di senso
comune è una costruzione individuale che ci serve per dare
senso alla realtà che ci circonda e per intervenire su di essa;
mentre la conoscenza scientifica si identifica con un insieme
particolare di modi di guardare la realtà, di descriverla,
interpretarla, prevederla, dominarla, etc.
Gli studenti costruiscono scienza tentando di attribuire
significati alle parole che si usano e ai fatti del mondo che li
circonda in funzione della loro esperienza personale, delle loro
conoscenze e dell'uso che fanno del linguaggio, usando
somiglianze e differenze, ricercando variabili e relazioni fra
variabili e costruendo modelli per interpretare fatti noti e fare
previsioni. Nell'interazione studente-insegnante può succedere
che il punto di vista dello studente non venga sostanzialmente
modificato e che le sue rappresentazioni mentali restino
inalterate o solo parzialmente modificate. Conseguenza di ciò è
un rifiuto o una errata interpretazione delle nuove idee proposte
dall'insegnante. Notato questo si è cercato di formulare un
modello di cambiamento concettuale.
Per potere effettuare un cambiamento concettuale lo studente
deve riscontrare una insoddisfazione rispetto alle conoscenze
possedute in modo da desiderare di acquisire nuove idee per
superare lo stato di insoddisfazione. Le nuove idee però devono
essere intellegibili, plausibili e utili. Si è cercato quindi di
progettare strategie di insegnamento in grado di conciliare le
esigenze cognitive degli allievi con i vincoli imposti dalla
struttura della disciplina. La nuova ipotesi di lavoro può essere
sintetizzata così : ``Scopri quello che l'allievo conosce già e
organizza di conseguenza il tuo insegnamento''.
Questo non è di facile concretizzazione a livello di primo anno
di università, nei casi in cui ci si trova di fronte a classi di
centinaia di persone. Comunque il punto fondamentale del
nuovo tipo di approccio è il fatto che l'attenzione debba essere
rivolta verso lo studente facendo attenzione al modo in cui si
vogliono trasmettere i concetti e non solo ai contenuti.
Rousseau aveva ben chiara la funzione dell’educazione nella
formazione dell’uomo: “Tutto ciò che abbiamo alla nascita e di
cui abbiamo bisogno da grandi, ci è dato dall’educazione e
questa educazione ci viene dalla Natura, o dagli uomini o dalle
cose.(…) Quella della Natura non dipende da noi, quella delle
cose dipende da noi solo sotto certi aspetti, mentre quella degli
uomini è la sola di cui siamo padroni”. La pedagogia in
Rousseau si costruisce attorno ad alcuni punti fermi, oggigiorno
ancora attuali:
- Occorre osservare i bambini nella loro specificità, perché
l’infanzia non è semplicemente un’età preparatoria al
mondo degli adulti;
- Si deve rispettare l’infanzia nella sua gradualità: essa
attraversa stadi evolutivi successivi;
- La conoscenza della mente dell’uomo e delle sue
“disposizioni primitive” (il senso – l’utilità – la ragione)
è fondamentale per l’azione pedagogica;
- Lo scopo dell’educazione è di formare l’uomo e non di
limitarsi solo a sviluppare abilità (c’è in Rousseau una
“dialettica” tra educazione ed istruzione);
- L’educazione concorre a costituire una nuova società di
uomini liberi, che vivono secondo natura, in pace con se
stessi e gli altri (collegamento con il Contratto Sociale,
del 1762);
- La formazione del giovane non può avvenire senza la
contemporanea auto e co-formazione dell’adulto che è
coinvolto nel processo educativo;
- L’importanza del pensiero critico ed anticonformista:
l’educazione come base per esplorare nuove possibilità,
come processo aperto: “la sola abitudine che si deve
lasciar prendere al fanciullo è quella di non contrarne
nessuna; preparate da lontano il regno della sua
libertà”;
- L’educazione ha un orientamento esistenziale
(collegamento tra educazione e vita), non è solo una
tecnica di controllo: “il mestiere di vivere è quello che
voglio insegnargli”; “vivere è agire, è fare uso dei nostri
organi, dei nostri sensi, delle nostre facoltà, di tutte le
parti di noi stessi che ci danno il sentimento della nostra
esistenza”;
- Educazione non come processo intellettualistico, ma
come esperienza concreta: “quello che fra di noi che sa
meglio sopportare i beni ed i mali di questa vita è, a
parer mio, il meglio educato: ne consegue che la vera
educazione consiste meno di precetti che di esercizi”;
- L’affermazione della centralità del concetto di
autorevolezza, verso quello (pedagogicamente meno
idoneo) di autorità.
Per Rousseau la mente va lasciata crescere affinché l’educazione
non sia un ulteriore strumento di degenerazione (la vera maestra
del bambino è l’esperienza delle cose). Il tema centrale è
l’educazione indiretta: l’adulto deve creare le condizioni per la
relazione del bambino con le cose, predisporre contesti e
lasciare che il bambino sperimenti da solo, in autonomia
(l’esperienza del mondo è la vera maestra). Compito
dell’educatore è garantire che il bambino compia esperienze
adeguate alle capacità delle sue facoltà nel rispetto della sua
natura e della natura delle cose42
. La mente va sollecitata ad
auto-formarsi, acquisendo nozioni “da sé”, esplorando,
incontrando problemi reali e dubbi da risolvere, nell’incontro
con situazioni di vita pratica. L’individuo, diremmo oggi, è
oggetto di condizionamenti sistemici, non c’è una sola fonte
educativa.
Howard Gardner, docente di Scienze dell'Educazione
all'Università di Harvard e famoso per aver ideato la “teoria
delle intelligenze multiple”43
, in una lunga intervista di John
42
Da questo punto di vista vi sono molte connessioni con le future teorie
dell’Attivismo (specie per il concetto della “gradualità dell’esperienza”).
43
Grazie a una serie di ricerche empiriche e di letteratura su soggetti affetti
da lesioni di interesse neuropsicologico, Gardner ha identificato otto tipologie
differenziate di "intelligenza", ognuna deputata a differenti settori dell'attività
umana: intelligenza logico-matematica, intelligenza linguistica, intelligenza
spaziale, intelligenza musicale, intelligenza cinestetica o procedurale,
intelligenza interpersonale, intelligenza intrapersonale, intelligenza etica. In
seguito, nel corso degli anni '90, ha proposto l'aggiunta di altri due tipi di
intelligenza: quella naturalistica, relativa al riconoscimento e la
classificazione di oggetti naturali, e quella filosofico-esistenziale, che
Brockman, dice: “Capire per me significa partire da qualcosa
che si è imparato, una competenza, una conoscenza, un
concetto, e saperlo applicare adeguatamente in una situazione
nuova. Raramente chiediamo agli studenti di farlo. La scoperta
più interessante della scienza cognitiva nei confronti
dell'istruzione è stata quella di avere verificato che quando
chiediamo anche ai migliori studenti delle migliori scuole di
utilizzare le conoscenze in una situazione nuova, normalmente
non sanno farlo.(…) È improvvisamente diventato irrilevante
che la gente memorizzi molte cose. Perché questo lo possono
fare i computer e altri strumenti. Quando dico che bisogna
capire la disciplina per poter affrontare le domande
fondamentali, voglio dire che abbiamo bisogno di allenare i
modi di pensare.(…) Si può imparare l'evoluzione utilizzando la
lingua comune, oppure la logica, e ancora disegnando
diagrammi con l'albero a rami, o facendo classificazioni
tassonomiche delle varie specie, eccetera. Molti, compreso gli
esperti, fanno l'errore di pensare che una di queste lingue
costituisca per così dire la rappresentazione privilegiata di un
argomento. Al contrario io direi che la comprensione di un
argomento può considerarsi solida se sappiamo rappresentarlo
in diversi modi e se siamo in grado di passare velocemente da
una rappresentazione all'altra. (…) Con l'avvento delle nuove
tecnologie, l'istruzione centrata sull'individuo sarà solo una
questione di tempo. Fra cinquant’anni la gente riderà dell'idea
finora dominante, secondo cui a tutti deve essere insegnata la
stessa cosa nello stesso modo. Già adesso per qualsiasi
argomento degno di essere appreso ci sono dozzine di modi per
apprenderlo, accessibili a tutti attraverso la tecnologia”.
E dopo questa breve digressione sull’evoluzione della didattica e
gli albori della pedagogia, torniamo al nocciolo del tema
riguarderebbe la capacità di riflettere sulle questioni fondamentali
concernenti l'esistenza e più in generale nell'attitudine al ragionamento
astratto per categorie concettuali universali (portando così a dieci, il numero
dei vari tipi di intelligenza).
principale (ovvero all’evoluzione delle idee a livello globale),
inoltrandoci nella teoria dei sistemi sociali, intesa come base
concettuale da cui prende forma la cosiddetta “sociologia del
sapere”.
Gli sviluppi più recenti della teoria dei sistemi sociali hanno
mostrato che anche le idee sono soggette ai tre meccanismi che
stanno alla base del processo evolutivo; vale a dire: la varietà, la
selezione e la ristabilizzazione. In generale si tratta del fatto che
nella varietà potenzialmente illimitata delle idee che possono
essere prodotte dalla comunicazione per comunicare, la società
seleziona di volta in volta soltanto quelle che sono plausibili a
determinate condizioni ambientali. L’uso di tali idee si stabilizza
quando il loro senso è tanto evidente da poter essere dato per
scontato, visto che non si intravedono alternative.
Il suggerimento della teoria della società è di rivolgere la
propria attenzione a tre aspetti di questa evoluzione:
l’autoreferenza del senso, la sensibilità per le differenze e la
complessità44
. Nel primo caso si tratta del fatto che le idee
costruiscono un contesto semantico di riferimento a partire dal
quale è possibile comprendere il senso delle idee. Nel secondo
caso si tratta del fatto che le idee non evolvono mai
singolarmente e in modo autonomo, ma sempre in coppie di
contro-concetti o concetti antinomici45
. Nel terzo caso si tratta
del fatto che l’evoluzione seleziona di volta in volta soltanto i
concetti che sono in grado di corrispondere alla crescente
complessità delle strutture sociali.
L’evoluzione procede per coppie di concetti antinomici.
Quando cambia il contro-concetto, cambia anche l’orizzonte
di rimandi di senso della coppia intesa come unità di una
differenza. Si potrebbe dire che quando cambia la soluzione,
cambia anche il problema di riferimento. L’ipotesi della teoria
dei sistemi sociali è che sia soprattutto la complessità delle
strutture a condizionare la plausibilità dei concetti che la
44
Luhmann,1981; Luhmann,1997, pp.569-576.
45
Koselleck,1986, pag. 181 sgg.
società mette di volta in volta a propria disposizione per
comunicare. Concetti un tempo rilevanti perdono la loro
presa e impallidiscono fino a scomparire. La parodia (per
esempio quella della cultura cavalleresca nei poemi
rinascimentali) potrebbe essere considerata, da questo punto di
vista, come un espediente dell’evoluzione per mostrare la
perdita di plausibilità di una semantica senza che ci sia bisogno
di distruggerla. La parodia, anzi, rinfresca la memoria sociale
e allo stesso tempo segnala il bisogno di aggiornarla.
Un’altra possibilità evolutiva consiste nello spingere la
semantica a elaborare nuovi concetti per adeguarsi alla
complessità delle relazioni. Oppure l’evoluzione può servirsi di
concetti disponibili già da tempo ma dei quali la società non
aveva saputo bene che farsene. Nei termini della recente
teoria dell’evoluzione si potrebbe dire che dei vecchi concetti
vengono cooptati per delle nuove funzioni, senza che questo
fosse stato programmato in anticipo.
Poiché connettere tra loro molte verità vuol dire fondare un
sistema, chi è in grado di disporre in modo sistematico la
materia di una certa disciplina dà prova di essere uno
scienziato competente. Le verità possono essere raccolte o in
modo farraginoso, oppure secondo un nesso che permetta loro di
riferirsi in modo reciproco le une alle altre; nel primo caso si
tratta di distribuire le verità in classi determinate (come fa il
medico che separa gli organi con il bisturi e li distribuisce
secondo certi aspetti comuni); nel secondo caso si tratta
invece di creare un sistema e spiegare il sapere come un tutto
organico. Il primo metodo è senz’altro un utile sussidio alla
memorizzazione (memoriæ adminiculum); il secondo incoraggia
piuttosto il ragionamento.
Kant riprende questa metafora nell’ottica di una concezione
del sistema come un tutto costituito di parti e distingue
l’articulatio dalla coacervatio, precisando appunto che nel
tutto le parti devono essere disposte in modo reciprocamente
riferito e non semplicemente ammucchiate. La differenza è che
un mucchio aumenta per aggiunta di parti dall’esterno (per
appositionem), mentre un sistema, proprio come un corpo
animale, si accresce dall’interno (per intussusceptione): non si
cambia la proporzione delle membra, le si rende soltanto più
forti e adeguate al loro scopo. Su questo, com’è noto, Kant
fonda la possibilità di una “architettonica” come “arte dei
sistemi” (Kunst der Systeme). E poiché l’unità sistematica è
ciò che fa della conoscenza una vera e propria scienza,
l’architettonica non è altro che la dottrina di tutto ciò che è
scientifico e come tale fa parte della dottrina del metodo. Se ci
si chiedesse se tale dottrina sia a sua volta una scienza o un mero
aggregato di conoscenze, la risposta sarebbe inevitabilmente
che anche questa dottrina deve riunire sotto un’unità
sistematica le conoscenze acquisite.
La differenza gerarchica fra dottrina trascendentale degli
elementi e dottrina trascendentale del metodo serve solo, da
questo punto di vista, a introdurre un’asimmetria che evita
la circolarità autoreferenziale ed elude la paradossalità dei
rimandi. La dottrina di tutto ciò che è scientifico, in altri
termini, deve essere essa stessa scientifica, altrimenti non
troverebbe posto nella “Critica della ragion pura”. Il concetto
di sistema diventa autologico e chiarisce i presupposti
indispensabili per formulare una teoria di riflessione della
scienza moderna. In questa direzione si muove Kant quando
definisce un sistema come l’“unità della molteplicità delle
conoscenze in base a un’idea”. E qui “idea” non è altro che un
concetto razionale per indicare la “forma di un tutto” che
consente alle parti di acquisire una doppia autoreferenza: le
parti si riferiscono le une alle altre e allo stesso tempo si
riferiscono al tutto di cui fanno parte. Nel concetto di idea è
implicito un paradosso: se si tratta di una forma, allora deve
essere la forma di una differenza, poiché senza differenza non si
può riconoscere nulla come forma. Ma allo stesso tempo se
la forma è forma del tutto, essa deve essere priva di
differenza, poiché fuori dal tutto non c’è nient’altro. Idee di
questo tipo sono secondo Kant l’idea di mondo, l’idea di anima
e l’idea di essere supremo.
Nel costruttivismo esse vengono sostituite da tre concetti
altrettanto privi di differenza: l’idea di mondo, inteso come
unità della differenza fra sistema e ambiente, l’idea di realtà,
intesa come unità della differenza fra oggetto e conoscenza, e
l’idea di senso, intesa come unità della differenza fra attualità e
potenzialità. I concetti sono privi di differenza poiché anche la
negazione del mondo è un evento mondano, anche la negazione
della realtà è un’operazione reale e anche la negazione del senso
ha un senso. L’osservatore che lavora con queste idee si trova
così incluso nell’orizzonte della propria osservazione e deve
infine ammettere che non è possibile osservare qualcosa
dall’esterno: l’unità rientra nell’unità distinta e osserva se stessa
(e l’esterno) dall’interno.
Le idee di varietà e selezione emergono in sostituzione
delle idee tipicamente retoriche di imitazione e variazione per
indicare un nuovo modo di elaborare il sapere, che preferisce
alla ripetizione la ricerca di novità. Se l’evoluzione ha una
direzione, allora questa è probabilmente quella che conduce
all’illuminazione (Aufklärung) della circolarità
autoreferenziale delle sue operazioni. In questo consiste
anche il contributo forse più consistente che la teoria dei
sistemi sociali può dare alla sociologia del sapere.
Sulle orme del pensiero creativo
Come ben spiega il noto e stimatissimo filosofo italiano
Umberto Curi, in un articolo apparso qualche anno fa sul
Corriere della Sera46
, la genealogia del verbo italiano “creare” e
di altri termini simili nelle lingue moderne, come il francese
créer e lo spagnolo criar, è insieme istruttiva e sorprendente. La
derivazione più attendibile è infatti dal sanscrito kar-, che
ritroviamo nel greco kaino (“produco”), oltre che in krantor (il
“dominatore”) e kreion (“colui che fa”), sempre col significato
46
U. CURI, Creare significa “fare”. L’etimo antico del genio – Alle radici di
un attributo divino e umano, Corriere della Sera, 30 agosto 2013, pp. 40-41.
di “produrre”, “generare”, “fabbricare”. Ne troviamo traccia
anche in “crescere”, che sarebbe una forma incoativa di
“creare”, e starebbe appunto ad indicare il processo mediante il
quale qualcuno o qualcosa si va formando. La presenza della
radice sanscrita nel nome di due divinità, Kronos (il “creatore”),
padre di Zeus, e Ceres (“quella che produce”), divinità delle
messi, in modi diversi connessi con la coltivazione dei campi,
confermerebbe il fatto che la capacità di creare, la creatività,
rappresenta una forma specifica del fare, con particolare
accentuazione sulle potenzialità generative. La concezione
cristiana del Dio “creatore” chiarisce ulteriormente il quadro
concettuale: vi è ribadita la funzione “generativa” della
creazione, con l'aggiunta di un ex nihilo, che sottolinea
l'anteriorità cronologica e ontologica di Dio rispetto ai prodotti
della creazione. Il mondo greco antico conosce due modi ben
distinti e due termini diversi per alludere a ciò che chiamiamo
intelligenza: nous e metis. La prima è l'intelligenza inattiva e
contemplativa, quella che intus-legit, e cioè “legge dentro” le
cose, le conosce nella loro essenza concettuale, senza tuttavia
preludere ad alcun tipo di azione o di comportamento. È
l'intelligenza astratta, disimpegnata da ogni vincolo con il
“fare”. Ben diversa è, invece, la metis, l'intelligenza attiva ed
esecutrice, preposta all'azione, e dunque provvista di abilità e di
prudenza, di astuzia e pazienza. Il nous contempla; la metis,
come la creatività, genera. Già nell'Iliade, Odisseo è presentato
come polymetis (“molto astuto”), polymechanos (“molto abile”)
e polytlas («molto paziente»); un campione di quell'intelligenza
pragmatica capace di creare soluzioni anche in situazioni
all'apparenza senza sbocchi.
La guerra di Troia si concluderà per quello che potremmo
chiamare un esempio di vivace creatività, un vero “colpo di
genio” di Ulisse, al quale si potrebbe dunque riferire ciò che
Eraclito scrive di Pitagora, quando lo accusa di essere kopidon
archegos, “inventore primo di inganni”. Ma campione della
metis è anche Prometeo, che la metis porta già nel suo stesso
nome. Egli sarà anzi assunto come patrono degli artigiani,
perché accreditato in forma eminente della capacità di produrre.
Senza dimenticare che Zeus riuscirà a vincere la lotta per la
conquista dell'Olimpo solo quando avrà ingoiato colei che egli
aveva scelto come sua compagna: Metis; riuscendo con ciò ad
aggiungere a Kratos e Bia, ovvero al Potere e alla Violenza,
anche l'intelligenza pratico-creatrice. Quasi a dire che, per
governare, non basta l'esercizio della violenza e l'uso del potere,
poiché è non meno indispensabile anche la creatività. Così si
comprende anche per quale motivo la dimensione temporale che
più si addice alla creatività della metis non è il chronos, il tempo
della successione, la misura del divenire, l'accezione quantitativa
di tempo. Connesso alla metis è piuttosto il kairos, il tempo
opportuno, l'attimo che fugge, e cioè quella variante qualitativa
del tempo in cui si manifesta un evento extra-ordinario, che va
afferrato al volo, come insegna la raffigurazione classica del
kairos: un giovane calvo sulla nuca e provvisto di un vistoso
ciuffo sulla fronte, che dobbiamo afferrare quando ci viene
incontro, se non vogliamo perdere il “momento buono”. Ciò che
nella nozione originaria di metis appare ancora implicito e
indistinto, esplode alcune volte nella cultura moderna e
contemporanea in forma di contrapposizione insanabile.
Soprattutto nella concezione romantica, la creatività è un
requisito attinente all'affettività e ai sentimenti, ma non alla
ragione, il cui dispotismo geometrico è considerato in contrasto
con la libera espansività della creazione artistica.
Già dai primi decenni del Novecento, però, l'irrompere della
Gestaltpsychologie prima, e del cognitivismo poi, in campo
psicologico e l'affermazione impetuosa delle neuroscienze
conducono a un simmetrico rovesciamento dell'impostazione
romantica. Non l'arte, ma la scienza, non gli affetti ma la
razionalità, costituiscono il terreno di espressione della creatività
(si ricordi la citazione di Poincaré con cui si apre il presente
paragrafo). Si profila con ciò una sorta di dualismo fra due
accezioni diverse di creatività, a seconda che essa venga riferita
all'intuizione e alla sfera generale dei valori poetici (in una
visione in sostanza antirazionalista, che sopravvive nel pensiero
Ulixe. Il lungo cammino delle idee tra arte, scienza e filosofia.
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Ulixe. Il lungo cammino delle idee tra arte, scienza e filosofia.

  • 1.
  • 2. "La vita è l’unico gioco in cui lo scopo del gioco è di impararne le regole". Ashleigh Brilliant “Se un uomo non tiene il passo con i compagni, forse questo accade perché ode un diverso tamburo. Lasciatelo camminare secondo la musica che sente, quale che sia il suo ritmo o per quanto sia lontana". Henry David Thoreau
  • 3. Indice Prefazione Capitolo I La Guerra dei Mondi 1.1. Nulla c’è di nuovo, se non ciò che è dimenticato 1.2. L’evoluzione delle idee 1.3. Sulle orme del pensiero creativo 1.4. Creatività, genio e follia. Capitolo II Lo specchio delle meraviglie 2.1. Nel regno delle belle arti 2.2. Arte e scienza, una simbiosi inevitabile 2.3. L’importanza della musica 2.4. I poteri della danza Capitolo III Pensieri sparsi 3.1. Le vie del sentimento 3.2. Le vie della consapevolezza 3.3. Miscellanea Appendice Bibliografia Sitografia
  • 4. Prefazione Fin dalla notte dei tempi, l’evoluzione delle idee in ogni ambito dell’attività umana, non ha potuto fare a meno di abbandonarsi ad un sofisticato intreccio di analogie, riferimenti espliciti ed astratti, associazioni, commutazioni e parallelismi, tra i più svariati concetti e modelli della realtà, inerenti ad ogni settore della conoscenza umana. Tuttavia, solo in tempi assai recenti (storia contemporanea) si è riscoperto (poiché già noto in tempi antichi, quando ogni ambito della sfera umana si inseriva in uno stesso disegno, percepito da tutti con un profondo “senso del divino”; ovvero prima dell’era cartesiana) il sublime nesso tra tutte le cose (prodotte e non prodotte dall’uomo; di natura astratta ed empirica) presenti nel grande regno della realtà (sensibile e sovrasensibile), che ci consente di visualizzare meglio ogni sottile collegamento tra tutto ciò che siamo sempre stati abituati a scindere, a suddividere in compartimenti stagni, ai quali abbiamo dato il nome di Arte, Scienza e Filosofia. Scopo (ma forse sarebbe meglio dire tentativo, visto che ogni paradigma trova sempre il modo di sopravvivere anche agli attacchi più duri) di quest’opera, è dunque quello di esporre alcuni punti di partenza dai quali, seguendo percorsi diversi, si arrivi ad un unico obiettivo: intravedere (poiché vedere sarebbe chiedere troppo) l’immagine di una realtà unitaria, dove tutto il sapere e l’operato umano, rivelino (seppure in termini metafisici ed astratti) la loro sottile interdipendenza con la natura dei nostri stessi sensi (filtri irremovibili e dai benèfici risvolti di stampo darwiniano), istinti ed emozioni. Anche se non possiamo fare a meno di trovarci in accordo con l’imperativo kantiano di non poter mai in alcun modo conoscere
  • 5. la vera natura assoluta della realtà1 (in quanto siamo tutti osservatori, vincolati-limitati dai nostri stessi sensi, che osservano sistemi da cui non ci si può mai separare-isolare; ovvero siamo sempre compartecipi di una realtà che prende forma e si concretizza nel momento in cui la osserviamo e cerchiamo di comprenderla, una sorta di circuito-meccanismo autoreferenziale spiegato dalle leggi della meccanica quantistica poco più di un secolo dopo la morte del grande filosofo tedesco di Königsberg), possiamo tuttavia lasciarci abbagliare da quei brevi impulsi di luce (ovvero di informazione) che solo l’intuito può cogliere, e trasformare in “verità” ineffabili da custodire gelosamente dentro noi stessi (nel cuore e nella mente). Nel migliore dei casi che io possa ipotizzare, la “somma” di tali impulsi (ovvero di molte “piccole verità”), col tempo dovrebbe rivelare tutta la sua “forza espressiva”, modificando le nostre menti al fine di giungere ad un unico obiettivo: renderle libere. Fausto Intilla, Cadenazzo, 7 agosto 2015 1 Il riferimento è ovviamente all’interpretazione kantiana del concetto di noumeno. Noumeno (dal greco νοούμενoν) significa “ciò che è pensato” e si distingue da “fenomeno”, che invece significa: “ciò che appare”. Secondo Kant, noi costruiamo l'oggetto fenomenico, ma esiste una cosa in sé (noumeno), indipendente dal soggetto. Dunque il noumeno si colloca “al di là dell’esperienza”, in una realtà che rimarrà sempre sconosciuta alla percezione umana (poiché non raggiungibile-osservabile attraverso i nostri cinque sensi). La netta distinzione kantiana tra soggetto e oggetto, venne tuttavia superata dalla tesi di Karl Leonhard Reinhold (molto più vicina all’attuale paradigma scientifico sul concetto di realtà, dettato dai principi della meccanica quantistica), per il quale soggetto e oggetto, sono impensabili separatamente (poiché da intendersi come le due facce di una stessa medaglia).
  • 7. LA GUERRA DEI MONDI "Sopra questa era ricca di doni, in questo momento buio, Cade dal cielo come meteore una pioggia Di fatti... giacciono indiscussi, slegati. Una saggezza sufficiente per dissolverci dal nostro male Viene filata ogni giorno: ma non esiste alcun telaio Per tesserla in una stoffa..." Edna St. Vincent Millay Nulla c’è di nuovo, se non ciò che è dimenticato Desideri, emozioni, impulsi, eventi fortuiti, ricordi, nuova conoscenza e quant'altro; è tutto ciò di cui si nutre la nostra volontà. I tentacoli della nostra mente sono abbastanza lunghi da toccare sia il passato che il futuro. Se volessimo dare una forma al “libero arbitrio”, dovremmo pensare a un quadro di Pollock (dipinto con la tecnica dello sgocciolamento), di dimensioni spaventosamente grandi; talmente grandi, da compromettere l'accezione stessa di ciò che comunemente intendiamo per “libero arbitrio”. Senza la poetica, sia nell’arte come nella scienza, tutto diverrebbe molto più insipido e dunque assai difficile da gustare ed apprezzare. Tutte le diversità del nostro Universo dipendono dagli elettroni di valenza di ogni singolo atomo di cui è composto; in altri termini, l'estetica degli atomi definisce l'estetica dell'Universo. Ma l'estetica è spazialità, geometrie, simmetrie e anche informazione (sono le superfici, e non i volumi, a fare la differenza). Scavando sempre nello stesso luogo, da qualche parte alla fine si riemerge sempre: e quello è il punto in cui possiamo osservare il panorama a 360 gradi, è il punto in cui
  • 8. possiamo comprendere ogni cosa. Come osservò giustamente Willard van Orman Quine: "Si dice che il linguaggio serva a trasmettere idee: quando impariamo un linguaggio impariamo ad associarne le parole alle stesse idee a cui le associano gli altri parlanti. Ma come sappiamo che queste idee sono davvero le stesse?"2 . La logica per Quine non è solo una tecnica del ragionamento, ma, come ogni altra scienza, ha il compito di ricercare la verità, separando gli enunciati veri da quelli falsi. Essa ha un carattere più generale rispetto alle singole scienze; è la struttura comune ed è uno strumento comunicativo più soddisfacente e preciso del linguaggio naturale (che deve quindi essere controllato e riformato mediante la logica). Secondo Donald Gillies e Giulio Giorello: “Accettiamo due termini come sinonimi soltanto se la loro identità è ‘necessaria’ - ma la verità ‘necessaria’ non è altro che una versione della verità ‘analitica’, e si finisce così per ragionare in circolo. (…) Se nella conoscenza sapessimo separare la componente fattuale da quella puramente linguistica, potremmo rifondare la distinzione tra ‘analitico’ e ‘sintetico’ che ossessiona la filosofia almeno dai tempi di Leibniz e di Kant. (…) Quine si ostinava a ripetere che quando cambia l'enciclopedia con cui descriviamo il mondo non dobbiamo concludere che la verità cambi con essa, ma che ‘erroneamente abbiamo supposto vero qualcosa e che abbiamo imparato meglio’. La verità resta quella dell'indagine scientifica - e i metodi di quest'ultima vanno estesi alla filosofia. Quine parlava di ‘naturalizzare’ la stessa teoria della conoscenza, ricorrendo agli strumenti ‘cognitivi’ offerti da psicologia, logica e informatica”3 . Secondo il filosofo inglese Francis Bacon, considerato il fondatore del metodo induttivo, la potenza umana dipende dal grado di conoscenza della natura. Per dominare la natura è necessario conoscerne il funzionamento, interpretarne le ragioni. 2 W.V.O. QUINE, Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano, 2008. 3 D. GILLIES, G.GIORELLO, La filosofia della scienza nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari, 1995.
  • 9. L'uomo, ministro ed interprete della natura, deve collezionare una ricca serie di osservazioni per poterne ricavare il “succo della conoscenza”. L'idea di fondo dell'induttivismo è che la scienza parta da osservazioni, e da queste muova a generalizzazioni (leggi o teorie) e a predizioni. Secondo l'induttivismo è un errore gravissimo costruire teorie quando mancano i dati. Le anticipazioni della natura fanno invece parte integrante dell'esperienza scientifica, secondo Popper, e Russell nota che il principio dell'induzione sul quale si basa l'induttivismo4 , anche se spesso utilizzato nelle esperienze quotidiane, non può essere assolutamente dimostrato logicamente, e può fondare solo ragionamenti probabilistici (infatti, un gran numero di casi non costituisce la totalità dei casi). Secondo Popper, il principio dell'induttivismo non può essere fondato né logicamente né empiricamente sulla prassi scientifica effettiva (se ne otterrebbe un circolo vizioso). L'osservazione semplice non esiste: essa è sempre selettiva, e la sua interpretazione e descrizione è carica di teoria. Né può trovare legittimazione logica il principio dell'uniformità della natura, secondo il quale la natura agisce sempre secondo le stesse leggi. Il rifiuto del principio dell'induzione di Popper si oppone alla sostanziale accettazione di esso che in definitiva opera Russell. Secondo Russell dobbiamo credere nel principio di induzione in virtù di una sorta di cieco atto di fede, se vogliamo fare scienza. Popper invece è dell'idea che il principio di induzione non serva affatto, se si segue il suo metodo critico (ossia il metodo delle congetture e delle confutazioni)5 . Tuttavia, 4 Principio secondo il quale dati A e B che si presentano in un gran numero di casi sempre e solo assieme, e dato poi uno dei due, si può desumere che immancabilmente si presenterà anche l'altro. 5 Secondo Popper la scienza non nasce da osservazioni ma da congetture che, finché non vengono falsificate empiricamente dai controlli, sono provvisoriamente accettate. Questo significa che non possiamo essere mai assolutamente certi della verità di una teoria. Una teoria che supera un numero finito di controlli non deve essere ritenuta vera, ma solo non falsificata. Compito dello scienziato è quello di congetturare teorie da
  • 10. come giustamente puntualizza Andrea Mosca nella sua recensione al libro di D.Gillies e G.Giorello (La filosofia della scienza nel XX secolo), esiste una ragionevole forma di induttivismo coniugato con il metodo popperiano delle confutazioni, proposto da Peter Mitchell; tale metodo prende il nome di induzione congetturale. Secondo Pierre M. Duhem, “un fisico non può mai sottoporre al controllo dell'esperienza un'ipotesi isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi. Quando l'esperienza è in disaccordo con le sue previsioni, essa gli insegna che almeno una delle ipotesi costituenti l'insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma non gli indica quale dovrà essere cambiata". Ma questa tesi di Duhem, vale solo per una parte dell'intero “edificio scientifico” (segnatamente per la fisica); non valendo, ad esempio, per le questioni di fisiologia. Secondo W.V.O Quine, invece: "Tutte le nostre cosiddette conoscenze o convinzioni, dalle più fortuite conoscenze di geografia e di storia alle più profonde della fisica atomica o financo della matematica pura o della logica, tutto è un edificio fatto dall'uomo che tocca l'esperienza solo lungo i suoi margini.(…) Un disaccordo con l'esperienza alla periferia provoca un riordinamento all'interno del campo.(…) Ma l'intero campo è limitato dai suoi punti limite, cioè l'esperienza, in modo così vago che rimane sempre una notevole libertà di scelta per decidere quali siano le asserzioni di cui si debba dare una nuova valutazione alla luce di una certa particolare esperienza contraria. Una esperienza particolare non è mai vincolata a nessuna asserzione particolare all'interno del campo tranne che indirettamente per delle esigenze di equilibrio che interessano il campo nella sua globalità. (…) Tutte le asserzioni si potrebbero far valere qualsiasi cosa accada se facessimo delle rettifiche sufficientemente drastiche in qualche altra parte del sistema". È chiaro quindi che la tesi di Quine si estende all'intero sistema della conoscenza umana; sistema che può essere mantenuto, sottoporre poi alla prova dei controlli più rigorosi che possano essere escogitati.
  • 11. malgrado qualsiasi falsificazione empirica, mediante riaggiustamento interno. Nel campo della fisica delle particelle, il Modello Standard è un buon esempio a sostegno di tale tesi; esso infatti, col susseguirsi di esperimenti sempre più sofisticati ed innovativi nella fisica delle alte energie, per continuare ad essere ritenuto “valido” da una gran parte della comunità scientifica, deve essere continuamente e scrupolosamente ritoccato, sulla base dei nuovi dati sperimentali che pian piano si accumulano nei vari laboratori di ricerca in cui vengono utilizzati dei grandi acceleratori di particelle (di tali acceleratori, il più conosciuto al mondo è indubbiamente il Large Hadron Collider del CERN di Ginevra, dove il 4 luglio del 2012 è stato scoperto il Bosone di Higgs)6 . Secondo il filosofo (nonché economista e sociologo) austriaco Otto Neurath, la scienza può essere sempre soggetta a revisioni, senza che possano essere fissate delle asserzioni che godano di eterna indubitabilità; egli infatti sosteneva che: "Non c'è alcun modo per formulare delle proposizioni protocollari pure e definitivamente assunte per vere, come base di partenza della scienza. Non è possibile alcuna tabula rasa. Siamo come marinai che devono riparare la loro nave in mare aperto senza poterla smantellare in un bacino per ricostruirla con materiali migliori". Popper condivide questa idea ma sostiene anche che i protocolli possano essere corretti solo a partire da altri protocolli e non dall'esperienza percettiva. Una tesi questa, da cui però Donald Gillies si discosta, affermando che: “Molti esperimenti di psicologia dimostrano che le nostre percezioni sono in realtà interpretazioni immediate e persino inconsce. Noi interpretiamo continuamente le nostre esperienze sensoriali in base a teorie 6 Per avere un’idea della mole di dati con cui i fisici teorici e sperimentali del CERN debbono continuamente confrontarsi, basti pensare che nel corso dei primi tre mesi di lavoro del 2012, LHC è arrivato a realizzare circa 560.000 miliardi di collisioni protone-protone e per la fine del 2012 erano previste un milione e mezzo di miliardi di collisioni protone-protone.
  • 12. del senso comune. Alcune di queste teorie possono essere innate, ma altre sono sicuramente apprese con l'esperienza". Thomas Kuhn definisce scienza normale quella che lavora alla soluzione dei rompicapo, ossia di problemi ritenuti risolvibili e significativi all'interno di una data cornice teorica (il paradigma, appunto). Ogni paradigma contiene però le sue anomalie, ossia problemi che la struttura concettuale di quella data scienza normale non riesce a risolvere, e per questo lascia sullo sfondo. Quando tali anomalie diventano centrali, e nasce un nuovo paradigma che le comprende e le spiega, si ha la fase rivoluzionaria della scienza. Una rivoluzione scientifica è costituita dal passaggio di una significativa sezione della comunità scientifica all'adozione di un nuovo paradigma. Tra due paradigmi non è possibile però una scelta razionale secondo i canoni della metodologia popperiana: essi possono anche osservare gli stessi fenomeni, ma li interpretano in modo completamente dissimile. Per Kuhn, "la competizione tra paradigmi diversi non è una battaglia il cui esito possa essere deciso sulla base delle dimostrazioni". In una delle sue opere più importanti, “Pensiero e movimento”, Henri Bergson scriveva: "Vi sono due specie di chiarezza. Un'idea nuova può essere chiara perché ci presenta, semplicemente adattate in un nuovo ordine, delle idee elementari che possedevamo già. La nostra intelligenza, trovando nel nuovo solo del vecchio, si sente in uno stato di conoscenza; essa è a suo agio, 'comprende'. Tale è la chiarezza che desideriamo, che ricerchiamo e di cui siamo sempre grati a colui che ce la apporta. Ma ve ne è un'altra, che subiamo e che, del resto, si impone solo alla lunga: quella dell'idea radicalmente nuova e assolutamente semplice, che capta, più o meno, un'intuizione. Non possiamo ricostituirla con degli elementi preesistenti poiché non ha elementi, e d'altra parte, dal momento che comprendere senza sforzo consiste nel ricomporre il nuovo con il vecchio, il nostro primo impulso è di dirla incomprensibile. Ma accettiamola provvisoriamente, portiamoci con lei nei diversi dipartimenti della nostra conoscenza; la vedremo, oscura, dissipare le oscurità. Grazie a
  • 13. essa, problemi che giudichiamo insolubili tendono a risolversi, o piuttosto, a dissolversi, per scomparire definitivamente o per porsi altrimenti".7 Cercare un legame tra dieci teorie scientifiche, tutte inerenti a uno stesso argomento della natura, è ricerca scientifica. Dar credito ad una sola di tali teorie, elaborandola maggiormente ed escludendo a priori tutte le altre, o crearne delle nuove, che non abbiano radici nelle precedenti, è speculazione scientifica. La cosa più interessante è che a volte funziona, e dà luogo a dei cambiamenti radicali nella nostra visione e comprensione della realtà. Andrea Mosca, nella sua recensione all’opera già citata di Gillies e Giorello, afferma che: “La scienza matura, come del resto ammette anche Popper, non può esistere senza una certa dose di dogmatismo, o di tenacia, che ci permette di riconsiderare la formulazione di una teoria, anziché abbandonarla, dopo che questa ha subito lo scacco della falsificazione.(…) Kuhn e Feyerabend concordano nel ritenere impossibile il passaggio da un paradigma all'altro sulla base di una discussione critica di stile popperiano: esso avviene solo mediante "conversione". Un nuovo paradigma porta con sé concetti nuovi, che presentano uno slittamento di significato tale da rendere questo paradigma 'giovane', irriducibile a quello 'vecchio'. Un nuovo paradigma comporta anche un lavoro di traduzione dei concetti già noti in un nuovo linguaggio concettuale, dotato di nuove regole e di nuovi schemi esplicativi. Secondo Feyerabend, inoltre, un mutamento radicale di prospettiva è sempre più auspicabile di una serie di piccoli aggiustamenti, dal momento che rendono più probabile che ci si schiudano orizzonti di ricerca interessanti ed inediti”. Secondo Giorello: "La traduzione permette di indicare una possibilità di confronto là dove, a prima vista, sembra che ci sia spazio solo per lo scontro tra due programmi o schemi concettuali rivali". Infatti, come nota giustamente Putnam: "Non potremmo nemmeno dire che quelle concezioni differiscono o 7 H. BERGSON, Pensiero e movimento, Bompiani, Milano, 2000, p.28.
  • 14. come differiscono se non fossimo in grado di tradurle". Per dirla con Andrea Mosca: “Se ci deve essere dialogo e non solo scontro tra paradigmi incommensurabili, questo dialogo non può non svilupparsi su di un terreno comune di conoscenze condivise, in termini di dati, concetti, procedure, tecniche e strumentazioni di rilevamento e misurazione. Su questi elementi, se ci deve essere un dialogo, e non due monologhi, non ci può essere irriducibilità, né interpretazione che muti l' ‘ontologia di fondo’ dell'altro programma di ricerca”. Quando le particelle collidono tra loro, possono annichilirsi oppure creare nuove particelle e nei casi più fortunati, dare origine a nuove teorie fisiche. La stessa cosa vale per le opinioni: quando si scontrano possono rivelare la loro fallacia (annullandosi vicendevolmente) oppure completarsi-rafforzarsi, assumendo dei contorni molto più definiti; e come per le particelle, nei casi più fortunati possono dare origine a nuove idee, a nuove teorie. Il valore di un’opinione, è definibile in funzione degli elementi logici, empirici, storici e culturali da cui trae origine; tuttavia, per quanto molteplici opinioni di grande valore possano tentare di convergere tutte verso un’unica conclusione/soluzione, esisteranno sempre degli elementi culturali divergenti che ostacoleranno tale processo. È per questo che l’intera società umana sulla Terra, sarà sempre formata da vari popoli, che non si capiranno mai tra loro fino in fondo. Nella sua opera di maggiore importanza, ovvero nel libro “Il pensiero cinese”, Marcel Granet afferma che: “Invece di constatare successioni di fenomeni, i cinesi registrano alternanze di aspetti. Se due aspetti appaiono loro legati, non è alla maniera di una causa e di un effetto: essi sembrano loro accoppiati come lo sono il dritto e il rovescio, o, per utilizzare una metafora consacrata fin dai tempi dello Hi ts’eu, come l’eco e il suono, o anche come l’ombra e la luce. La convinzione che il Tutto e ciascuna delle totalità che lo compongono hanno una natura ciclica e si risolvono in alternanze, domina talmente il pensiero che l’idea di successione è sempre dominata da quella di interdipendenza. Non si avrà dunque alcuna difficoltà ad
  • 15. usare spiegazioni a posteriori. (…) Invece di considerare il corso delle cose come un seguito di fenomeni suscettibili di essere misurati, e quindi messi in rapporto, i cinesi non vedono nelle realtà sensibili altro che una massa di segnali concreti. (…) I cinesi, dunque, lungi dal cercare di isolare i fatti dalle condizioni di tempo e di spazio, li considerano solo come segni rivelanti le qualità proprie di un determinato Tempo o di un determinato Spazio. Non si curano di registrarli riconducendoli ad un sistema uniforme e immutabile di riferimenti. (…) Quando un’apparenza concreta sembra ‘chiamare’ un’altra apparenza, i cinesi pensano di essere in presenza di due segni coerenti che si evocano con un semplice effetto di ‘risonanza’: entrambi testimoniano uno stesso stato o piuttosto uno stesso aspetto dell’Universo. (…) Per informarsi sull’Universo, è sufficiente elencare segnali. Ma se una realtà particolare corrisponde ad ogni emblema, ogni emblema possiede un potere di evocazione che è indefinito. Esso suscita, con una specie di effetto diretto, una folla di realtà e di simboli sostituibili. Questa ‘virtù contagiosa’ degli emblemi differisce radicalmente da una partecipazione delle idee. Non si immaginano limiti alla adattabilità dei diversi simboli. Non si vede, di conseguenza, nessun vantaggio nel classificare le idee e le cose per generi e per specie. Non potendo perciò assumere un senso relativo, il principio di contraddizione si trova ad essere superfluo. Invece di classificare concetti, ci si sforza di ordinare le realtà, o piuttosto gli emblemi che sembrano più reali perché li si giudica più efficaci, e ci si sforza di ordinarli gerarchicamente, tenendo conto della loro efficacia”8 . Le funzioni cognitive e quelle comportamentali (affettive e relazionali) vengono assimilate, elaborate e memorizzate, attraverso l’educazione familiare e la cultura scolastica. A partire da questi stimoli appresi, il cervello crea la mente e organizza la “mentalità” dell’individuo. Per le persone nate in Occidente, l’emisfero sinistro del cervello svolge 8 M.GRANET, Il pensiero cinese, Adelphi, Milano, 1995, pp. 246-250.
  • 16. prevalentemente funzioni cognitive e comportamentali di tipo logico-matematico (pensiero razionale); mentre l’emisfero destro è predisposto per assolvere le funzioni creative (pensiero artistico). Tuttavia, in Oriente (in particolar modo in Cina e Giappone), le funzioni logico-matematiche (e in generale di acculturazione razionale), vengono svolte dall’emisfero destro; e dunque in tali popolazioni, esso diventa l’emisfero dominante. L’emisfero sinistro invece, contrariamente a quello degli occidentali, svolge in questo caso le funzioni più creative e irrazionali. Questa diversità tra la popolazione Orientale e quella Occidentale, non ha radici genetiche (come si supponeva inizialmente in ambito scientifico), bensì è frutto dell’utilizzo della lingua parlata e scritta. Infatti, sia i giapponesi che i cinesi, scrivono in ideogrammi “grafico-pittorici”, i quali vanno ad attivare inevitabilmente l’emisfero destro (rendendolo dunque, chiaramente, quello dominante).9 Marcello Ghilardi, ricercatore in Estetica e Filosofia all’Università di Padova, non ha alcun dubbio sul fatto che “Hegel vede riflessa la differenza tra Oriente ed Occidente nella scrittura. La scrittura cinese è scrittura ‘geroglifica’ (ideografica), legata alla materialità del segno. In essa significante e significato fanno tutt’uno. Manca di determinatezza oggettiva. La lingua alfabetica, quella occidentale, è più filosofica. Separa il corpo materiale della scrittura dal significato invisibile. Permette la costituzione di un’identità spirituale. La lingua alfabetica, per Hegel, è più formale, più intelligente, insomma …è “superiore”10 . I primi interpreti e confutatori del Trattato Teologico-Politico e dell’Etica di Spinoza, giunsero a sottolineare la profonda affinità tra il monismo teorizzato dal pensatore dell’Aja (condensato 9 A. MUSSO, Il linguaggio segreto del corpo, Jackson, 2000. 10 M.GHILARDI, Il vuoto, le forme, l’altro. Tra Oriente e Occidente, Morcelliana, Brescia, 2015.
  • 17. nella formula Deus sive Natura11 ), e la visione cinese dell’Universo. Lisa Vagnozzi, nel suo libro: “L’isola di Ajao”, spiega che “la convinzione che vi sia una profonda analogia tra dottrina spinoziana e pensiero cinese viene ripresa e accentuata da Bayle nel suo ‘Dictionnaire historique et critique’, determinando una sorta di rovesciamento cronologico, per cui si prende a sostenere lo spinozismo dei cinesi e, di conseguenza, il loro ateismo e materialismo. Nell’ottica bayliana, l’associazione tra pensiero orientale e sistema spinoziano è resa possibile dal considerare quest’ultimo come una sorta di paradigma del pensiero, che tende periodicamente a ripresentarsi nel corso della storia dell’umanità”12 . Nell’analisi di Alessandra Chiricosta, si evidenzia che nel testo “From Confucius to Kant. The question of information transfer”13 , Martin Schönfeld ricorda che, durante la sua formazione, Kant ha trovato principi ispiratori in alcuni pensatori tedeschi; tre dei quali si erano fortemente interessati al pensiero cinese, non senza conseguenze: Leibniz, Wolff e Bilfinger. Secondo l’interpretazione di Schönfeld, il primo testo di Kant esprime una concezione dello spazio e dell’ontologia, influenzata dal pensiero cinese; una concezione che sopravviverà, con leggere mutazioni, lungo tutto l’arco di tempo della produzione kantiana. La natura consiste di punti di forza, le cui attività sono finalizzate, causali e armoniose. Elementi ultimi sono le forze attive, che governano tutto ciò che accade, non solo il movimento dei corpi: le forze governano l’interazione tra corpo e mente. Lo spazio risulterebbe formato dalla rete di interazione di forze dinamiche che, a loro volta, necessitano dello spazio per irradiarsi e contrarsi: il legame tra forza e spazio avrebbe dunque una natura ontologica. La 11 La dottrina di Spinoza viene interpretata come una sorta di teoria dell’anima del mondo o del “grand tout”, ed è su tale base che viene successivamente associata al pensiero cinese. 12 L. VAGNOZZI, L’isola di Ajao, opera inedita, pp. 182-183. 13 M.SCHOENFELD, From Confucius to Kant. The question of information transfer”, in “Journal of Chinese Philosophy”, 2006.
  • 18. realtà è una dinamica tra il legame dell’energia e il continuum, energia-momento e spazio-tempo. Schönfeld continua ribadendo che, nonostante il “fallimento” di molte delle concezioni espresse in questo testo giovanile, certe altre diverranno strutturanti del pensiero kantiano, in particolare la sollecitazione di Bilfinger: la natura è energia; l’energia è un’interattività dinamica; l’interattività dinamica è armonia di opposti. Secondo Schönfeld, la concezione dello spazio come campo di forze sarebbe ribadita anche nella Critica della Ragion Pura, in cui la possibilità stessa della percezione sarebbe data da una relazione attiva tra l’oggetto che si dà all’esperienza e il soggetto che la esperisce. Nell’opera del 1747, ispirata da Bilfinger, Kant sostiene che l’universo sia “intessuto” da una dinamica di forze che, in quanto tali, sono dotate di un aspetto binario. Nelle “Meditazioni sul fuoco” (del 1755), egli utilizza nuovamente la dinamica di attrazione e repulsione come base per una prima teoria dell’etere; ma è nel 1756, nella “Monadologia Fisica”, che Kant fornisce la prima teoria sistematica su base dinamica. In quest’opera sostiene che i principi metafisici della filosofia naturale richiedono un'interpretazione delle monadi come unità fisiche, e non meramente spirituali, come sostenuto da Leibniz. Le unità elementari irradierebbero “sphaera activatis” attraverso un gioco di autolimitazioni reciproche delle loro forze attrattive e repulsive: ciò determinerebbe l’estensione corporea. Fino alla “Fondazione Metafisica della Scienza Naturale” (1786), Kant non fornirà nessun’altra teoria sistematica in merito; tuttavia J. Edwards e M. Schönfeld sostengono che anche durante la “decade silente” Kant abbia mantenuto e approfondito la teoria espressa nella “Monadologia Fisica”. Nelle “Riflessioni sulla Fisica” viene, difatti, ribadito il concetto che la materia, per come possiamo conoscerla, è la risultante dell'interazione tra forza attrattiva e repulsiva: quest’ultima riempie lo spazio, determinando l’estensione materiale e l'impenetrabilità, laddove la prima limita gli effetti repulsivi dell'espansione,
  • 19. rendendo possibili volumi specifici dei corpi. Nel 1770, quindi, Kant sosterrebbe che lo spazio fisico sia “riempito” da un medium dotato di proprietà quali elasticità, espansività e omnipervasività: l’etere, appunto, concepito come entità onnipresente, la cui azione genera i corpi e la loro organizzazione. Il modello dell’etere, come sistema di interazioni dinamiche, fonda il realismo monistico discusso da Kant in “Riflessioni sulla Fisica”: la realtà è un campo di forze che determinano lo spazio, ma la loro realtà fisica è possibile solo in presenza dell'etere, che è strutturato dai limiti che l’attrazione impone alla repulsione. Secondo J. Edwards e M. Schönfeld, la deduzione dell’etere mostra la preoccupazione di Kant di dimostrare l’esistenza a priori di un continuum dinamico nello spazio fisico percepibile, ovvero di trovare una prova concettuale della realtà di un campo di forze che agisca nel cosmo e che renda possibile, come condizione a priori, l’esperienza di oggetti esterni. Tale condizione è definita in termini di forza attrattiva e repulsiva, di campo interattivo ed energetico chiamato “etere” (Äther), “calorico” (Wärmestoff) o “lumen” (lichtstoff). L’azione ondulatoria dell’etere è, secondo Kant, uniforme, continua e auto-ordinantesi, fornendo condizioni sotto le quali l’esperienza di oggetti spaziali possa manifestarsi, e coinvolge una cosiddetta “unità collettiva superiore”, come distinta da un’unità distributiva esperienziale. L’etere è, dunque, “l’oggetto” (das Eine Object) della nostra esperienza unificata. Poiché, però, la sua esistenza non può essere esperita alla stessa maniera degli oggetti, la deduzione dell'etere non è una prova empirica, ma un argomento a priori. Senza un campo continuo e dinamico, l’esperienza spaziale sarebbe impossibile. Essendo il campo un continuum materiale di forze, e non una categoria formale del pensiero o una forma soggettiva dell'intuizione, e comprendendo tutti i possibili contenuti della nostra percezione esterna, può essere definito come una “condizione trascendentale materiale”. Tale definizione contrasta in maniera evidente con i limiti
  • 20. esposti nell’Analitica Trascendentale della “Critica della Ragion Pura” e, per tale ragione, a detta di J. Edwards e M. Schönfeld, è stata ignorata da molti studiosi, che hanno preferito mantenere una raffigurazione più tradizionale di Kant. In rapporto alle moderne teorie in fisica delle particelle, il pensiero kantiano (sui concetti di spazio, tempo e forze interagenti), agli occhi di qualsiasi fisico teorico dei nostri tempi, può solo apparire come uno dei primi veri pilastri portanti di tutta l’impalcatura teorica sviluppatasi in ambito scientifico all’inizio del Novecento; dove quella “sostanza” onnipresente e omnipervasiva con la quale interagivano e dalla quale dipendevano tutte le forze dell’Universo, chiamata etere, gradualmente venne sostituita con il concetto di campo quantistico (partendo dal quanto di energia di Planck, per poi arrivare, qualche lustro più avanti, alle equazioni di campo di Einstein). Come per Kant, non era concepibile l’esistenza di uno spazio “vuoto di etere”, analogamente, oggi per nessun fisico teorico, è concepibile l’esistenza di uno spazio “vuoto di campo” (persino il cosiddetto vuoto quantistico, non si può considerare come una sorta di “vuoto assoluto”; in quanto ricco di particelle virtuali che incessantemente continuano a formarsi e ad annichilirsi reciprocamente, in una danza senza tempo). A ben vedere quindi, nessuno avrebbe nulla da ridire se a questo punto esclamassimo: Nulla c’è di nuovo se non ciò che è dimenticato! Verità e conoscenza sono sempre là fuori, fin dalla notte dei tempi; basta solo saper volare sempre più in alto, per coglierne nuove parti, nuove sfaccettature, a noi ancora nascoste e dunque sconosciute. Ma torniamo al discorso delle analogie. Se per Kant doveva esistere una dinamica di attrazione e repulsione come base per una prima teoria dell’etere, analogamente, oggi sappiamo che vi sono diverse forze di natura attrattiva e repulsiva, che agiscono sugli insiemi di atomi o molecole. Queste forze, sia attrattive che repulsive, sono dipendenti dalla relativa distanza tra i vari atomi. Nei cristalli, nei quali gli elettroni sono trasferiti tra atomi, vi è, ovviamente, la forza a relativamente lunga distanza di Coulomb, che è in
  • 21. genere attrattiva. Questa forza deriva dallo scambio di elettroni da un atomo al suo vicino, in tale caso è una forza attrattiva di tipo ionico. Ma l’attrazione ionica è solo una della possibili forze agenti sui vari atomi. Ci si potrebbe aspettare che la forza attrattiva agente sugli atomi dovrebbe spingerli insieme fino a farli collassare. Invece esiste, sempre a distanza breve, una forza repulsiva che agisce tra gli elettroni dei singoli atomi. Tale forza viene spiegata a livello microscopico mediante il Principio di esclusione di Pauli14 . Come risultato, vi è sempre una distanza di equilibrio alla quale queste due forze si bilanciano esattamente. A questa distanza di equilibrio, la forza attrattiva, sia Coulombiana o di altra natura, viene bilanciata esattamente dalla forza repulsiva tra i due atomi. Se gli atomi si allontanano, allora la forza repulsiva è minore della forza attrattiva, che tende ad avvicinarli. Se invece si avvicinano ad una distanza minore di quella di equilibrio, la forza repulsiva diventa dominante, e quindi la forza risultante tende ad allontanarli. Poiché le forze tendono sempre a fare ritornare gli atomi nella posizione di equilibrio, questa posizione è un equilibrio stabile (e poiché l'equilibrio è stabile, deve avvenire al minimo dell'energia potenziale). Negli atomi, le forze elettriche tra protoni sono repulsive e tenderebbero quindi a distruggere i nuclei. Tuttavia la maggior parte di essi è stabile e quindi deve necessariamente esistere un’ulteriore forza di natura attrattiva agente fra 14 Il principio di esclusione di Pauli è un principio della meccanica quantistica che afferma che due fermioni identici non possono occupare simultaneamente lo stesso stato quantico. Formulato da Wolfgang Pauli nel 1925, viene anche citato come principio di esclusione o principio di Pauli. Il principio di esclusione si applica solo ai fermioni, che formano stati quantici antisimmetrici e hanno spin semi-intero, e che includono protoni, neutroni ed elettroni, le tre particelle che compongono la materia ordinaria. Esso non è valido per i bosoni, i quali formano stati quantici simmetrici e hanno spin intero. Il principio è alla base della comprensione di molte delle caratteristiche distintive della materia.
  • 22. nucleoni, su scale dell’ordine di 10-13 cm, in grado di vincere la forza repulsiva elettrica. In seguito si è dimostrato che tale forza, analizzata allo stato fondamentale, rappresenta la risultante delle interazioni fra i quark, i componenti ultimi delle particelle pesanti quali, ad esempio, protoni e neutroni. La forza tra nucleoni si può quindi ritenere come una sorta di “forza residua” in modo analogo a quanto avviene fra gli ioni di un reticolo cristallino la cui stabilità dipende dalla risultante delle interazioni elettromagnetiche fra elettroni e nuclei. Per Kant le monadi, nell’accezione definita da Leibniz di unità elementari della Natura, dovevano essere considerate come delle vere e proprie entità-unità fisiche, e non metafisiche o “spirituali”; analogamente, oggi sappiamo ormai da più di un secolo (esattamente dal 1900, anno in cui Max Planck introdusse per primo l’ipotesi dell’energia quantizzata), che il costituente fondamentale delle radiazioni elettromagnetiche è il quanto; ovvero un’entità fisica non ulteriormente divisibile. Nel 1905, Albert Einstein, a seguito dei suoi studi sull’effetto fotoelettrico15 , introdusse radicalmente l'idea che non solo gli atomi emettono e assorbono energia in "pacchetti finiti" (i quanti proposti da Max Planck, per l’appunto), ma che è la stessa radiazione elettromagnetica ad essere costituita da quanti, ossia da quantità discrete di energia, poi denominati fotoni nel 1926. In altri termini, poiché la radiazione elettromagnetica è quantizzata, l’energia non è distribuita in modo uniforme sull’intera ampiezza dell’onda elettromagnetica, ma concentrata in vibrazioni fondamentali. Per Kant, - La realtà è un campo di forze che determinano lo spazio; 15 Gli studi sull'effetto fotoelettrico effettuati all'inizio del Novecento da diversi grandi scienziati, tra cui principalmente Albert Einstein, mostrarono che la separazione degli elettroni dal proprio atomo dipende esclusivamente dalla frequenza della radiazione dalla quale sono colpiti, e pertanto l'ipotesi di un'energia quantizzata divenne necessaria per descrivere gli scambi energetici tra luce e materia.
  • 23. - Senza un campo continuo e dinamico, l’esperienza spaziale sarebbe impossibile; - La realtà è una dinamica tra il legame dell’energia e il continuum, energia-momento e spazio-tempo. Analogamente, oggi sappiamo ormai da un secolo (ovvero dal 1916, anno in cui Einstein rese pubblica la sua teoria della Relatività Generale), che esiste una legge fisica che lega distribuzione e flusso nello spazio-tempo, di massa, energia e impulso, con la curvatura dello spazio-tempo medesimo; questa legge, espressa principalmente attraverso le equazioni di campo di Einstein, rappresenta ancora oggi uno dei maggiori capisaldi nella comprensione e descrizione dell’interazione gravitazionale. Famosa è la seguente affermazione di John A. Wheeler (uno dei pionieri della fissione nucleare, insieme a Bohr e Fermi), dopo aver appreso la profondità dell’equazione di campo, del collega di Princeton: “La materia dice allo spazio-tempo come incurvarsi, e lo spazio curvo dice alla materia come muoversi”. Come giustamente osserva Arthur I. Miller nel suo libro, “L’equazione dell’anima”16 , agli inizi del XX secolo: “Con l’avvento della psicoanalisi gli scienziati cominciarono ad esaminare il modo in cui erano arrivati alle loro scoperte. Einstein scrisse: ‘Non c’è un percorso logico che conduce a queste leggi; solo l’intuizione, basata su una comprensione empatica dell’esperienza, può portare a raggiungerle’. In tal modo, proseguiva, gli scienziati possono scorgere l’armonia ‘prestabilita’ dell’universo. Gli empiristi logici, tuttavia, consideravano simili affermazioni uno sproloquio senza senso prodotto a posteriori dagli scienziati. Secondo loro gli scienziati costruivano teorie procedendo logicamente (matematicamente) dai dati sperimentali a una teoria. Sfornavano un’equazione dopo l’altra finché non avevano risolto il problema specifico di 16 A.I. MILLER, L’equazione dell’anima, RCS Libri, Milano, 2009, pp. 134- 135.
  • 24. cui si stavano occupando. Einstein invece considerava questa visione della ricerca scientifica, sbagliata. Gli scienziati erano unanimi nel ritenere che i loro metodi di ricerca non avessero alcuna somiglianza con le proposte avanzate da positivisti ed empiristi logici. La chiave, per scienziati creativi come Einstein, era il delicato equilibrio che dovevano mantenere tra le informazioni ottenute dai dati sperimentali e le leggi della teoria, espresse in forma matematica”. Il lungo cammino del pensiero umano “strisciante” (come lo avrebbero definito Pauwels e Bergier, se oggi fossero ancora in vita)17 , dagli anni Venti del XX secolo sino ad oggi, nel campo della fisica, ci ha fatto scoprire le meraviglie della meccanica quantistica (QM), dell’elettrodinamica quantistica (QED), della cromodinamica quantistica (QCD), della gravità quantistica a loop (LQG), della teoria quantistica dei campi (QFT)… arrivando infine, alla moderna teoria delle stringhe (una teoria ancora in fase di sviluppo che tenta di conciliare la meccanica quantistica con la Relatività Generale, e che si spera pertanto possa costituire una Teoria del Tutto). Ma per arrivare a tutto ciò, abbiamo dovuto superare due guerre mondiali, assistere allo sbarco dei primi uomini sulla Luna18 (e pochi anni dopo a quello dei primi lander su Marte)19 , alla caduta del Muro di Berlino, alla nascita dell’Unione Europea, per arrivare infine ad osservare Plutone da circa dodicimila chilometri di distanza20 , in 17 L. PAUWELS; J. BERGIER, Il mattino dei maghi, A. Mondadori, Milano, 1963. 18 Apollo 11 fu la missione spaziale che per prima portò gli uomini sulla Luna, gli statunitensi Neil Armstrong e Buzz Aldrin, il 20 luglio del 1969. 19 Nel 1976, due sonde della NASA denominate Viking 1 e Viking 2, entrarono nell'orbita di Marte e entrambe inviarono un lander che effettuò con successo un atterraggio morbido sulla superficie del pianeta. Queste due missioni inviarono le prime immagini a colori e dettagliati dati scientifici sul “pianeta rosso”. 20 La sonda spaziale New Horizons (lanciata dalla NASA nel 2006), dopo oltre nove anni di viaggio, è divenuta la prima sonda spaziale ad effettuare un sorvolo ravvicinato di Plutone; avvenuto il 14 luglio del 2015 ad una distanza minima di 12.472 km dalla superficie del pianeta nano.
  • 25. poco più di un secolo di storia. Già, il pensiero umano "striscia" (per dirla con Pauwels e Bergier) , avanza lentamente verso orizzonti scientifici sempre più lontani, ma attraverso dei risvolti tecnologici sempre più rapidi e vicini; un gap per ora ancora sostenibile, ma fino a quando? L’evoluzione delle idee Le più moderne teorie nel campo della biologia evoluzionistica, in rapporto all’evoluzione dei sistemi sociali, sostengono che la ricerca del nuovo poggi sul piacere suscitato dalle emozioni “positive” (interesse, sorpresa e gioia)21 . Dunque, se si escludono le emozioni “positive” dalle attività degli esseri umani, si esclude di conseguenza il desiderio della ricerca del nuovo. In ultima istanza, si rallenta l'evoluzione e si uccide il progresso. Qualsiasi tipo di intelligenza si consideri (sia essa umana o artificiale, purché di un certo livello), in assenza di emozioni “positive”, difficilmente potrà evolvere di sua 21 Le ricerche pionieristiche della neuroscienziata e farmacologa statunitense Candice B.Pert (1946 – 2013), sui neurotrasmettitori e le endorfine, hanno fatto ipotizzare che i neuropeptidi, a causa della singolare distribuzione dei loro recettori nelle aree del cervello che regolano l’umore, e del loro ruolo nel mediare la comunicazione in tutto l’organismo, rappresentino la base fisiologica delle emozioni (ossia ne siano i mediatori biochimici). Queste scoperte hanno portato la Pert a chiedersi, “dove inizi e termini realmente il cervello umano”. Secondo il neuroscienziato e psicologo portoghese Antonio Damasio, la coscienza inizia come un sentimento, un tipo particolare di sentimento, ma comunque qualcosa di assimilabile a questo, anche se non completamente sovrapponibile alle altre modalità sensoriali rivolte al mondo esterno. In ogni caso, coscienza ed emozione non sono separabili, poiché la prima è indissolubilmente legata al sentimento del corpo. Da un punto di vista evolutivo, le emozioni sono risposte fisiologiche che mirano ad ottimizzare le azioni intraprese dall'organismo nel mondo che lo circonda. A sostegno di queste tesi, il neurofisiologo portoghese riporta alcune prove neurologiche che mostrano come certi meccanismi cerebrali siano comuni sia alle emozioni che alla coscienza, giungendo alla conclusione che la coscienza rappresenti fondamentalmente un aspetto ausiliario della nostra dotazione biologica di adattamento all'ambiente.
  • 26. “spontanea volontà”; dovrà sempre esserci qualcuno o qualcosa che la “spinga ad evolvere”, sia pure la semplice necessità. Ma se la necessità, come si suol dire, aguzza l'ingegno, le emozioni “positive” tuttavia, ne facilitano il cammino. Qualcuno a questo punto potrebbe pensare che: la necessità spinge alle invenzioni di primaria importanza, mentre le emozioni a quelle “voluttuarie”. Ho paura però che senza le "invenzioni voluttuarie", non ci sarebbe progresso (di certo non saremmo passati dalla torcia primitiva alla lampada ad olio, ed infine alla luce elettrica, senza le "invenzioni voluttuarie"). La domanda che dunque occorre porsi è: si può parlare di vera e propria evoluzione, in assenza di progresso? Se poi pensiamo (nel senso che accettiamo l’ipotesi) che l'invenzione della lampada ad olio, sia nata dalla necessità di illuminare un piccolo luogo per molte ore senza il costante controllo di una o più persone e con il minor spreco di materia prima; e l'invenzione della luce elettrica dalla necessità di illuminare milioni di case, con la massima velocità e anche in questo caso con il minor spreco di materia prima, ci accorgiamo subito che il confine tra "invenzioni primarie" e "invenzioni voluttuarie", è quasi sempre piuttosto indefinito e dunque assai difficile da stabilire. Senza parlare poi di quelle invenzioni "tipicamente voluttuarie", che diventano di primaria importanza solo dopo decenni (o addirittura secoli!), a dipendenza dei cambiamenti ambientali e sociali a cui siamo soggetti (si pensi ad esempio al catalizzatore per veicoli con motore a combustione interna; se qualcuno lo avesse ideato e proposto a qualche casa automobilistica agli inizi del XX secolo, gli avrebbero riso in faccia!). Tante persone oggi ridono del progetto ITER, per il controllo e l'impiego a fini energetici della fusione nucleare (calda); ebbene tra non più di mezzo secolo, se tali persone saranno ancora in vita, forse non rideranno più e cominceranno a preoccuparsi (più per i propri figli che per loro stessi), qualora il progetto dovesse arenarsi o
  • 27. comunque non portare a risultati concreti, nei prossimi decenni22 . Il filosofo tedesco Arthur Oncken Lovejoy (1873 – 1962), noto esponente della filosofia americana (a cui si fa abitualmente risalire la genesi dello studio accademico della storia delle idee), era convinto che fosse possibile individuare i costituenti di base delle “idee” (“Unità-Idea”, o “concetti individuali”), i cui continui riarrangiamenti , permutazioni e riorganizzazioni strutturali potevano quindi generare evolutivamente tutti i “sistemi di idee” (dove le varie forme e combinazioni possibili caratterizzano le varie fasi e momenti storico-culturali). Per Lovejoy, la “storia delle idee” era da intendersi come: “…qualcosa che è nello stesso tempo più specifico e meno limitato di quanto non sia la storia della filosofia”23 . Tuttavia, Lovejoy non definisce cosa si debba intendere per idea: egli parla di “primarie unità dinamiche, persistenti o ricorrenti” nella storia della filosofia ma anche di “abiti mentali e presupposti impliciti” rintracciabili nel pensiero di singoli autori o in correnti culturali. Pochi anni prima della sua morte, nel 1960, con un goffo tentativo dagli scarsi risultati, Lovejoy cercò di ampliare il campo del significato di “idee”, indicando come tali: “tipi di categorie, pensieri che riguardano aspetti particolari di esperienza comune, presupposti espliciti od 22 A proposito di “importanza delle invenzioni” (soprattutto di quelle apparentemente irrilevanti), risale a soli pochi giorni fa (19 agosto 2015), la notizia che alcuni ricercatori della George Washington University (negli USA), hanno sviluppato una formula e una tecnologia economica che consente di trasformare l'anidride carbonica (CO2), uno dei maggiori gas serra prodotti dall'uomo, in nanofibre di carbonio. Queste nanofibre possono essere usate per produrre composti del carbonio, come quelli impiegati negli aerei, turbine eoliche o equipaggiamenti sportivi. Ma la cosa più interessante è un’altra, e a rivelarla è uno degli stessi ricercatori: ''Abbiamo calcolato che con un'area inferiore al 10% del deserto del Sahara, il nostro processo potrebbe rimuovere abbastanza CO2 da farne calare i livelli nell'atmosfera a quelli precedenti la rivoluzione industriale nel giro di 10 anni''. La frase sarebbe forse da concludersi con un bel punto esclamativo. 23 A.O. LOVEJOY, The Great Chain of Being, p. 11.
  • 28. impliciti, formule sacre e modi di dire, teoremi filosofici specifici, ipotesi più vaste, generalizzazioni e impostazioni metodologiche di varie scienze”24 . Nel 1976, il biologo ed etologo britannico Richard Dawkins, nel suo (ormai famosissimo) libro “Il gene egoista”, introdusse il termine “meme” per descrivere un’unità base dell'evoluzione culturale umana analoga al gene (ovvero all’unità base dell'evoluzione biologica), in base all'idea che il meccanismo di replica, mutazione e selezione si verifichi anche in ambito culturale. Così come in biologia, la presenza di questi elementi porta all'emergere spontaneo di effetti evolutivi; anche se per i memi questi si manifestano in senso diverso rispetto a quello biologico. Nel libro, Dawkins descrive il meme come un’unità di informazione residente nel cervello. Si tratta di uno schema che può influenzare l'ambiente in cui si trova (attraverso l'azione degli uomini che lo portano) e si può propagare (attraverso la trasmissione culturale). Tuttavia, Dawkins non ha mai dato una spiegazione sufficientemente esaustiva di come la replica di un’unità di informazione nel cervello, controlli il comportamento umano e alla fine, la cultura. A causa di ciò, il termine "unità di informazione" è stato definito in molti modi diversi da scienziati diversi. A quasi quarant'anni di distanza il dibattito è ancora in corso sul valore della memetica come disciplina scientifica25 . 24 A.O. LOVEJOY, Essays in the History of Ideas, New York, Capricorn Books; trad. it.: L’albero della conoscenza, Bologna, Il Mulino, 1982, p.36. 25 Secondo Dawkins, le culture possono evolversi in maniera analoga a come si evolvono le popolazioni e gli organismi viventi. Molte delle idee che passano da una generazione alla successiva, possono aumentare o diminuire le possibilità di sopravvivenza della generazione che le riceve e che a sua volta potrà ritrasmetterle. Ad esempio, più culture possono sviluppare un proprio progetto ed un proprio metodo per realizzare un utensile, ma quella che avrà sviluppato i metodi più efficaci avrà più probabilità di prosperare e svilupparsi rispetto alle altre; col passare del tempo una sempre maggiore parte della popolazione adotterà quindi tali metodi. Il progetto dell'utensile agisce quindi in modo simile a come agisce un gene biologico appartenente a
  • 29. Nel suo libro “Il gene egoista” (1976), Dawkins afferma che, accanto alla molecola del DNA, che è l’entità replicante che ha prevalso sulla Terra, esistono altre unità replicanti, che concorrono all’evoluzione. Per usare le sue stesse parole: “Io credo che un nuovo tipo di replicatore sia emerso di recente proprio su questo pianeta. Ce l'abbiamo davanti, ancora nella sua infanzia, ancora goffamente alla deriva nel suo brodo primordiale ma già soggetto a mutamenti evolutivi a un ritmo tale da lasciare il vecchio gene indietro senza fiato. Il nuovo brodo è quello della cultura umana. Ora dobbiamo dare un nome al nuovo replicatore, un nome che dia l'idea di un'unità di trasmissione culturale o un'unità di imitazione. "Mimeme" deriva da una radice greca che sarebbe adatta, ma io preferirei un bisillabo dal suono affine a "gene": spero però che i miei amici classicisti mi perdoneranno se abbrevio mimeme in meme. Se li può consolare, lo si potrebbe considerare correlato a "memoria" o alla parola francese même. Esempi di memi sono melodie, idee, frasi, modi di modellare vasi o costruire archi. Proprio come i geni si propagano nel pool genico saltando di corpo in corpo tramite spermatozoi o cellule uovo, così i memi si propagano nel pool memico saltando di cervello in cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione”. certe popolazioni e non ad altre, guidando con la propria presenza o assenza, il futuro di ogni cultura. Una caratteristica fondamentale del meme è quella di venire diffuso per imitazione. Quando l'imitazione fece la sua comparsa nell'evoluzione umana, si rivelò essere un buon sistema per aumentare le possibilità di ogni individuo di riprodursi geneticamente. Forse una selezione sessuale dei migliori imitatori fornì successivamente una spinta evoluzionistica verso i cervelli meglio capaci di imitare. In questo contesto, imitare significa sostanzialmente importare informazione dall'ambiente nel proprio cervello tramite gli organi di senso. L'ambiente può essere inanimato (come ad esempio un libro) oppure un altro essere umano (caso molto più frequente), da cui l'informazione viene presa e rieseguita. Le fonti inanimate di informazione vengono chiamate, nella teoria dei memi: sistemi di ritenzione.
  • 30. Per Dawkins sono soprattutto le idee religiose a costituire un grandioso esempio di complessi memici in grado di replicarsi, diffondersi e costituire un apparato per la loro sopravvivenza. In generale, secondo il biologo britannico, qualunque idea fertile colonizza il cervello in cui si trova, “proprio come un virus può parassitare il meccanismo genetico di una cellula ospite” e si espande per imitazione da una mente all’altra. Proseguendo nell’analogia genetica (e virologica), Dawkins si spinge a ipotizzare che l’evoluzione dei memi non è semplicemente analoga all’evoluzione biologica o genetica, ma è un fenomeno che obbedisce alle leggi della selezione naturale del più adatto, favorendo quei replicatori dotati di maggiore longevità, fecondità e fedeltà di copiatura e capaci di attuare le migliori strategie di diffusione. Su questa strada procede lo studioso dell’evoluzione Daniel Dennett che, nel volume “Consciousness explained” (1991), inserisce l’evoluzione memetica, accanto a quella genetica e alla cosiddetta plasticità fenotipica, fra le componenti che concorrono a spiegare la coscienza umana. Nel capitolo “Il terzo processo evoluzionistico: memi ed evoluzione culturale”, arriva a definire la coscienza come “un enorme complesso di memi (o meglio di effetti provocati dai memi nel cervello)”. Li definisce come “distinte unità degne di essere memorizzate”, fra le quali elenca, in una azzardata tassonomia: “ruota, indossare vestiti, vendetta, triangolo retto, alfabeto, calendario, l’Odissea, calcolo, scacchi, disegno prospettico, evoluzione per selezione naturale, impressionismo, la tarantella, il decostruzionismo”. Il 1996 è stato “l’anno d’oro” della memetica, con l’uscita dei libri di Richard Brodie: “Virus della mente. La nuova scienza del meme”, di Aaron Lynch: “Thought Contagion”, e un’accesa discussione su “Memesis, il futuro dell’evoluzione”, al Festival Ars Electronica di Linz (Memesis 1996). Nell’appuntamento annuale con le frontiere creative dell’elettronica che si tiene nella cittadina austriaca, la memetica venne vista, nel 1996, come un paradigma fertile per comprendere la coevoluzione di uomo e tecnologia, l’evoluzione dei linguaggi informatici e la
  • 31. diffusione di idee, concetti, mode, nell’infosfera delle reti. In quell’occasione i memi vennero definiti: “pixel cognitivi” del vasto universo dei nuovi media. Verso la fine degli anni Novanta, la memetica si innesta agevolmente nella cultura del cyberspazio e dell’informatica, per via dell’analogia mente/computer e di quella, più ambigua, meme/virus. Difatti, il meme viene definito come una struttura informativa dotata di proprio dinamismo e sottoposta a leggi evolutive analoghe a quelle genetiche, ma il suo stato viene anche avvicinato a quello del parassita o dell’organismo simbiotico. E i campi di studio sui virus del computer e sulla Vita Artificiale sono un buon banco di prova per la creazione di modelli e formalizzazioni dei memi come unità autoreplicanti e diffusive. A differenza dell’evoluzione genetica, l’evoluzione memetica è molto più veloce: i memi possono passare da genitori a figli come i geni oppure possono diffondersi tra individui come un virus utilizzando le nostre menti e altri supporti come mezzo per replicarsi, inoltre un meme inadeguato viene eliminato senza bisogno di aspettare la morte del suo portatore. Secondo Francesco Ianneo, ciò spiegherebbe “il fatto che durante gli ultimi diecimila anni gli uomini fondamentalmente non siano mutati a livello genetico, mentre la loro cultura (l’insieme totale dei memi”), abbia subito degli sviluppi radicali”.26 Per Ianneo, occorre che il meme sia semplice e comprensibile, che sia plausibile, che sia trasmesso fedelmente e riprodotto da medium duraturi e veloci, per potersi replicare efficacemente. È altresì importante che sia ridondante: il meme deve essere come un mantra che si ripete costantemente. Occorre inoltre che sia in grado di integrare attraverso sincretismi altri memi con cui è in competizione oppure sia capace di cooperare con altri al fine di costituire un memeplesso possibilmente intollerante verso i 26 FRANCESCO IANNEO, Meme. Genetica e virologia di idee, credenze e mode, Castelvecchi, Roma, 1999, p. 65.
  • 32. memi differenti o meno adattativi.27 In un mondo in cui l'offerta di informazione è enormemente aumentata questo è un fattore cruciale per la sopravvivenza del meme stesso, che nel frattempo "si è fatto furbo". I "buoni memi" (quelli che sopravvivono e si diffondono) fanno spesso leva su alcuni istinti basici fondamentali come: combattere, fuggire, nutrirsi, accoppiarsi.28 In altre parole, utilizzano gli "hot buttons" o "pulsanti biologici" presenti nel nostro “hardware biologico” per istallarsi nella nostra mente: "I memi che risultano affascinanti per gli istinti delle persone sono quelli che più facilmente si replicano e si trasmettono attraverso la popolazione".29 Potremmo pensare quindi, che la maggior parte dei memi non evolvano per essere di beneficio agli individui (solo una minima parte, andrebbe in tale direzione!).30 Parallelamente a questa tesi, potrebbe accostarsi inoltre il pensiero (a tratti inquietante) di Alfred N.Whitehead, che nella sua opera intitolata “Simbolismo”, afferma quanto segue: "(...) un sistema sociale trae coesione dalla forza cieca delle azioni istintive e delle emozioni istintive che costellano abitudini e pregiudizi. Perciò non è vero che ciascun progresso nella scala della cultura tenda inevitabilmente alla conservazione della società. (...) La presenza di un nuovo elemento nella vita rende inadeguati i vecchi istinti. Ma gli istinti inespressi non vengono analizzati e 27 Ibidem, pp. 83-84. 28 RICHARD BRODIE, Virus della mente, Ecomind, 2000, p. 96. 29 Ibidem, p.46. 30 Un meme ben radicato nella sinapsi dell’individuo ospite guiderà il suo comportamento inducendo una fiducia cieca nella sua validità. Ciò comporta quindi un ordine implicito di diffusione. Si riscontra inoltre come a volte un meme possa essere di tipo simbiotico (capace di promuovere un comportamento adattativo per sé e per l’individuo che lo ospita), mentre altre volte funziona come un parassita e sopravvive a spese dell’organismo (come i “memi settari”). A volte questi memi sono particolarmente aggressivi come alcune fedi politiche o religiose. Le persone che ne sono preda ne sembrano interamente controllate e perdono lo scopo della loro esistenza, in loro mancanza (i suicidi collettivi ai quali partecipa anche il “santone”, sono il chiaro esempio di come il meme detenga il potere e non chi lo "ha creato").
  • 33. vengono ciecamente sentiti. Le forze disgregatrici, introdotte da un livello superiore di esistenza, combattono allora nell'oscurità contro un nemico invisibile. (...) Il primo passo verso la saggezza sociologica è il riconoscimento del fatto che i più grandi progressi nella civiltà sono processi che quasi distruggono le società all'interno delle quali accadono: come una freccia nelle mani di un bambino. L'arte della società libera consiste in primo luogo nella manutenzione del codice simbolico e in secondo luogo nel suo coraggio di revisione, per assicurarsi che il codice serva a quegli scopi che soddisfano una ragione illuminata".31 Se sono davvero i memi a controllare l’uomo, e non viceversa, ciò significa che il nostro presunto “libero arbitrio”, è davvero molto limitato e “fuorviante”. Si potrebbe addirittura ipotizzare che (con un esempio assai banale), se improvvisamente un giorno, migliaia di milionari e miliardari iniziassero a distribuire tutte le loro ricchezze ai poveri (fino al punto di diventare anch’essi poveri), milioni di persone inizierebbero a credere che al mondo, tra gli esseri umani, stia diffondendosi il virus della follia. A tal punto la paura di milioni di persone, verrebbe alimentata dalla propaganda, di chi gestisce l’informazione globale. A qualcuno verrebbe di sicuro in mente di eliminare i benefattori, per salvare il mondo, per salvare l'intera umanità …da un virus maligno e incontrollabile. Un precursore della memetica è Gustav Le Bon, con la sua “Psicologia delle folle” (1895). Scrive Le bon: “In una folla ogni sentimento, ogni atto, sono contagiosi, a tal punto che l’individuo sacrifica facilmente il suo interesse personale all’interesse collettivo.(…) Quando un’affermazione è stata ripetuta unanimemente per un numero sufficiente di volte, come accade per certe imprese finanziarie che acquistano tutti i consensi, si forma ciò che viene chiamata una corrente d’opinione ed interviene il possente meccanismo del contagio. 31 A.N. WHITEHEAD, Simbolismo, Raffaello Cortina, Milano, 1998, pp. 60; 76.
  • 34. Nelle folle, le idee, i sentimenti, le emozioni, le credenze divengono contagiose non meno dei microbi”. L’ambiente culturale costituito da memi che tendono a propagarsi e a replicarsi diventa il nuovo habitat o nicchia ecologica nella quale la specie umana coevolve: "Viviamo, pertanto, all’interno di una Matrice, la matrice dei memi, quella che Wittgenstein chiamava una «forma di vita» e che il filosofo statunitense Hilary Putnam ha definito più icasticamente: una vasca dove sono immersi i cervelli.”32 Secondo Steven Pinker: “La selezione naturale ha progettato la mente perché fosse un elaboratore d’informazione, e ora la mente percepisce, immagina, simula e pianifica. Quando le idee circolano, non vengono meramente copiate con occasionali errori tipografici, bensì vengono valutate, discusse, migliorate o respinte. Anzi, una mente che accettasse passivamente memi ambientali sarebbe facile oggetto di sfruttamento altrui, e dalla selezione sarebbe stata velocemente scartata”.33 Gli schemi comportamentali e cognitivi che definiscono la realtà consensuale, vengono appresi culturalmente. Il bambino impara attraverso l’esperienza, tramite l’interazione con l’ambiente in cui si situa interpretando la realtà secondo uno schema di riferimento condiviso. Il senso del Sé è frutto dell’interazione sociale e la mente emerge all’interno di un contesto tramite uno strumento offerto dalla collettività: il linguaggio. Non esiste un “Io archetipico” e originario preesistente alla realtà sociale, poiché il Sé emerge dall’interazione con l’Altro, il non-Sé. Per esempio: “Bruner sostiene che il concetto di Sé che ciascuno di noi possiede non è un’essenza né un nucleo di coscienza isolato, racchiuso nella mente individuale, ma il risultato continuamente emergente della negoziazione incessante tra le nostre versioni del Sé e le versioni del nostro Sé che gli altri ci forniscono.”34 32 FRANCESCO IANNEO, op. cit., p.134. 33 S. PINKER, Come funziona la mente, Mondadori, Milano, 2000, p. 225. 34 F. EMILIANI; B. ZANI, Elementi di psicologia sociale, Il Mulino, Bologna, 1998, p.89.
  • 35. Nel suo libro “Anelli nell’io”, Douglas Hofstadter, spiegando quanto sia difficile dare un senso di “unicità”, nonché una forma e dei confini ben definiti al nostro Sé , dice: "Se immergete contemporaneamente la vostra mano sinistra in una bacinella di acqua molto calda e la vostra mano destra in una bacinella di acqua molto fredda, le lasciate lì per un minuto e poi le tuffate in un lavandino pieno di acqua tiepida, vi accorgerete che adesso le vostre mani (...) vi dicono cose diametralmente opposte sulla stessa identica acqua del lavandino. In risposta a questo paradosso, con ogni probabilità vi limiterete a scrollare le spalle e a sorridere, pensando fra voi: ‘Com’è potente questa illusione tattile!’. Non è invece molto probabile che pensiate: ‘Questa scissione cognitiva dentro il mio cervello è solo la punta emergente di un iceberg, che rivela l’illusorietà della convinzione corrente che dentro la mia testa ci sia soltanto un singolo Sé“.35 Sulla scia di Dawkins, il biologo britannico Rupert Sheldrake, verso la fine degli anni Ottanta (molto probabilmente influenzato dalle idee di Dawkins e in special modo dalla sua teoria dei memi; a cui egli diede il nome di memetica), pubblicò un libro intitolato: “The Presence of the Past: morphic resonance and the habits of nature”.36 In questo libro (del 1988, e tradotto in italiano proprio nello stesso anno), Sheldrake ampliò la sua discussa teoria della “risonanza morfica” (apparsa per la prima volta in un libro pubblicato nel 1981 ed intitolato: “A New Science of Life: the hypothesis of formative causation”)37 , introducendo il concetto di “campo ricordo”. In tale teoria, l'idea che ogni specie ed ogni membro di ogni specie, attinga alla memoria collettiva della specie, si sintonizzi con i membri passati della specie e a sua volta contribuisca 35 D. HOFSTADTER, Anelli nell’io, Mondadori, Milano, 2008, p.324. 36 Trad. it.: R.SHELDRAKE, La presenza del passato, Crisalide, Spigno Saturnia, 1988. 37 Trad. it.: R. SHELDRAKE, L’ipotesi della causalità formativa, RED, Como, 1998.
  • 36. all'ulteriore sviluppo della specie, comporta una sorta di "risonanza" fra gli individui e i gruppi della specie. Sempre in questo libro, Sheldrake avanza l'ipotesi che i "campi ricordi" non siano effettivamente memorizzati nel cervello, ma piuttosto che possano essere memorizzati in un campo di informazioni al quale si può accedere mediante il cervello. Se questo fosse dimostrato, ciò avvalorerebbe la tesi che la coscienza umana, i nostri ricordi personali e il nostro senso dell'io possano sopravvivere alla morte biologica. Secondo la teoria di Sheldrake, se un certo numero di persone sviluppa alcune proprietà comportamentali o psicologiche od organiche, queste vengono automaticamente acquisite dagli altri membri della stessa specie. Così, se una buona parte dell'umanità raggiunge un certo livello di consapevolezza spirituale, questa stessa consapevolezza si estenderebbe per risonanza morfica ad altri gruppi, coinvolgendo quindi l'intero sistema. A questo punto, riflettendo per non più di qualche secondo su quanto esposto finora, è fuori discussione che non occorra un’intelligenza superiore alla media per vedere le sorprendenti analogie tra la teoria dei memi di Richard Dawkins, e quella sulla “risonanza morfica” e i “campi ricordo” di Rupert Sheldrake. Eppure, nonostante ciò sia più che evidente a qualsiasi persona dotata di media intelligenza, le idee di Sheldrake continuano ad essere calorosamente osteggiate da buona parte dell’intera comunità scientifica; mentre per quanto riguarda la teoria di Dawkins sui memi, l’intera comunità scientifica non vi oppone quasi alcuna resistenza (anzi, da più di vent’anni ormai sembrerebbe accettarla come una vera e propria teoria scientifica!)38 . Forse la risposta al perché di questa grande disparità di trattamento, tra l’una e l’altra teoria, va cercata tra i poteri alti della comunità scientifica, nonché tra i guru della biologia e della fisica, che dagli anni ’60 fino ad oggi, hanno 38 Il termine meme è entrato persino nell'Oxford English Dictionary come “elemento di una cultura che può ritenersi trasmesso da un individuo a un altro con mezzi non genetici, soprattutto attraverso l’imitazione”.
  • 37. lanciato le varie mode alle quali tutti gli “addetti ai lavori” hanno sempre dovuto adattarsi39 . Lee Smolin aveva dunque visto giusto affermando che: "Il compito di formare la comunità della scienza non avrà mai termine. Sarà sempre necessario respingere il predominio dell'ortodossia, delle mode, dell'età e della posizione. Ci sarà sempre la tentazione di scegliere la via facile, di farsi ingaggiare dalla squadra che sembra vincente piuttosto che cercare di capire un problema ricominciando da capo". 40 Se tutti gli scienziati e i ricercatori del mondo facessero un bel tuffo in un mare di umiltà, coraggio e indifferenza nei giudizi e pregiudizi altrui, si accorgerebbero subito di quanto possa essere produttivo proporre nuove idee, seppur sbagliate, affinché in molti possano col tempo rielaborarle o trarne nuovi spunti di riflessione, onde infine tutti insieme capire meglio ciò che ancora ci è poco chiaro. Occorre una laurea in medicina, una in legge e una in filosofia, per poter scrivere un inconcludente libro sull'eutanasia. Ma sono proprio le teorie inconcludenti, a stimolare la mente umana verso nuovi orizzonti, verso nuove 'verità' (sempre momentanee, mai assolute)". Secondo Joy Marino41 , professore associato in Sistemi Operativi all’Università di Genova: “Evoluzione o rivoluzione è un 39 A volte un aneddoto rivela più di mille parole: Nel gennaio del 2013 Rupert Sheldrake ha tenuto una TED conference a Londra, esponendo le sue perplessità in merito alle interpretazioni attuali della scienza. In particolare si è soffermato sul fatto che apparentemente la velocità della luce sia variata nel corso del tempo, così come la costante di gravitazione universale. Il comitato TED ha sospeso la pubblicazione del video contestando delle inesattezze da parte dello scienziato, mentre da altre parti tale decisione è stata considerata come una mera censura. 40 L. SMOLIN, L’universo senza stringhe. Fortuna di una teoria e turbamenti della scienza, Einaudi, Torino, 2007, p.305. 41 Giuseppe Amedeo Marino (meglio noto come Joy Marino), è un ingegnere elettronico ed informatico italiano. Egli è noto per essere stato un pioniere in Italia, dell’utilizzo di Internet all’esterno delle Università; il suo merito sta nell’aver curato la parte tecnica di IUnet (la prima rete esterna agli atenei ed alle strutture militari).
  • 38. contrasto tra due concetti che vale universalmente, sia che si tratti di ricerca, industria o società civile. Ogni grande organizzazione, in modo naturale, tende ad evolvere gradualmente migliorando sé stessa, facendo sempre meglio quello che già sa fare, ma in questo modo si preclude la via a strade più innovative. Le idee nuove sono bloccate sul nascere. Anche la ricerca deve far in modo che i semi dell’innovazione, che comunque vengono fuori perché ci sono i giovani, non vengano soffocati. La rivoluzione si pone sempre al di fuori dello schema”. Nei grandi progetti degli anni '60 veniva data enfasi al ruolo del laboratorio, considerato come metodo privilegiato di lavoro in classe. Era data grande importanza anche alla scelta degli argomenti, cercando di focalizzare l'attenzione sui temi emblematici della disciplina vista come un insieme di nozioni. La metodologia con cui trasmettere questi contenuti non era argomento di discussione: l'insegnante veniva considerato unicamente un espositore di contenuti. I risultati ottenuti dal lavoro effettuato partendo da questo punto di vista furono limitati rispetto alle aspettative. Cercando di identificare le cause dell'insuccesso si notò che lo studente risultava passivo rispetto alla logica della disciplina e, d'altra parte, anche l'insegnante risultava passivo, rispetto alla logica del percorso didattico. Si giunse quindi alla rottura della seguente ipotesi di lavoro: “Un curriculum ben strutturato sul piano disciplinare, porta alla costruzione di atteggiamenti e conoscenze di complessità crescente, indipendentemente dal modo con cui lo studente costruisce la propria conoscenza ''. Si scoprì la necessità di riflettere sui processi di apprendimento e sul concetto di insegnamento. Venne raggiunta la consapevolezza del condizionamento delle idee e delle strategie di ragionamento individuali sulla costruzione di nuove conoscenze e della inconscia ma potente resistenza esercitata dalla mente umana contro ogni cambiamento non sentito come necessario. Furono considerati quindi nuovi assunti dai quali partire per la costruzione di nuove metodologie didattiche:
  • 39. - La conoscenza (individuale e di gruppo) è costruita mediante un processo continuo di strutturazione e ristrutturazione di idee, concetti, schemi e strategie di ragionamento, modi di guardare, vedere, fare, comunicare, ecc... a partire da quanto già si conosce. - Nei confronti di molti aspetti della realtà l'allievo possiede proprie idee e “modi di guardare'', non di rado originali e comunque soggettivamente sensati, che spesso non coincidono né con quelli della scienza ufficiale, né con quelli che l'insegnante intende trasmettergli. Ecco dunque che l'educazione scientifica è vista come un processo di continuo cambiamento concettuale, realizzabile mediante un passaggio guidato da modi di guardare spontanei a modi di guardare via via sempre più compatibili con la descrizione e interpretazione disciplinare. Per cambiamento concettuale non si dovrebbe intendere un semplice cambiamento di idee (da quelle spontanee sbagliate, a quelle scientificamente accreditate, corrette) ma un processo che implichi la generazione di una diversa rete concettuale mediante la quale l'allievo modifica i propri modi di guardare, descrivere e interpretare i fenomeni naturali. Il “cambiamento concettuale'' è dunque un passaggio da conoscenza di senso comune a conoscenza scientifica accreditata. La conoscenza di senso comune è una costruzione individuale che ci serve per dare senso alla realtà che ci circonda e per intervenire su di essa; mentre la conoscenza scientifica si identifica con un insieme particolare di modi di guardare la realtà, di descriverla, interpretarla, prevederla, dominarla, etc. Gli studenti costruiscono scienza tentando di attribuire significati alle parole che si usano e ai fatti del mondo che li circonda in funzione della loro esperienza personale, delle loro conoscenze e dell'uso che fanno del linguaggio, usando somiglianze e differenze, ricercando variabili e relazioni fra
  • 40. variabili e costruendo modelli per interpretare fatti noti e fare previsioni. Nell'interazione studente-insegnante può succedere che il punto di vista dello studente non venga sostanzialmente modificato e che le sue rappresentazioni mentali restino inalterate o solo parzialmente modificate. Conseguenza di ciò è un rifiuto o una errata interpretazione delle nuove idee proposte dall'insegnante. Notato questo si è cercato di formulare un modello di cambiamento concettuale. Per potere effettuare un cambiamento concettuale lo studente deve riscontrare una insoddisfazione rispetto alle conoscenze possedute in modo da desiderare di acquisire nuove idee per superare lo stato di insoddisfazione. Le nuove idee però devono essere intellegibili, plausibili e utili. Si è cercato quindi di progettare strategie di insegnamento in grado di conciliare le esigenze cognitive degli allievi con i vincoli imposti dalla struttura della disciplina. La nuova ipotesi di lavoro può essere sintetizzata così : ``Scopri quello che l'allievo conosce già e organizza di conseguenza il tuo insegnamento''. Questo non è di facile concretizzazione a livello di primo anno di università, nei casi in cui ci si trova di fronte a classi di centinaia di persone. Comunque il punto fondamentale del nuovo tipo di approccio è il fatto che l'attenzione debba essere rivolta verso lo studente facendo attenzione al modo in cui si vogliono trasmettere i concetti e non solo ai contenuti. Rousseau aveva ben chiara la funzione dell’educazione nella formazione dell’uomo: “Tutto ciò che abbiamo alla nascita e di cui abbiamo bisogno da grandi, ci è dato dall’educazione e questa educazione ci viene dalla Natura, o dagli uomini o dalle cose.(…) Quella della Natura non dipende da noi, quella delle cose dipende da noi solo sotto certi aspetti, mentre quella degli uomini è la sola di cui siamo padroni”. La pedagogia in Rousseau si costruisce attorno ad alcuni punti fermi, oggigiorno ancora attuali:
  • 41. - Occorre osservare i bambini nella loro specificità, perché l’infanzia non è semplicemente un’età preparatoria al mondo degli adulti; - Si deve rispettare l’infanzia nella sua gradualità: essa attraversa stadi evolutivi successivi; - La conoscenza della mente dell’uomo e delle sue “disposizioni primitive” (il senso – l’utilità – la ragione) è fondamentale per l’azione pedagogica; - Lo scopo dell’educazione è di formare l’uomo e non di limitarsi solo a sviluppare abilità (c’è in Rousseau una “dialettica” tra educazione ed istruzione); - L’educazione concorre a costituire una nuova società di uomini liberi, che vivono secondo natura, in pace con se stessi e gli altri (collegamento con il Contratto Sociale, del 1762); - La formazione del giovane non può avvenire senza la contemporanea auto e co-formazione dell’adulto che è coinvolto nel processo educativo; - L’importanza del pensiero critico ed anticonformista: l’educazione come base per esplorare nuove possibilità, come processo aperto: “la sola abitudine che si deve lasciar prendere al fanciullo è quella di non contrarne nessuna; preparate da lontano il regno della sua libertà”; - L’educazione ha un orientamento esistenziale (collegamento tra educazione e vita), non è solo una tecnica di controllo: “il mestiere di vivere è quello che voglio insegnargli”; “vivere è agire, è fare uso dei nostri organi, dei nostri sensi, delle nostre facoltà, di tutte le parti di noi stessi che ci danno il sentimento della nostra esistenza”; - Educazione non come processo intellettualistico, ma come esperienza concreta: “quello che fra di noi che sa
  • 42. meglio sopportare i beni ed i mali di questa vita è, a parer mio, il meglio educato: ne consegue che la vera educazione consiste meno di precetti che di esercizi”; - L’affermazione della centralità del concetto di autorevolezza, verso quello (pedagogicamente meno idoneo) di autorità. Per Rousseau la mente va lasciata crescere affinché l’educazione non sia un ulteriore strumento di degenerazione (la vera maestra del bambino è l’esperienza delle cose). Il tema centrale è l’educazione indiretta: l’adulto deve creare le condizioni per la relazione del bambino con le cose, predisporre contesti e lasciare che il bambino sperimenti da solo, in autonomia (l’esperienza del mondo è la vera maestra). Compito dell’educatore è garantire che il bambino compia esperienze adeguate alle capacità delle sue facoltà nel rispetto della sua natura e della natura delle cose42 . La mente va sollecitata ad auto-formarsi, acquisendo nozioni “da sé”, esplorando, incontrando problemi reali e dubbi da risolvere, nell’incontro con situazioni di vita pratica. L’individuo, diremmo oggi, è oggetto di condizionamenti sistemici, non c’è una sola fonte educativa. Howard Gardner, docente di Scienze dell'Educazione all'Università di Harvard e famoso per aver ideato la “teoria delle intelligenze multiple”43 , in una lunga intervista di John 42 Da questo punto di vista vi sono molte connessioni con le future teorie dell’Attivismo (specie per il concetto della “gradualità dell’esperienza”). 43 Grazie a una serie di ricerche empiriche e di letteratura su soggetti affetti da lesioni di interesse neuropsicologico, Gardner ha identificato otto tipologie differenziate di "intelligenza", ognuna deputata a differenti settori dell'attività umana: intelligenza logico-matematica, intelligenza linguistica, intelligenza spaziale, intelligenza musicale, intelligenza cinestetica o procedurale, intelligenza interpersonale, intelligenza intrapersonale, intelligenza etica. In seguito, nel corso degli anni '90, ha proposto l'aggiunta di altri due tipi di intelligenza: quella naturalistica, relativa al riconoscimento e la classificazione di oggetti naturali, e quella filosofico-esistenziale, che
  • 43. Brockman, dice: “Capire per me significa partire da qualcosa che si è imparato, una competenza, una conoscenza, un concetto, e saperlo applicare adeguatamente in una situazione nuova. Raramente chiediamo agli studenti di farlo. La scoperta più interessante della scienza cognitiva nei confronti dell'istruzione è stata quella di avere verificato che quando chiediamo anche ai migliori studenti delle migliori scuole di utilizzare le conoscenze in una situazione nuova, normalmente non sanno farlo.(…) È improvvisamente diventato irrilevante che la gente memorizzi molte cose. Perché questo lo possono fare i computer e altri strumenti. Quando dico che bisogna capire la disciplina per poter affrontare le domande fondamentali, voglio dire che abbiamo bisogno di allenare i modi di pensare.(…) Si può imparare l'evoluzione utilizzando la lingua comune, oppure la logica, e ancora disegnando diagrammi con l'albero a rami, o facendo classificazioni tassonomiche delle varie specie, eccetera. Molti, compreso gli esperti, fanno l'errore di pensare che una di queste lingue costituisca per così dire la rappresentazione privilegiata di un argomento. Al contrario io direi che la comprensione di un argomento può considerarsi solida se sappiamo rappresentarlo in diversi modi e se siamo in grado di passare velocemente da una rappresentazione all'altra. (…) Con l'avvento delle nuove tecnologie, l'istruzione centrata sull'individuo sarà solo una questione di tempo. Fra cinquant’anni la gente riderà dell'idea finora dominante, secondo cui a tutti deve essere insegnata la stessa cosa nello stesso modo. Già adesso per qualsiasi argomento degno di essere appreso ci sono dozzine di modi per apprenderlo, accessibili a tutti attraverso la tecnologia”. E dopo questa breve digressione sull’evoluzione della didattica e gli albori della pedagogia, torniamo al nocciolo del tema riguarderebbe la capacità di riflettere sulle questioni fondamentali concernenti l'esistenza e più in generale nell'attitudine al ragionamento astratto per categorie concettuali universali (portando così a dieci, il numero dei vari tipi di intelligenza).
  • 44. principale (ovvero all’evoluzione delle idee a livello globale), inoltrandoci nella teoria dei sistemi sociali, intesa come base concettuale da cui prende forma la cosiddetta “sociologia del sapere”. Gli sviluppi più recenti della teoria dei sistemi sociali hanno mostrato che anche le idee sono soggette ai tre meccanismi che stanno alla base del processo evolutivo; vale a dire: la varietà, la selezione e la ristabilizzazione. In generale si tratta del fatto che nella varietà potenzialmente illimitata delle idee che possono essere prodotte dalla comunicazione per comunicare, la società seleziona di volta in volta soltanto quelle che sono plausibili a determinate condizioni ambientali. L’uso di tali idee si stabilizza quando il loro senso è tanto evidente da poter essere dato per scontato, visto che non si intravedono alternative. Il suggerimento della teoria della società è di rivolgere la propria attenzione a tre aspetti di questa evoluzione: l’autoreferenza del senso, la sensibilità per le differenze e la complessità44 . Nel primo caso si tratta del fatto che le idee costruiscono un contesto semantico di riferimento a partire dal quale è possibile comprendere il senso delle idee. Nel secondo caso si tratta del fatto che le idee non evolvono mai singolarmente e in modo autonomo, ma sempre in coppie di contro-concetti o concetti antinomici45 . Nel terzo caso si tratta del fatto che l’evoluzione seleziona di volta in volta soltanto i concetti che sono in grado di corrispondere alla crescente complessità delle strutture sociali. L’evoluzione procede per coppie di concetti antinomici. Quando cambia il contro-concetto, cambia anche l’orizzonte di rimandi di senso della coppia intesa come unità di una differenza. Si potrebbe dire che quando cambia la soluzione, cambia anche il problema di riferimento. L’ipotesi della teoria dei sistemi sociali è che sia soprattutto la complessità delle strutture a condizionare la plausibilità dei concetti che la 44 Luhmann,1981; Luhmann,1997, pp.569-576. 45 Koselleck,1986, pag. 181 sgg.
  • 45. società mette di volta in volta a propria disposizione per comunicare. Concetti un tempo rilevanti perdono la loro presa e impallidiscono fino a scomparire. La parodia (per esempio quella della cultura cavalleresca nei poemi rinascimentali) potrebbe essere considerata, da questo punto di vista, come un espediente dell’evoluzione per mostrare la perdita di plausibilità di una semantica senza che ci sia bisogno di distruggerla. La parodia, anzi, rinfresca la memoria sociale e allo stesso tempo segnala il bisogno di aggiornarla. Un’altra possibilità evolutiva consiste nello spingere la semantica a elaborare nuovi concetti per adeguarsi alla complessità delle relazioni. Oppure l’evoluzione può servirsi di concetti disponibili già da tempo ma dei quali la società non aveva saputo bene che farsene. Nei termini della recente teoria dell’evoluzione si potrebbe dire che dei vecchi concetti vengono cooptati per delle nuove funzioni, senza che questo fosse stato programmato in anticipo. Poiché connettere tra loro molte verità vuol dire fondare un sistema, chi è in grado di disporre in modo sistematico la materia di una certa disciplina dà prova di essere uno scienziato competente. Le verità possono essere raccolte o in modo farraginoso, oppure secondo un nesso che permetta loro di riferirsi in modo reciproco le une alle altre; nel primo caso si tratta di distribuire le verità in classi determinate (come fa il medico che separa gli organi con il bisturi e li distribuisce secondo certi aspetti comuni); nel secondo caso si tratta invece di creare un sistema e spiegare il sapere come un tutto organico. Il primo metodo è senz’altro un utile sussidio alla memorizzazione (memoriæ adminiculum); il secondo incoraggia piuttosto il ragionamento. Kant riprende questa metafora nell’ottica di una concezione del sistema come un tutto costituito di parti e distingue l’articulatio dalla coacervatio, precisando appunto che nel tutto le parti devono essere disposte in modo reciprocamente riferito e non semplicemente ammucchiate. La differenza è che un mucchio aumenta per aggiunta di parti dall’esterno (per
  • 46. appositionem), mentre un sistema, proprio come un corpo animale, si accresce dall’interno (per intussusceptione): non si cambia la proporzione delle membra, le si rende soltanto più forti e adeguate al loro scopo. Su questo, com’è noto, Kant fonda la possibilità di una “architettonica” come “arte dei sistemi” (Kunst der Systeme). E poiché l’unità sistematica è ciò che fa della conoscenza una vera e propria scienza, l’architettonica non è altro che la dottrina di tutto ciò che è scientifico e come tale fa parte della dottrina del metodo. Se ci si chiedesse se tale dottrina sia a sua volta una scienza o un mero aggregato di conoscenze, la risposta sarebbe inevitabilmente che anche questa dottrina deve riunire sotto un’unità sistematica le conoscenze acquisite. La differenza gerarchica fra dottrina trascendentale degli elementi e dottrina trascendentale del metodo serve solo, da questo punto di vista, a introdurre un’asimmetria che evita la circolarità autoreferenziale ed elude la paradossalità dei rimandi. La dottrina di tutto ciò che è scientifico, in altri termini, deve essere essa stessa scientifica, altrimenti non troverebbe posto nella “Critica della ragion pura”. Il concetto di sistema diventa autologico e chiarisce i presupposti indispensabili per formulare una teoria di riflessione della scienza moderna. In questa direzione si muove Kant quando definisce un sistema come l’“unità della molteplicità delle conoscenze in base a un’idea”. E qui “idea” non è altro che un concetto razionale per indicare la “forma di un tutto” che consente alle parti di acquisire una doppia autoreferenza: le parti si riferiscono le une alle altre e allo stesso tempo si riferiscono al tutto di cui fanno parte. Nel concetto di idea è implicito un paradosso: se si tratta di una forma, allora deve essere la forma di una differenza, poiché senza differenza non si può riconoscere nulla come forma. Ma allo stesso tempo se la forma è forma del tutto, essa deve essere priva di differenza, poiché fuori dal tutto non c’è nient’altro. Idee di questo tipo sono secondo Kant l’idea di mondo, l’idea di anima e l’idea di essere supremo.
  • 47. Nel costruttivismo esse vengono sostituite da tre concetti altrettanto privi di differenza: l’idea di mondo, inteso come unità della differenza fra sistema e ambiente, l’idea di realtà, intesa come unità della differenza fra oggetto e conoscenza, e l’idea di senso, intesa come unità della differenza fra attualità e potenzialità. I concetti sono privi di differenza poiché anche la negazione del mondo è un evento mondano, anche la negazione della realtà è un’operazione reale e anche la negazione del senso ha un senso. L’osservatore che lavora con queste idee si trova così incluso nell’orizzonte della propria osservazione e deve infine ammettere che non è possibile osservare qualcosa dall’esterno: l’unità rientra nell’unità distinta e osserva se stessa (e l’esterno) dall’interno. Le idee di varietà e selezione emergono in sostituzione delle idee tipicamente retoriche di imitazione e variazione per indicare un nuovo modo di elaborare il sapere, che preferisce alla ripetizione la ricerca di novità. Se l’evoluzione ha una direzione, allora questa è probabilmente quella che conduce all’illuminazione (Aufklärung) della circolarità autoreferenziale delle sue operazioni. In questo consiste anche il contributo forse più consistente che la teoria dei sistemi sociali può dare alla sociologia del sapere. Sulle orme del pensiero creativo Come ben spiega il noto e stimatissimo filosofo italiano Umberto Curi, in un articolo apparso qualche anno fa sul Corriere della Sera46 , la genealogia del verbo italiano “creare” e di altri termini simili nelle lingue moderne, come il francese créer e lo spagnolo criar, è insieme istruttiva e sorprendente. La derivazione più attendibile è infatti dal sanscrito kar-, che ritroviamo nel greco kaino (“produco”), oltre che in krantor (il “dominatore”) e kreion (“colui che fa”), sempre col significato 46 U. CURI, Creare significa “fare”. L’etimo antico del genio – Alle radici di un attributo divino e umano, Corriere della Sera, 30 agosto 2013, pp. 40-41.
  • 48. di “produrre”, “generare”, “fabbricare”. Ne troviamo traccia anche in “crescere”, che sarebbe una forma incoativa di “creare”, e starebbe appunto ad indicare il processo mediante il quale qualcuno o qualcosa si va formando. La presenza della radice sanscrita nel nome di due divinità, Kronos (il “creatore”), padre di Zeus, e Ceres (“quella che produce”), divinità delle messi, in modi diversi connessi con la coltivazione dei campi, confermerebbe il fatto che la capacità di creare, la creatività, rappresenta una forma specifica del fare, con particolare accentuazione sulle potenzialità generative. La concezione cristiana del Dio “creatore” chiarisce ulteriormente il quadro concettuale: vi è ribadita la funzione “generativa” della creazione, con l'aggiunta di un ex nihilo, che sottolinea l'anteriorità cronologica e ontologica di Dio rispetto ai prodotti della creazione. Il mondo greco antico conosce due modi ben distinti e due termini diversi per alludere a ciò che chiamiamo intelligenza: nous e metis. La prima è l'intelligenza inattiva e contemplativa, quella che intus-legit, e cioè “legge dentro” le cose, le conosce nella loro essenza concettuale, senza tuttavia preludere ad alcun tipo di azione o di comportamento. È l'intelligenza astratta, disimpegnata da ogni vincolo con il “fare”. Ben diversa è, invece, la metis, l'intelligenza attiva ed esecutrice, preposta all'azione, e dunque provvista di abilità e di prudenza, di astuzia e pazienza. Il nous contempla; la metis, come la creatività, genera. Già nell'Iliade, Odisseo è presentato come polymetis (“molto astuto”), polymechanos (“molto abile”) e polytlas («molto paziente»); un campione di quell'intelligenza pragmatica capace di creare soluzioni anche in situazioni all'apparenza senza sbocchi. La guerra di Troia si concluderà per quello che potremmo chiamare un esempio di vivace creatività, un vero “colpo di genio” di Ulisse, al quale si potrebbe dunque riferire ciò che Eraclito scrive di Pitagora, quando lo accusa di essere kopidon archegos, “inventore primo di inganni”. Ma campione della metis è anche Prometeo, che la metis porta già nel suo stesso nome. Egli sarà anzi assunto come patrono degli artigiani,
  • 49. perché accreditato in forma eminente della capacità di produrre. Senza dimenticare che Zeus riuscirà a vincere la lotta per la conquista dell'Olimpo solo quando avrà ingoiato colei che egli aveva scelto come sua compagna: Metis; riuscendo con ciò ad aggiungere a Kratos e Bia, ovvero al Potere e alla Violenza, anche l'intelligenza pratico-creatrice. Quasi a dire che, per governare, non basta l'esercizio della violenza e l'uso del potere, poiché è non meno indispensabile anche la creatività. Così si comprende anche per quale motivo la dimensione temporale che più si addice alla creatività della metis non è il chronos, il tempo della successione, la misura del divenire, l'accezione quantitativa di tempo. Connesso alla metis è piuttosto il kairos, il tempo opportuno, l'attimo che fugge, e cioè quella variante qualitativa del tempo in cui si manifesta un evento extra-ordinario, che va afferrato al volo, come insegna la raffigurazione classica del kairos: un giovane calvo sulla nuca e provvisto di un vistoso ciuffo sulla fronte, che dobbiamo afferrare quando ci viene incontro, se non vogliamo perdere il “momento buono”. Ciò che nella nozione originaria di metis appare ancora implicito e indistinto, esplode alcune volte nella cultura moderna e contemporanea in forma di contrapposizione insanabile. Soprattutto nella concezione romantica, la creatività è un requisito attinente all'affettività e ai sentimenti, ma non alla ragione, il cui dispotismo geometrico è considerato in contrasto con la libera espansività della creazione artistica. Già dai primi decenni del Novecento, però, l'irrompere della Gestaltpsychologie prima, e del cognitivismo poi, in campo psicologico e l'affermazione impetuosa delle neuroscienze conducono a un simmetrico rovesciamento dell'impostazione romantica. Non l'arte, ma la scienza, non gli affetti ma la razionalità, costituiscono il terreno di espressione della creatività (si ricordi la citazione di Poincaré con cui si apre il presente paragrafo). Si profila con ciò una sorta di dualismo fra due accezioni diverse di creatività, a seconda che essa venga riferita all'intuizione e alla sfera generale dei valori poetici (in una visione in sostanza antirazionalista, che sopravvive nel pensiero